Come restringere il campo di ricerca nell’immensa foresta labirintica delle famiglie nobili d’Europa? Se sia esistita una “stirpe del Graal” è una domanda quasi oziosa, retorica, considerando i contesti nobiliari-cavallereschi al cui interno sorgono i romanzi graalici più celebri come il Parzival e il Conte du Graal o Perceval. Ma anche per i romanzi anonimi il contesto genetico è similare: le migliori corti aristocratiche di un’area che corrisponde alla Loratingia.
Qu’ vagano i poeti-cavalieri erranti da una corte all’altra e qui vivono le nobildonne più libere, raffinate, colte e potenti del medioevo cattolico. Da queste stesse famiglie verranno poi la prima Crociata i primi Templari. Il cuore dell’Europa cavalleresca è il Limes, cioè la Lotaringia in quanto è lungo il Reno che la migliore tradizione di Roma si fonde in profondità con la Cristianità più mistica e austera e con la cavalleria errante germanica. Lungo il Reno restano molte fortificazioni romane che diventano castelli medioevali e lungo il Reno s’irradia una rete di abbazie benedettine custodi di reliquie di Cristo.
Sul Limes romano-lotaringico rimangono intime le relazioni tra Franchi d’occidente e Franchi d’oriente e non a caso la monarchia franca quale monarchia sacrale-mistica sorge nella Gallia Belgica come dalle Friandre verrà l’eroe della prima Crociata: Goffredo di Buglione, il Cavaliere del Cigno, l’Avvocato del Santo Sepolcro e dalla contea di Champagne tutti i primi nove Templari. Maria di Francia ed Eleonora d’Aquitania sembrano uscite da un romanzo graalico e supportano lo sviluppo e il successo dell’epos del Graal.
Occorre quindi scavare con pazienza e notare relazioni, matrimoni, affinità oltre lo stesso velo dell’apparente caos di guerre, contese, dispute medioevali che confonderebbero anche il migliore detective. Occorre cercare i ceppi nobiliari più antichi, più polarizzanti, aggreganti e fecondi e che potrebbero derivare dai primi secoli della monarchia franca, quanto ancora non esisteva un “regno di Francia” ma solo uno o più “re dei Franchi”.
Sfrondare fra guerre di dettaglio semplicemente politiche-economiche e guerre per speciali successioni feudali che sembrano alludere ad altra posta in gioco: la successione-cooptazione in una linea di sangue ritenuta più nobile di tutte in quanto custode di un tesoro vivo e vivificante: il Santo Graal di Cristo. I criteri selettivi sono molti e complementari anche se la ricerca è come di un ago in un pagliaio (ma se si hanno le calamite giuste…): a) area lotaringica; b) elemento femminile prevalente; c) successione zio-nipote tipica delle stirpi merovinge e presente anche nei romanzi graalici come già ha rilevato l’ottima analisi di Andrea Augello (La Compagnia del Graal, Aragno, 2006 e: suo contributo in: Il Racconto del Graal, Jouvence, 2021); d) segnaletica araldica; e) segnaletica graalica (tortora-colomba, pantera, luccio, aquila bianca, giglio bianco); f) il tema angioino-normanno. Esiste poi un altro indice che confonde ma pure supporta: la segnaletica araldica del “ramo fronzuto” quale segnaletica graalica.
Questa ovviamente è una semplice ipotesi, in quanto quando ammiriamo un re o una regina o un duca o marchese che in una miniatura o in un sigillo o medaglione brandisce un ramo con foglie potrebbe semplicemente indicare il ramo principale della stirpe, titolare alla successione dei titoli. Qui l’ipotesi è molto semplice: per certe famiglie tale segnaletica simil-araldica indicherebbe la detenzione del Graal stesso, similmente alla segnaletica della colomba sullo scettro o in mano e all’uso normanno dell’emblema della pantera. Tanto più quando sono nobildonne se descritte a cavallo con falchi-colombe a braccio o brandenti recipienti o rami fronzuti.
Proviamo ad elencare alcune significative ricorrenze che ci pare vadano ben oltre una normale autocelebrazione aristocratica ma invece possano indicare allusivamente una ritenuta “stirpe-dinastia del Graal” di Cristo, cuore della Cavalleria mistico-imperiale europea, ma prima una citazione pregiudiziale: l’uso allegorico della figura femminile nell’Evangelario di Ottone III. In una delle sue miniature si ammira un corteo imperiale composto tutto da donne ciascuna delle quali indica un’importante area appartenente al Sacro Romano Impero: Slavinia, Germania, Gallia e Roma.
La prima donna allegorica brandisce una sfera aurea, la seconda una cornucopia, quella che allegorizza Roma un graal aureo con pietre preziose e la Donna-Gallia reca nella mano destra un ramo fronzuto, che ritualmente quindi appare nel mezzo fra una cornucopia e un prezioso graal. Ammiriamo ora una sequenza di sigilli e miniature impressionante dal punto di vista simbolico-allusivo, specie se meditate nel loro insieme panotticamente: il sigillo di Elisabetta di Vermandois che indica un’alta pianta fronzuta e un reliquiario nelle sue mani; il sigillo di Eleonora di Vermandois con un uccello nelle sue mani (colomba? falco? Segno mostrato anche da Margherita di Fiandra, Giovanna di Costantinopoli e Giovanna di Fiandra). Certe volte l’uccello è congiunto al giglio come nell’emblematica di Bertrada di Montfort.
Che cos’è uno scettro dopotutto se non la stilizzazione di un ramo fronzuto, di solito con un giglio sul vertice, come già vediamo nella rappresentazione di re Clotario I e Chilperico I? E questo non ricorda l’archetipo della verga fiorita di Giuseppe nel Tempio secondi i rapporti degli apocrifi come il Protovangelo di Giacomo? Segno teofanico e ierogamico dell’elezione di Giuseppe a sposo dell’eletta Maria, adepta del Tempio di Gerusalemme. Questo archetipo del ramo-scettro è diffuso tra tutti i capostipiti nobiliari più importanti, basti pensare ad Enrico I di Sassonia e Ottone I (Corpus Christi, Cambridge, Ms 373, fol. 40r; Chronica sancti Pantaleonis, seconda metà del XII secolo. Herzog August Bibliothek, Wolfenbüttel, Cod. Guelf. 74,3 Aug.) come a Berengario del Friuli (Johannes Berardi, Chronicon casauriense, - Mandragore Latin 5411) o nel caso di Carlo il Calvo ( Codex Aureus de San Emmerano», c. 870. Munich, Bayerische Staatsbibliothek).
Come unendosi i due gigli sorge la dinastia Sassone così il capostipite dei conti di Mantova Adalberto Atto brandisce nella mano destra un lungo ramo fiorito. Che pianta è? Una ginestra? Un giglio selvatico? La stessa Annunciazione presenta in certi dipinti un Arcangelo Gabriele che brandisce non un giglio ma un’altra essenza arborea? Simile origine arborea del segno massimo della sovranità lo ritroviamo nella miniatura di Enrico VI nel Codice Manasse quanto nel Liber ad Honorem Augusti (Manuskript Peter von Eboli(1195) Autor: Angus Konstam Beschreibung) dove l’imperatore tiene in pugno una vera pianta florida e dall’aspetto vagamente esotico come similmente ostende Bonifacio III di Toscana in una miniatura della Vita Mathildis di Donizone del monastero di Sant'Apollonio di Canossa.
Altra ricorrenza di questa segnaletica nella sua versione floreale, qui rossiccia, mostra ancora in mano la potente nobildonna Beatrice di Bar o di Lotaringia come già la sua antenata feudale Beatrice di Navarra fino a giungere al fiore-alabarda del sigillo di Costanza di Sicilia-Aragona che sviluppa il fiore alzato da Costanza d’Altavilla. Nella Cronaca di Eccheardo d’Aura l’imperatore Enrico IV di Franconia trasferisce il potere imperiale al figlio Enrico V (Chronicon universale, Berlino, Staatsbibliothek, Ms. lat. fol. 295, fol. 99r.) porgendogli la sfera del mondo e una corona (che assomiglia alla Corona Ferrea) mentre l’eletto alza una verga-fiore, segno del suo diritto di legittimazione alla successione come fa la regina Petronilla di fronte a Raimondo Berengario e Ramiro I d’Aragona rispetto al figlio Sancio. Abbiamo quindi due versioni di questo immaginario regale-imperiale: la versione estesa a lungo ramo in alcuni casi della quale appare evidente che si tratti di una pianta-fiore particolare con tre petali (prima che venisse uniformato al giglio) come in una miniatura dell’Imperatore Ottone I, e la versione più semplice e “ridotta” con il medesimo fiore, che ricorda il giglio, tenuto in mano.
Si tratta di una segnaletica che và oltre i canoni consueti che possiamo ritrovare ad esempio nel sigillo di Margherita di Scozia: globo regale e scettro, ma sembrano alludere ad un altro tipo di nobiltà, più segreta, iniziatica. Incrociando i criteri sopraccennati con le famiglie dei committenti conosciuti dei primi romanzi graalici (1180-1240) e con l’araldica graalica essenziale (giglio bianco, aquila bianca, pantera, luccio) possiamo restringere la nostra prima ricerca a sedici famiglie-feudi esistenti in Lotaringia alla metà del XII secolo, quando inizia l’epos del Graal e tutti con probabili quando non certe antiche origini o merovinge o normanne: Soissons, Vermandois, Blois, Brienne, Bar-Lorena, Clermont, Hainaut, Lusignano, Bosonidi, Boulogne, Montebeliard, Rethel, Roergue-Angouleme, Rohan, Atti-Aleramici e Attoni-Canossa.
Famiglie in cui la linea femminile appare prevalente (insieme all’alternanza zio-nipote) e che appaiono tra di loro intrecciate come pure molto interessate alle reliquie di Cristo come i nostri Atto-Canossa, connessi con il ritrovamento e la custodia dei lasciti cristici di San Longino nell’area di Mantova. Anche nell’immaginario dell’Annunciazione di Maria ci sono ricorrenze dove il giglio non viene tenuto in mano dall’arcangelo Gabriele ma compare in un vaso vicino alla Vergine quale sua chiara ed immediata allegoria di perfetta purezza e integrità mentre il messo divino brandisce un ramo di un'altra pianta, verde come nella bellissima e aurea Annunciazione di Simone Martini degli Uffizi. Che la pianta fiorita o “ramo fronzuto” possa semplicemente ridursi a mera indicazione di capostipite dinastica è ipotesi facilmente accantonabile.
Basti considerare il caso, tra i molti, di Raimondo Borrel conte di Barcellona il quale nel “Rotolo genealogico” del monastero di Poblet brandisce il nostro ramo con tre fiori bianchi senza potersi considerare il capostipite degli Aragona in quanto Borrel II lo precede, brandendo un ramo di palma nel medesimo stupendo documento, a sua volta preceduto dal conte Surriel I con la simile triplice pianta. Bernardo di Gotia invece mostra come stemma un semplice scudo rosso-vermiglio come Enrico Welfen detto il Leone.
Il “cattivo” cavaliere arturiano appare sempre contrassegnato dal colore vermiglio e dall’assenza di uno stemma strutturato: viene chiamato appunto “Cavaliere orgoglioso” o “Cavaliere vermiglio” o “Orgoglioso della landa. Da dove viene il misterioso “fiore bianco” che diventerà poi il giglio di Francia? Possiamo sottolineare due precedenti significativi: il fiore bianco della contea di Orleans e il simile stemma del feudo di Hagenau, il cui castello era il maniero prediletto da Federico Barbarossa. Entrambi i feudi sono connotati anche da una vasta foresta limitrofa. Orleans domina infatti la “Foresta Orientale”.
I romanzi graalici mostrano sempre l’eletto chiamato alla cooptazione cavalleresca quale cavaliere solitario errante in vaste foreste ciascuna delle quali ha un nome unico (Foresta Guasta, Foresta Bianca…) e ciascuna delle quali rappresenta una prova rituale necessaria per accedere all’iniziazione del Graal. Uno dei primi conti di Orleans conosciuti, Geroldo I di Vintzgau, sembra connesso con la stirpe germanica degli Agilolfingi a loro volta intrecciati con il Regno longobardico in quanto da loro viene la regina Teodolinda.
Lo stesso stemma della città di Orleans mostra tre fiori bianchi trilobati ben distinti dai classici gigli che pure vi compaiono. Colomba e pianta che sembra orientale sono compresenti in un sigillo di Filippo di Fiandra, committente del primo romanzo del Graal. Non basta ricordare le leggende che volevano i Merovingi porsi misticamente quali eredi del Regno di Israele per spiegare tutto ciò. Il romanzo graalico più significativo a livello di segnaletica araldica è certamente l’anomimo poema in francese antico detto Perlesvaus.
Quest’opera fascinosa e avventurosa è articolata in undici “rami” che la mentalità contemporanea riduce facilmente a semplici 11 capitoli ma a parere di chi scrive si tratterebbe di iundici stipri graaliche da restaurare-recuperare nei loro tesori e nella loro dignità. Il Perlesvaus completa il Perceval e il Parzival scrivendo in senso posteriore alla caduta graalica del protagonista e tenendo uno sguardo d’insieme sulle eroiche azioni necessarie ad una globale restaurazione di un “Regno del Graal” rimasto isolato e obliato dalla corte di Artù e dal resto della Cavalleria e della Nobiltà.
Uno sguardo corale e collettivo che emerge solo in questo romanzo con grande precisione e concretezza. L’importanza dell’araldica, degli emblemi e dei simbolismi cavallereschi se appare appena accennata nei colori bianco-neri citati dal Parzival, probabile riferimento al blasone del ducato di Bretagna, e nel riferimento agli Angioini e ai Templari emerge invece con forza e con chiarezza omnipervasiva nel Perlesvaus quale codice immersivo e omnipervasivo. Qui ogni “ramo” del romanzo appare contrassegnato da un emblema posto su di uno scudo e talvolta ogni ramo contiene un “cambio di scudo” vittorioso per l’eroe come accade per Perlesvaus e per Galvano che assumono l’usbergo parlante del cavaliere sconfitto come dovessero radunare una stirpe dispersa e obliata.
La stessa strutturazione del racconto in “rami” e l’insistenza sull’immagine simbolica dei sepolcri e delle teste tagliate allude e rinvia chiaramente al tema centrale (sia graalico che storico) di un lignaggio in crisi che tenta di recuperare il senso della propria missione e le radici della propria eredità spirituale la cui continuazione viene garantita dal possesso di reliquie, scudi e corpi di antichi cavalieri. Se nel Perceval la simbologia principale era connessa con il cambio dei vestiti del giovane chiamato alla cavalleria e in certe situazioni simboliche come quella della Tenda nel bosco qui abbiamo una lucida costruzione “ad itinerario” come in una sorta di “gioco dell’oca” cavalleresco dove ogni ramo è connesso ad un albero geneaologico presupposto e portante. Se undici sono i “rami” allora le stirpi di Galvano e di Perlesvaus appaiono quelle decisive e superstiti quali lignaggi chiamati a recuperare le dignità e i tesori delle altre undici famiglie dimenticate, oppresse, obliate rispetto alla comune missione di cooptazione graalica. Ogni romanzo del Graal è il romanzo della crisi della Cavalleria, sia mondana che graalica e dell’Ideale della sua perpetuazione tramite alcuni eletti. Questa appare l’impressione di chi scrive. Il primo ramo possiamo chiamarlo: “della crisi di re Artù” dove il re supera la propria malattia spirituale recandosi in pellegrinaggio “a briglie sciolte”, guidato quindi dalla Provvidenza, alla Cappella boschiva e miracolosa di Sant’Agostino nella Foresta Bianca.
Un Artù che parte guidato dallo Spirito come San Brandano e i monaci nordici che si mettevano in mare su gusci di noce volutamente privi di timore, albero e remi affinchè fosse solo la Provvidenza a guidarne la peregrinazione. Torna il tema, già di altri romanzi, sull’importanza di queste particolari Foreste, ora desolate e ora molto attraversate, o prodigiose e bellissime fino alla Foresta al cui interno sorge lo sfuggente Castello del Graal. Foreste rituali e iniziatiche per i rampolli eletti chiamati all’educazione e alla prova graalica a loro iniziale insaputa. “Undici Rami” equivale ad Undici Foreste e a “Undici stirpi” graaliche da salvare.
Araldicamente abbiamo nel primo ramo due immagini forti: la croce vermiglia e la testa del cavaliere nero. Il tema della testa è fondante per il Perlesvaus e a mio parere questo segno va considerato nella sua quasi-letteralità allusiva: deve trattarsi del tema dei “capostipiti” di undici famiglie graaliche che hanno dimenticato la loro missione graalica e che le due famiglie rimaste “attive” sono chiamate a risvegliare e cooptare di nuovo nella “successione iniziatica” del Graal. Lo svela per un attimo Dandrane la sorella di Perlesvaus quando confida a re Artù che la testa del cavaliere nero le permetterà di riavere un castello della propria famiglia, che, però, potrebbe riavere anche grazie all’azione di Perlesvaus stesso. Lo svelamento dell’etimo dell’eroe protagonista appare in questo funzionale a tale messaggio: “colui che ha perso le valli” di famiglia e alla cui madre, la Dama vedova, appartiene il feudo di Kaamalot, è chiamato provvidenzialmente a restaurare un dominio dinastico su castelli, reliquie e territori.
La “cerca” graalica di questo romanzo procede per l’incontro con sepolcri, reliquie, cimiteri, teste, cripte come in una complessa “caccia al tesoro” che deve ricomporre un’unità dispersa e una continuità spezzata. Il primo ramo svela lo scudo di Perlesvaus: un cervo bianco su fondo vermiglio. Nel ramo II compare un scudo importante, quello di Giuseppe d’Arimatea, declinato in fasce argentee e azzurre con una croce vermiglia e una borchia d’oro, preannunciando uno scambio decisivo che avverrà per l’eroe protagosnita proprio tra questi due scudi: Perlesvaus dovrà lasciare il suo alla corte di Artù e prendere quello più antico e più prestigioso di Giuseppe d’Arimatea, portato alla corte arturiana dalla “Dama sulla mula” che insieme ad altre due simboliche dame rappresenta la parte femminile del corteo graalico che ora monta un carro nero con tre cervi bianchi e una croce aurea.
Sono queste dame le depositarie dello scudo più antico destinato all’eroe del Graal come una di esse con la sua calvizie dimostra in chiara allegoria lo stato di desolazione post caduta graalica. Le calvizie della Dama corrispondono simbolicamente all’essere “guasta” della Foresta di Perceval nel romanzo di Chretien. Tre corna di cervi indicano nell’araldica del XII secolo la famiglia Hoenstauffen e derivano dal Castello salico di Waiblingen. Nel ramo III Galvano si scontra con un avversario malvagio (Il Signore delle Paludi) contrassegnato da uno scudo rosso, senza immagini, che storicamente ricorda quello di Enrico Welfen di Sassonia, detto il Leone, cugino del Barbarossa e suo traditore.
Galvano riceve la sua investitura di ricerca graalica tramite la conquista di uno scudo speciale appartenuto a san Giuda Maccabeo, uno dei protettori della Cavalleria e connotato da un’aquila aurea su fondo vermiglio, da lui vinto a Chaot il rosso, alleato del Signore delle Paludi. Questo scudo non viene scambiato ma aggiunto al proprio (non a caso non descritto) e questo mentre segue il misterioso carro con i cervi delle tre Dame del corteo del Graal la cui funzione catechistica-mnemonica appare chiarissima nella sua concreta utilità di assistenza rituale ai cercatori del Graal. Nel ramo IV ecco un altro emblema: lo scudo mezzo bianco e mezzo nero del “cavaliere codardo”, probabilmente figura anch’essa allegorica della crisi della cavalleria graalica e infatti non a caso conoscente delle tre Dame del carro nero.
Notiamo anche l’analogia simbolica tra il nero a lutto del carro con i cervi e l’epiteto di “Dama vedova” dato alla madre di Perlesvaus. Le Dame graaliche sono tre come le tre Marie dei Vangeli alla deposizione di Cristo e come le tre sante che giungono in Camargue con Giuseppe d’Arimatea secondo leggende locali molto simili al romanzo graalico di Robert de Boron. I “rami” sono undici come gli apostoli dopo il tradimento di Giuda e dodici sono gli zii paterni di Perlesvaus secondo il racconto del romanzo. In funzione vicaria di difesa Galvano, sempre complementare a Perlesvaus come in Chretien, diventa il temporaneo difensore di Kaamalot contro il Signore delle Paludi.
Quando Galvano giunge dalla madre di Perlesvaus ella si aspetta una ierofania da parte di un sepolcro che dovrebbe cristicamente aprirsi all’arrivo del figlio, imago Christi nella Cavalleria. Il tema è sempre lo stesso, pur declinato in vari modi: la restaurazione della Cavalleria del Graal e delle stirpi, delle proprietà e delle successioni genealogiche necessarie alla sua trasmissione e perpetuazione. Dove possono esserci “valli” nella Francia antica? O nelle Ardenne o in Alvernia. Non in altre aree. Ancora oggi il termine “Vallonia” non indica una serie di Valli? Il Perlesvaus è il romanzo dei castelli e dei luoghi graalici, come la Tenda delle damigelle e del nano e la Fontana dalle colonne di marmo.
Nell’episodio della Tenda narrato nel ramo V, versione più raffinata del simile Padiglione che incontra il Perceval di Chretien, abbiamo un luogo edenico e biblico con candelabri e profumi e all’interno chiari segni tanto graalici, come il tavolo d’avorio, quanto araldici: un drappo da letto d’ermellino, verde picchiettato d’oro. La Tenda è bianca con copertura vermiglia e un’aquila d’oro in cima. E così via per ogni “ramo” abbiamo almeno due stemmi dominanti. Lo scudo di Lancillotto ad esempio indica una croce aurea su fondo bianco e ricorda la croce dei Bosonidi: stirpe di origine normanna che dominava su Borgogna, Savoia e Vallese, quindi anche sull’abbazia di San Maurizio, patrono della Cavalleria e il cui segno della spada ricorda uno dei talismani paragraalici che rappresentano de passaggi rituali chiave nella storia graalica del Perlesvaus.