Il sole e la luna dividono il cielo,
sbocciano fragranze sui rami del pero :
la terra si risveglia con un sospiro.
Il viandante gioisce sul sentiero.
Siamo al tempo dell’equinozio, quando il giorno e la notte hanno la stessa durata. La primavera inizia nel segno della luce che cresce. Rinasce la vita dalla terra gelata.
Naturalmente, si tratta solo di una rappresentazione di un momento nel tempo. La primavera torna ogni anno e sappiamo che ad essa seguirà l’estate. Il ciclo delle stagioni continuerà a susseguirsi regolarmente. Il tempo non conosce interruzioni e la natura segue il proprio corso come una semplice appendice di quel progredire. Siamo noi a scorgere una struttura e ad attribuire i nomi a questo processo.
Ma chi può negare questi temporanei piaceri al viaggiatore solitario? Usciamo e godiamoci la giornata, gioiamo dell’arrivo della primavera, rallegriamoci della terra che si riscalda. Poiché, sebbene il terreno possa essere ancora coperto di ghiaccio intorno a noi tutto riprende a muoversi e crescere. La bellezza così scoperta ci sazia gli occhi inebriandoci. Mentre attraversiamo sconfinati fiumi e montagne, riempiendo i nostri polmoni del respiro della foresta, godiamoci la consolazione di essere parte integrante della natura. La vita è già abbastanza ricca di sofferenza e di sfortuna e la filosofia ci rammenta a sufficienza della sua caducità. Ammantiamoci dunque del fascino dell’effimero, e lasciamo che esso ammutolisca chi vorrebbe protestare.
Sono le parole del maestro Deng Ming-Dao che mi piace far risuonare in questo inizio di un’altra primavera che ci trova provati, incerti, pieni di dubbi sul senso di ogni cosa eppure ancora aggrappati alla materia quotidiana, inconfessabilmente persuasi che ci sarà un futuro di pienezza, che il passato tornerà, anzi che stia già tornando per riempire nuovamente di merci il vuoto che si è fatto nel nostro cuore.
Cerchiamo di allenarci ad avere fiducia in un futuro che non esiste se non come evento momentaneo, cerchiamo di abbandonarci al compiersi di un destino ignoto ma che è banco di prova per il passaggio epocale che si sta compiendo.
E intanto il ricordo, le memorie di ciò che abbiamo vissuto ci offrono un luogo e un tempo nei quali trovare rifugio e consolazione, ma anche nuove visioni.
Non tempo che passa bensì tempo nel quale soffermarsi per non perdere neppure un istante di quella attenzione che spetta alle piccole cose che sono attimi fuggevoli e indimenticabili del nostro vivere.
Quante volte per presunta e presuntuosa mancanza di tempo ci priviamo della gioia infinitamente piccola e immensamente intensa di entrare nel cuore di un particolare.
Ricordiamoci di ricordare e di ridare la centralità al tempo che sempre più si accompagna ad aggettivi quali veloce, breve, rapido, immediato e sempre meno alle connotazioni che ne sottolineano l’ampiezza, l’estensione, la lentezza avvolgente, la durata che talora sembra farsi infinita.
C’è un tempo della durata e c’è un tempo dell’intensità che già per i greci stava ad indicare la qualità dell’accadere e si colloca in modo del tutto originale fra gli altri tempi verbali quali l’imperfetto o il futuro. E’ un tempo che presuppone la gestazione di ogni azione che si compie, un’estensione del fare che prepara l’accadimento come una fulminea visione. E’ un tempo sul quale bisognerebbe riflettere a lungo e comprendere la differenza fra la durata che è concreta, materica e misurabile e l’intensità dell’attimo che si imprime nell’animo.
Il bisogno di tempo è ormai disagio collettivo, richiesta martellante, quando non ossessione. Nel nuovo assetto sociale ed economico si è fatto di tutto per velocizzare e rendere più efficiente ogni atto del vivere, eppure accade sempre più spesso di rendersi conto che abbiamo per noi stessi un tempo molto più limitato di quello a disposizione dei nostri antenati.
La trasformazione dei modi di lavoro e dell’impegno non significa quasi mai il tempo dedicato a noi stessi, alla nostra interiorità, tempo liberato , tempo esonerato dal fare, quanto piuttosto ulteriore tempo da spendere in attività.
Si consolida una sorta di “ horror vacui”, di paura dello spazio- tempo vuoto, che ci costringe ad andare sempre più veloci per non mancare ad alcun impegno nemmeno a quello del divertimento.
Cresce il timore di essere esclusi dai giochi di gruppo divenuti frenetici, la paura di stare con se stessi, di stare fermi, una mania compulsiva che spinge a consumare ogni attimo, a trasformare ogni azione in un veloce passaggio a qualcosa d’altro. Eternamente scattanti, eternamente giovani, tutti esorcizzano il passare del tempo correndo. C’è l’obbligo della rapidità, il dovere della velocità, l’imprescindibile bisogno di fare tutto e più in fretta possibile. L’individuo vive la sua sempre più agitata sequenza di esperienze monitorabili in cui vengono frullati rapporti, persone, emozioni, situazioni , pensieri ed illusioni. Tutto è contagiato dalla mancanza di tempo.
E allora riprendiamo ad immaginare scenari di sopravvivenza, isole fantastiche, in cui ritornare a parlare una lingua che non elimini le vocali, che preveda il tempo di attesa , il piacere di farsi aspettare, che riproponga il morbido flusso delle “parole tra noi leggere” anziché lo scambio di rapidi segnali finalizzati all’immediato raggiungimento dell’obiettivo.
Che tornino le digressioni ed i racconti che allontanano il tempo del dovere e della necessità, che fanno riscoprire il piacere del dire con voce ammaliante. Se accettiamo l’ipotesi di chi collega il tempus al verbo greco temno “taglio”, ad indicare una sezione ritagliata dallo scorrere illimitato, prendiamoci questo scampolo di eternità e indossiamolo almeno per un giorno per vivere a tutta lentezza.
Prendiamoci tempo per ridare giusto valore alle parole che hanno nel tempo un prezioso alleato, per ritrovare spazi adeguati ai pensieri, ai sogni, alle attese.