Nel desiderare ci accostiamo al cielo, osserviamo il firmamento delle stelle luminose lassù, portiamo lo sguardo sognante in direzione della luna, astro che non avevamo mai considerato prima e che continuerà per sempre a portarci pensieri felici con il suo carico di sorrisi e di benevolenza.
Nel desiderare entriamo nel proscenio della notte e contiamo le stelle a una a una, cercando di interpretarne i segni, le congiunzioni, i movimenti lenti che raccontano i tempi lunghi della vita umana la quale scorre al suo ritmo costante nonostante i sommovimenti e gli scossoni del transitorio quotidiano.
Nel desiderare stiamo lì, passeggiando sulla battigia quando tutto intorno è intriso nel buio dell’inchiostro o seduti su uno scoglio ascoltando lo sciacquio delle onde del mare nero, per comprendere cosa, diamine che cosa, quei punti lucenti là in alto, sopra le nostre teste, abbiano da rivelarci.
Quando desideriamo, quando desideriamo davvero, siamo in connessione con il cielo e al tempo stesso ce ne allontaniamo, nel dondolamento nostro diuturno. Nel battere delle tempie, nel tuonare del cuore, nell’arsura della nostra gola, comprendiamo quanto siano vere le parole che Marguerite Yourcenar fa pronunciare all’imperatore Adriano: siamo una cerniera tra la volontà e il destino. Traduciamo noi: siamo una zona di labile confine tra il libero arbitrio e la sorte, tra la terra e le stelle.
Desiderare, staccandoci dalle stelle che ammiriamo nel cielo
Il desiderio è percezione di mancanza. Il desiderare è avvertire che quella mancanza squassa l’esistenza e spinge alla ricerca. Der Suchende era definito Siddharta Gautama, colui che cerca, benché si fosse messo in cammino anche per cercare di allontanarsi dalla potenza dei pensieri desideranti.
L’italiano desiderare deriva dal latino desiderāre ‘desiderare’, ‘rimpiangere’, connesso con il verbo sempre latino che gli è fratello, considerāre, con il significato originario di ‘cessare di vedere’ e quindi ‘constatare l’assenza’ e quindi ‘rimpiangere’. Considerāre voleva dire ‘osservare’, ‘scrutare’, derivato di sīdus -ĕris ‘astro’, con il prefisso co(n)-, e quindi col significato originario di ‘osservare gli astri’ per trarne auspici. Considero, quindi osservo; desidero, smetto di osservare e quindi rimpiango.
Quando consideriamo, osserviamo le stelle, ci colleghiamo a quello che il firmamento ha stabilito per noi nella danza degli astri nel cielo. Ammiriamo i punti luminosi che si spostano sopra le nostre teste e cerchiamo di comprendere il nostro destino in libertà. Se nel considerare siamo con i sidera, nel desiderare ci stacchiamo da essi, come se volessimo dare più spazio alle nostre libertà e alla nostra capacità di scegliere la rotta, la meta, il porto a cui far attraccare la nostra fragile barca.
Volere è potere (talvolta)
“Gran parte del progresso sta nella volontà di progredire”, lo diceva nell’antica Roma Lucio Anneo Seneca, il filosofo stoico. “Nelle cose del mondo, non è il sapere, ma il volere che può”, ripeteva nell’Ottocento il letterato italiano Niccolò Tommaseo. “C’è una forza motrice più forte del vapore, dell’elettricità e dell’energia atomica: la volontà”, riprendeva il concetto nel Novecento lo scienziato tedesco Albert Einstein. Con la volontà si può molto. Anche se è bene diffidare da chi sostiene che con la volontà si può tutto. La vita porta a conoscere e riconoscere i limiti della forza di volontà, la presenza di sbalzi, la necessità di accettare il fatto che una parte del tragitto è guidata dal fato.
A l’alta fantasia qui mancò possa
ma già volgeva il mio disìo e il velle,
sì come rota ch'igualmente è mossa,
l'Amor che move il sole e l'altre stelle.
Con le parole disìo e velle si chiude il terzultimo verso della terza cantica della Commedia. L’alta fantasia, l’immaginazione, la capacità di prefigurare il potere viene meno, di fronte alla vista dell’assoluto dantesco ma già il desiderio e la volontà del poeta era guidata, governata dall’Amore che muove il sole e le altre stelle. E in quel volere troviamo l’eco del verbo latino velle, di provenienza indoeuropea. Dal Gange all’oceano Atlantico, in molte lingue antiche e moderne quella radice antica si insinua per farci esprimere l’obiettivo di raggiungere una meta.
La pittrice messicana Frida Kahlo ha scritto una delle poesie più potenti e intense che esistano, rivolta al marito Diego Rivera, che nella traduzione più diffusa in italiano si conclude con questa frase sul volere: “Porque si tengo que pedírtelo, ya no lo quiero”, “Perché se devo chiedertelo, non lo voglio più”.
Aspirare a respiri di maggior benessere
Aspirare a un titolo importante. A una carica. A un impiego. Anche semplicemente a un po’ di tranquillità. A una tazza di serenità sorseggiata la sera. Aspiri, cioè riempi il petto della volontà di raggiungere qualcosa. Il verbo è qui intransitivo, aspiri a qualcosa.
Quando invece aspiri il fumo della sigaretta allora il verbo diventa transitivo, esige un complemento oggetto, vuole qualcosa che possa essere aspirato. E tra i due significati del verbo aspirare c’è in comune il desiderio di portare dentro di sé, di colmare i polmoni socchiudendo gli occhi per la brama di ciò che non si ha. Antenato di aspirare era il verbo latino aspīrāre, e cioè ad- spīrāre, ‘soffiare’, ‘aspirare’, a sua volta dal verbo spīrāre che voleva dire ‘soffiare’, ‘respirare’. ‘esalare’. Ogni giorno della nostra vita noi respiriamo, riempiendo e vuotando i polmoni. In media in una vita, respiriamo 670 milioni di volte. Ciascuno di noi vorrebbe ogni singolo respiro con più benessere, con più gioia, con più vitalità. Ciascuno di noi chiede alle stelle non qualche manciata di milioni di respiri in più ma che ogni respiro abbia una dose importante di aspirazioni e di desideri fecondi.
Bramare, come una mucca
Curiosa l’origine del verbo bramare, che significa ‘desiderare ardentemente’, ‘agognare’: riporta la nostra mente alla campagna, ai prati, al tepore delle stalle. Per la prima volta il verbo è comparso in testi italiani del XIII secolo: si tratta di un prestito germanico medievale. Dal germanico brammōn che voleva dire ‘muggire’, come il medio basso tedesco bramman significava ‘ruggire’ e in tedesco brummen sta per ‘ronzare’. In francese bramer è ‘muggire’, ‘bramire’, in occitano e catalano bramar vuol dire ‘ragliare’, in spagnolo e portoghese bramar significa ‘ruggire’, ‘fremere’.
E l’italiano bramare che ci azzecca con le mucche che muggiscono? Risponde Alberto Nocerini con il suo dizionario L’Etimologico: “La fonte germanica resta imprecisata e il prestito è diffuso in tutte le lingue romanze occidentali, che per lo più conservano il significato originario. L’italiano bramare si è evoluto in ‘desiderare ardentemente’ attraverso l’interpretazione del richiamo forte e ripetuto dell’animale come espressione del desiderio dell’accoppiamento”. E così quando bramiamo, bramiamo come una mucca. Propriamente “urliamo dal desiderio”.
La sete, la fame e l’appetito
Quando desideriamo intensamente, tutto il corpo si protende al di fuori di sé: è la gola che arde, sono le membra che fremono, è la pelle tutta intera che sente la smania del contatto. Per esprimere la sensazione del desiderare, possiamo usare le espressioni aver sete o aver fame: ciò che sta alla base del nostro vivere sulla terra, come il bere e il mangiare, si impregna della luce delle stelle.
La parola sete deriva dal latino sĭtis che voleva dire ‘sete’ e, in senso figurato come oggi in italiano, ‘bramosia’. Quel sostantivo antico sĭtis si confronta con il sanscrito kṣitis che voleva dire ‘distruzione’, derivato della radice kṣi-, ‘perire’, ‘esaurirsi’. Questi confronti, questo tentativo di arretrare nel tempo, questa tensione a comprendere gli antenati più remoti delle parole che usiamo ci restituiscono il significato originario del termine che si rifà a qualcosa che non c’è più e che è stato devastato. Ho sete perché l’edificio che abitavo è crollato e ora, in preda all’arsura, desidero una nuova casa.
Anche la parola fame ha un’origine latina, fămes, e indica la necessità di assumere cibo e la mancanza di cibo ma al di fuori del latino gli studiosi di linguistica ancora non hanno trovato connessioni. Resta la suggestione: senza pane con cui nutrirci, senza acqua che ci abbeveri restiamo nel desiderio di soddisfare le nostre primarie necessità. Simile connessione con la parola appetito nel senso di desiderio. In questo caso, il parente da cui deriva è il verbo latino appĕtĕre ‘agognare, bramare’, propriamente ‘tendere verso’, ‘cercare di afferrare’, derivato a sua volta di pĕtĕre ‘dirigersi’, ‘richiedere’, da cui l’italiano petizione.
Il desiderio nell’antica Grecia
In greco antico più parole si utilizzavano per indicare il desiderio, la brama, la voglia. Una era epithumìa. Questo sostantivo in sé è meraviglioso: conserva le tracce del thumòs, cioè dello spirito, dell’animo, della sede delle passioni, di quel principio vitale che di desiderio si innerva, del centro da cui si irradiano le emozioni che portano al mutamento di stato, al cambiamento, al moto. L’omologo latino di thumòs, che ne condivide la radice, era fumus, da cui l’italiano fumo. E a premessa del thumòs, nell’epithumìa che significa desiderio, si trova la particella èpi- che nella lingua di Omero voleva dire ‘sopra’, ‘in più’, ‘di più’, e che in italiano ritroviamo nelle parole che indicano ripetizione, sovrapposizione, aggiunta.
Nel desiderio abbiamo un animo che si ravviva, si moltiplica, un caleidoscopio di sensazioni, emozioni, passioni che ti scaldano dentro. Un’altra parola utilizzata per esprimere il desiderio nella lingua di Platone e Aristotele era euché. Qui il desiderio diventa preghiera, voto, supplica. Questo il significato principale del sostantivo. Il verbo da cui deriva è èuchomai, che appunto vuol dire prego, supplico, imploro, come se nel desiderare ci collegassimo agli dei celesti e chiedessimo loro un intervento perché le nostre volontà possano avverarsi.
Terza parola con un significato simile, òrexis. Qui il verbo a cui si connette è il verbo orègo, che si collega al verbo italiano erigere e all’aggettivo retto. Orègo voleva dire tendo, protendo, come quando si tende la mano verso qualcosa. Significava anche porgo, presento, offro. In alcune costruzioni grammaticali poi assumeva il senso di ‘mi protendo verso qualcosa’ e di conseguenza ‘prendo la mira’, ‘ambisco’, ‘desidero’, ‘aspiro a’, ‘cerco’. Qui il desiderio diventa quindi un movimento del corpo, verso altro da sé, un porgersi in avanti e cercare di ghermire, di toccare o anche solo sfiorare ciò che ancora non possediamo e che forse non possederemo mai.