C’era una volta un paese chiamato Argentina, la terra del sole, del sogno e della speranza. La nuova frontiera e l’orizzonte più spendibile per milioni di migranti. Sfollati e fuggiaschi travagliati e frettolosi che correvano disperatamente incontro a un’agognata libertà. Negli occhi aperti, gli orrori immarcescibili della guerra e le indimenticabili follie dell’arianesimo. E nel cuore acceso, l’auspicio intramontabile e la volontà inebriante di riuscire irreversibilmente a costruirsi un futuro migliore e una nuova vita in un paese più giusto, equo e ricco di prospettive. E di rinascere, ricominciando pertanto a vivere e a prosperare. Sotto un cielo azzurro e infinito come l’oceano crudo e insensibile che li separava definitivamente da casa. Senza mai cancellare i ricordi indelebili, la nostalgia ferrea e l’amore estremo per le loro origini e per la loro terra, quasi sempre sinonimo di fame, di povertà, di miseria e d’alienazione.
Tragitti infausti, ben più ardui e dolorosi da vivere e da percorre per tutti gli Italiani che, con la classica valigia di cartone tra le mani e un pugno scarso d’appaganti illusioni in fondo all’anima, lasciavano velocemente gli affetti d’un’esistenza e il loro consolidato microcosmo. Per immergersi munificamente in un’avventura pari a un salto ottenebrante nell’ignoto. E andare coraggiosamente a scrivere all’altro capo del mondo nuove importanti pagine della loro storia privata e personale. Facendosi dapprima limpidamente trasportare dalle onde pure di acque sconfinate che non sempre avevano visto. E, quindi, anche cullare gentilmente dalle mille promesse sensibilmente sospirate loro dalle stelle. Realtà fisse come idee incrollabili e magiche come le visioni più oniriche ed eloquenti dei fanciulli. Tangibilità concrete, solidamente invitanti, lucide e dilettevoli. Per tutti i 15.000 kilometri in linea d’aria che irreparabilmente li dividevano e li scindevano per sempre da un passato che, in un modo nell’altro, avevano decisamente scelto di sotterrare e di dimenticare. Per tuffarsi a capofitto in un mondo nuovo di zecca e vivere troppo spesso vicende altamente paradigmatiche e destini non troppo dissimili.
Esistenze precarie e sofferte. Da estranei imprescindibilmente costretti ad incrociarsi e da stranieri intransigentemente forzati a sfiorarsi. Vite insicure e provvisorie. Percorsi umani pieni di stenti inenarrabili, di privazioni ineffabili e di sacrifici indescrivibili. Cammini delicati, aspri e difficoltosi. Per trovare piano piano un spazio degno e adeguato in una realtà quasi ignota, estrema e insensibile. Cercando ineccepibilmente d’adattarsi e di confrontarsi animosamente con un’altra lingua, con una cultura diversa, con una mentalità differente e con uno stile di vita del tutto alieno, inesplorato e sconosciuto. Viaggi epici. Passaggi troppe volte inosservati e inavvertiti nel cuore freddo e distaccato della grande storia.
Prassi comuni. E iter esistenziali impervi e formativi. Come quello che è toccato in sorte al cernobbiese Alfonso Dell’Orto, un bambino di sette anni come tanti quando, in un’incantata mattinata del lontano 1935, sotto candidi fiocchi di neve che scendevano fitti e impetuosi proprio come nelle favole a lieto fine, accompagnato dalla mamma e dalla sorella, ma anche da tutte le sue innocenti utopie e chimere, si trascinava celermente via dalla cupa durezza del regime di Mussolini. Fluendo e slittando come un fantasma sotto un firmamento mesto e plumbeo, proprio mentre il nonno ottantunenne in pastrano, un badile energicamente impugnato tra le mani, con tutta la forza di cui ancora disponeva, si prodigava onorevolmente per costruire un passaggio discreto, accettabile e sopportabile per i suoi migranti.
Per sempre in marcia verso un universo idealizzato, nobilitato e sublimato. Il paese al lato opposto del globo chiamato Argentina. La terra promessa del lavoro fiorente e delle mille possibilità riservate a chiunque fosse dotato di spirito d’iniziativa, d’immaginazione e di buona volontà. Il luogo dove suo padre Augusto, già da un anno, era emigrato per motivi politici e lavorativi. Così, nell’immagine vivida e significativa delle lacrime silenziose e furtive di nonno Giovanni abilmente chiuso nel suo rustico paltò e in un dignitoso sconforto che i suoi cari non dovevano vedere e neppure percepire, mentre, a corto di minuti, senza poterlo nemmeno abbracciare per l’ultima volta, s’allontanavano definitivamente dal piccolo mondo antico in cui avevano continuativamente vissuto e dimorato, è, di fatto, iniziata, una storia molto simile a una vera e propria Odissea.
In effetti, per la famiglia Dell’Orto è stata la volta d’una camminata carica di sensazioni e di rimpianti neri e intensissimi verso il treno per Genova. E, là, quasi subito, s’è verificata una nuova, toccante partenza, un commiato quasi blando e inconsapevole, tranquillamente scandito dalla voce impetuosa di due marinai che lasciavano intendere ad Alfonso e ai suoi famigliari, appena saliti a bordo, che l’Augustus, la nave che li avrebbe sicuramente trasportati al di là dell’oceano, salpando prematuramente, aveva già incominciato a lasciarsi alle spalle il porto e le la loro esistenza passata. Ed ecco che, pertanto, per quell’ingenuo bambino di sette anni comincia un duro viaggio in terza classe perché la quarta non c’era. Un tragitto faticoso e scosceso come le montagne che i Dell’Orto si sforzavano già alacremente di non dimenticare, che, però, un puro colpo di fortuna sa munificamente trasformare anche in un percorso meno gramo, difficile e complicato. Un conoscente della mamma di Alfonso, infatti, lavora come cuoco in seconda classe. E, dunque, dal giorno stesso in cui il fato fortuitamente unisce di nuovo le loro strade, almeno per il cibo le cose andranno per il verso giusto per gli emigranti cernobbiesi. Magra consolazione, che rende un po’ meno amaro un itinerario che procede purtroppo impetuoso nella sua sconfinata tristezza, con l’unica eccezione della splendida festa per il passaggio dell’Equatore e del perentorio sospiro di sollievo per aver oltrepassato indenni il periglioso Golfo di Santa Caterina, unici momenti di rilievo in un viaggio da poveri e da sfortunati, in un percorso che per sei mesi, si protrae estremamente umile e disagevole, sino al momento esiziale del tanto atteso sbarco in Argentina, per giunta nel giorno stesso in cui i tifosi del Boca Juniors festeggiano, tra cori sguaiati e un mirabile scoppio di colori e d’allegria, la fresca conquista dell’ennesimo campionato.
Per questo, al giovane Dell’Orto, nel suo sconfinato ottimismo, pare immediatamente di vivere davvero una fiaba dolce e sostenibile. Il nuovo paese gli sembra difatti del tutto dissimile dall’Italia del duce, una terra senza pace, in cui ogni libertà era veramente negata e c’era una tessera per tutto, non solo per il pane, ma anche per pensare. “Sono arrivato in un eremo d’entusiasmo e di speranza”, deve forse aver pensato Alfonso, beato e sorridente come moltissimi nostri connazionali al primo impatto positivo con uno scorcio d’universo molto più grande della realtà a misura d’uomo che avevano dovuto gioco forza abbandonare. Ma si sa, il destino è troppo spesso crudele e impietoso con chi non è privilegiato. E, a poco a poco, anche il macrocosmo frenetico e moderno chiamato Buenos Aires, per i Dell’Orto, purtroppo, diviene drammaticamente e subitamente tutt’altra cosa.
Un’altra musica suona in effetti, triste e insistente, per Alfonso, sin dal primo momento in cui scopre La Plata, una casa con due stanze, una cucina e un gabinetto, in comune con un vedovo e suo figlio. Quella della miseria più nera e dell’estrema fragilità, spettri tangibili che lo conducono ben presto in un’altra abitazione, mentre il sogno imprenditoriale di suo padre s’infrange mestamente di bicchiere in bicchiere, di bar in bar, di fallimento in fallimento, costringendo di fatto quel bambino tanto amato e protetto da una madre coraggio che, con un impegno encomiabile, riesce a far studiare e a dare un’educazione coi fiocchi anche alla sorella, a ritrovarsi a dover proprio mettere frettolosamente nel cassetto tutti i sogni senza tempo, le speranze durature e le utopie mirabilissime. Costringendosi a crescere prima del dovuto. E passando, proprio come la madre, di lavoro in lavoro, tra sforzi enormi, rinunce notevoli e sacrifici costosi. Per vincere, come un vero e proprio esempio di perfetta e dignitosa integrazione, tutte le naturali diffidenze e gli scontati pregiudizi che, in qualsiasi paese del globo, s’avvertono inesorabilmente nei confronti degli stranieri. E compiere correttamente, senza mai perdere e dimenticare le proprie radici e il profondo interesse che ancora lo legano all’Italia, i primi passi di vita nel suo nuovo universo. Arrivando così a costruirsi, poco per volta, un futuro splendente e una posizione solida in una delle più importanti aziende chimiche di tutto il Sudamerica.
Dopo aver sposato una connazionale di nome Maria Luisa e formato una bella famiglia di quattro figli. Purtroppo, però, proprio sul più bello, il fato, imperterrito e senza scrupoli come non mai, ci si rimette. E, intransigente come il più gelido dei soldati, si frappone nuovamente con severa durezza sul cammino ben riuscito di Alfonso Dell’Orto. E’ in effetti il 1976 quando, con un colpo di stato, in un infausto 24 marzo, la Giunta militare capeggiata dal generale Jorge Rafael Videla, sfruttando appieno il momento del paese e l’estrema instabilità e l’assoluta debolezza del governo di Isabelita Perón, instaura il Processo di Riorganizzazione Nazionale e, con esso, origina un feroce regime. Hanno così inizio il drammatico settenato della guerra sucia e il periodo dell’obediencia debida e del terrorismo di stato, momenti critici e deprecabili, di certo annoverabili e ascrivibili tra le pagine più scure e dolorose non solo nella storia argentina, ma anche in quella contemporanea, per via dell’inflessibile crudezza dei suoi metodi e dell’impassibile brutalità delle sue manifestazioni.
“Uccidere tutti i sovversivi. Poi tutti i collaboratori. E i loro simpatizzanti. Quindi gli indifferenti. Infine gli indecisi”, viene infatti ordinato improrogabilmente dal generale Iberico Saint-Jean, governatore militare della provincia di Buenos Aires, nel rispetto più completo del terribile protocollo imposto al paese dal generale Videla, che, protetto da un clima ovattato e intriso di mille silenzi, sta indubitabilmente già lavorando all’affermazione più totale di un unico pensiero e di uno stato totalitario. Pertanto, per molti, a Buenos Aires, dopo quelle parole secche e inappellabili, comincia solo e soltanto un vero e proprio Inferno, un viaggio di sola andata sancito dagli squadroni della morte, sovente coperti dalla polizia che non arrivava mai, che non vedeva mai nulla e che “liberava” costantemente il campo d’azione, quando i militari agivano indisturbati, controllando maniacalmente la vita dei cittadini, con massicce e continue violazioni d’ogni diritto umano e civile, con ripetute privazioni indebite della libertà, figlie d’accuse, spesso ingiustificate, di terrorismo e di sovversione allo stato. Imputazioni infamanti che portavano quasi sempre agli arresti, ai campi di rieducazione conosciuti con il nome di centri di detenzione clandestina, ai lavori forzati, alle torture e agli stupri, sovente conclusi con la morte, ma messi velocemente a tacere, mentre la gente comune, nel mutismo complice di molti stati e anche della chiesa, in un modo o nell’altro, iniziava tristemente a sparire nel nulla, senza poter più tornare dai propri cari o dai propri affetti.
Desaparecidos. Svaniti per sempre. Come Patricia, la figlia maggiore di Alfonso, a soli ventun anni tra le prime vittime di quell’efferata dittatura insieme al marito Ambrosio De Marco (23), con cui svolgeva un lavoro sociale da insegnate dei poveri d’un barrio sfortunato e disadattato, trasmettendo a tutti la sua smisurata speranza in un mondo ideale, migliore, libero, dove non c’era spazio per repressione, violenza e terrore. Un universo puro, dove quei giovani, attraverso i libri, la musica, la pittura e il teatro, potevano finalmente sentirsi vivi e conoscere appieno il valore incommensurabile della libertà e del saper pensare. Colpe gravi e imperdonabili per la Giunta Militare, che, senza troppe indecisioni o ripensamenti di sorta, in seguito alla solita denuncia anonima e alle immancabili accuse fasulle, la notte tra il quattro e il cinque novembre del 1976, rapisce dalla sua abitazione la coppia De Marco, fresca d’una figlia di 25 giorni di nome Mariana. Uno dei tanti gruppi non identificati di militari che agivano nell’ombra e senza clamore, su macchine senza targa, in effetti, prende anche loro, anche se, come tanti altri desaparecidos, Patricia e Ambrosio non erano militanti o attivisti politici, tanto meno sovversivi violenti e pericolosi.
Per un caso fortuito, invece, gli altri figli di Alfonso e la piccola Mariana rimangono chiusi nell’unico armadio di cui non s’erano accorti gli uomini del regime e, solo per questo, sfuggono fortunatamente a un ingiusto sequestro. “Dateci le armi, terroristi!”, gridano i militari, dopo aver messo a ferro e fuoco l’appartamento in cui vivono i Dell’Orto e prima di far sparire per sempre dagli occhi di Alfonso l’adorata figlia e il genero stimato e trattato come uno di famiglia. Nulla viene consegnato loro. Perché nulla che potesse in qualche modo nuocere agli altri era difatti riscontrabile o nascosto segretamente in quella casa prostrata e umiliata. Così, dopo che una Ford Falcon trascina definitivamente via Patricia e Ambrosio verso uno dei tanti centri di detenzione clandestina e una fine tanto mesta quanto annunciata, negli anni post Mondiale in cui un gruppo di donne ingenue, vecchie e addolorate, indossando o sventolando un foulard bianco, iniziano a protestare in silenzio, facendo crescere il dissenso nella Plaza de Mayo per quei figli che spariscono e non ritornano, un Dell’Orto quarantottenne comincia irreprensibilmente a far da padre anche alla piccola Mariana.
E, per i successivi 23 anni, anche una strenua battaglia per cercare disperatamente i suoi cari in ogni dove. Dalla drammatica notte della desapareción, Alfonso, infatti, s’impone coerentemente di sperare oltre ogni limite e di credere al di là d’ogni ragione che la figlia e il genero che i militari gli avevano brutalmente strappato fossero ancora vivi. S’intima questo per non morire con Patricia e con Ambrosio ogni qual volta le madres camminano intorno al monumento centrale della piazza, sfilando coraggiosamente davanti ai cordoni della polizia che non le può davvero arrestare, né riesce a fermare in alcun modo il dolore e la rabbia nei loro occhi e nelle loro urla strazianti. Grida lancinanti che muoiono sempre senza voce, riempiendo Buenos Aires d’un inebriante anelito di libertà che si confonde costantemente col rumore di quei passi che pretendono verità e giustizia, mentre quelle donne così diverse, anche se palesemente ferite dal destino, si rinsaldano e si fanno di giorno in giorno più forti, combattive e uguali, profondamente unite come sono nella speranza, negli intenti e negli ideali. Gli stessi che spingono irreversibilmente Alfonso a cercare la figlia e il genero in ogni zona di La Plata, di Buenos Aires, del Paese e del Sud America, passando speditamente da un ufficio all’altro, di giurisdizione in giurisdizione, di competenza in competenza, da un responsabile all’altro e transitando così per commissariati e questure, per consolati e ambasciate, per parrocchie e addirittura anche per il vescovado. Solo per sentirsi dire il più delle volte soltanto atroci menzogne e sleali bugie, frasi terribili che creavano costantemente la cieca illusione e l’amara speranza in un genitore caparbio che non voleva proprio arrendersi all’evidenza più truce e inconfutabile, nonostante sentisse quasi certa la perdita dei suoi cari …
Un padre deciso e determinato, che non cede nemmeno quando nel 1983, dopo l’inevitabile sconfitta della guerra delle Falkland e la conseguente caduta della dittatura militare, comincia disarmantemente a diffondersi la deprimente notizia della morte di tutti i desaparecidos. Davanti ai cimiteri, un anno prima, vengono infatti state trovate fosse comuni e mucchi di cadaveri non identificati che gli aerei del regime non sono riusciti a lasciare come bombe nel mare infinito, nei cosiddetti “voli della morte”. Dinanzi a prove del genere, gli eccidi compiuti durante l’ormai famigerato Processo di Riorganizzazione Nazionale non possono essere più giustificati. In qualche maniera, qualcuno deve rompere il silenzio. Per le trentamila vittime e per le loro famiglie. Così, dopo che le prime inchieste sulle atrocità del Governo durante il settenato del terrore vengono velocemente insabbiate e bloccate, dopo nuove leggi che, tra pressioni politiche fortissime e crisi economiche dolorosissime, scagionano arditamente i militari per i crimini commessi sotto la dittatura, dopo l’indulto e l’amnistia ai pochi condannati, vent’anni dopo l’ineluttabile richiesta di habeas corpus da parte della parte della famiglia Dell’Orto e sette anni di processo-farsa senza un’effettiva condanna, anche per Alfonso, come per molti altri congiunti delle vittime senza un corpo su cui piangere, arriva, infine, il momento straziante dell’inappellabile verità.
Quando vengono riaperti i processi nel 1999, ecco infatti spuntare, sola fra tante altre nel silenzio glaciale d’un’aula di tribunale, la triste testimonianza della morte di Patricia e di Ambrosio, brutalmente uccisi a poche ore dalla loro effettiva incarcerazione. Dalla deposizione d’un compagno di prigionia, il testimone oculare Julio López, s’apprende infatti della violenza carnale sulla figlia di Dell’Orto, velocemente stroncata dai suoi aguzzini dopo il marito, crudelmente eliminato dopo essere stato costretto ad assistere, del tutto impotente, alle atroci sofferenze della moglie. Alfonso, legittimamente, reagisce in un pianto disperato alla drammatica novella. Si sente logicamente abbattuto, vinto e piagato da un destino decisamente avverso e impietoso nei suoi confronti.
Ma, dentro di sé, ancora vuol dar battaglia e non si dà per vinto. Quindi, dopo che, in quel drammatico 18 settembre 2006, Julio López diviene infaustamente il primo desaparecido della ripristinata democrazia, sparendo nel nulla dopo aver lasciato quello stesso tribunale dopo aver fatto i nomi dei colpevoli e dei mandanti dell’assassinio di Patricia e Ambrosio, trova di nuovo in sé le forza e il coraggio necessari per far rivivere in qualche modo la memoria della sua adorata figlia. Tre anni dopo il tremendo colpo ricevuto, in effetti, Dell’Orto riesce definitivamente nel suo pertinace intento. Ora che un quadro la raffigura nella sua intramontabile gioventù, difatti, Patricia, vive ancora. In una casa che non è l’oceano blu o una fossa comune che purtroppo hanno ospitato i destini e le spoglie di molti desaparecidos come lei, ma la Cooperativa Sociale di Piazza Santo Stefano (frazione di Cernobbio dalla quale il lungo viaggio di Alfonso è partito quasi ottant’anni prima), costruita tra gli altri anche dal nonno di Alfonso.
E anche qui Patricia riposa per sempre. Non più lacrima che scorre per sempre nel cuore d’Argentina. Ma stella che brilla in eterno nel cielo sopra Cernobbio. Illuminandolo del suo esempio breve ma intenso di significativo impegno civico e sociale. E dei suoi principi inalienabili di verità, di giustizia e di democrazia in cui tutti adesso, pure laggiù, non possono che specchiarsi, immensamente grati a chi ha dato la sua vita per garantire anche agli altri un mondo più libero e giusto.
Testo di Fabrizio e Nicola Valsecchi