In questi ultimi decenni la Fondazione CRT di Tortona – sempre molto attiva e presente, in diversi ambiti culturali e socio-assistenziali, per lo sviluppo economico-sociale del territorio – si è dedicata, con cura ma anche con lungimiranza, allo sviluppo della propria Pinacoteca, che è ormai un gioiello per la valorizzazione della pittura italiana tra Ottocento e Novecento, con particolare riferimento alle figure di maggior rilievo del Divisionismo (ad esempio di Pellizza da Volpedo). Nel settore dell’arte, soltanto dal 2001 al 2011, la Fondazione ha stanziato oltre 5 milioni di euro, a dimostrazione di una grande sensibilità e disponibilità nell’investire nel settore, che può davvero considerarsi strategico non soltanto per l’identità della zona, ma anche per la sempre maggior conoscenza del nostro patrimonio nazionale.
A lato, poi, della propria prestigiosa collezione d’arte, sempre la Fondazione organizza importanti mostre legate agli Autori, alle tematiche e all’ambito storico della propria Pinacoteca. Tra le ultime, merita menzione quella dal significativo titolo “La meraviglia della natura morta. 1830-1910 – Dall’Accademia ai maestri del Divisionismo”, che si è svolta dal settembre 2011 al febbraio 2012 (corredata dal bellissimo catalogo edito da Skira e curato dalla storica dell’arte Giovanna Ginex). Non a caso, in copertina del catalogo compare l’immagine dell’opera di Emilio Longoni (Barlassina, 1859 – Milano, 1932) dal titolo “Natura morta con dolciumi e frutta candita” (1887), custodita nella Pinacoteca della Fondazione tortonese. E proprio di quest’opera voglio parlare.
Prima di tutto devo confessare che a me piace molto il genere “natura morta” – che Giorgio De Chirico preferì chiamare “silente”, e che consigliava, come duro banco di prova, ad ogni artista – che si può far risalire al magnifico cesto di frutta dipinto da Caravaggio attorno al 1597. In questo tipo di pittura troviamo opere studiatissime nella composizione, ma in grado di trasmettere forti emozioni. Frutta, formaggi, dolci, oggetti, fiori, selvaggina, ceramiche diventano i protagonisti assoluti dell’opera d’arte, con risultati sorprendenti sia sul piano prospettico che coloristico. La rappresentazione artistica evidenzia, pertanto, una realtà semplice, feriale, domestica, quotidiana, talvolta cruda e “intima”, ma con minuziosa visione realistica, oggettivo distacco ed efficacissima “solennità espressiva”.
Aggiungo anche una doverosa nota sulla committenza di queste opere da parte di una ricca borghesia lombarda (come pure di altri ambiti geografici), che aveva scoperto questo genere pittorico particolarmente adatto ad arredare le proprie case e a celebrarne l’ascesa sociale ed il successo economico. Il collezionismo d’altri tempi ha così permesso di coltivare degli artisti di valore e l’affinarsi di un gusto estetico che, altrimenti, si sarebbe ben difficilmente affermato.
In quest’opera di Longoni traspare tutta la sua sapienza pittorica e la sua chiara scelta divisionista. Molto bello l’impianto della composizione: che degrada dolcemente da sinistra a destra, con i grandi vasi di vetro, fino al piatto con i marroni canditi ed alle ultime caramelle sulla tovaglia delle grandi occasioni. Questa rarefatta geometria degli elementi in gioco non solo non riduce ma potenzia la poesia cromatica dell’atmosfera, in quanto conferisce all’occhio un accesso più rapido e sicuro al movimento sottile del colore.
Pertanto, in questo particolare scorcio di grande fascino – da tavolo da buffet – “il pittore vi esplora inoltre i diversi effetti materici delle superfici: dalla zuccherina pastosità dei frutti canditi allo spessore trasparente dei barattoli in vetro” (così G. Ginex, nell’introduzione al catalogo). La ricchezza cromatica, poi, delle caramelle e dei dolcetti è quasi trattenuta dalla trasparenza del vetro dei tre cilindri che la contiene, conferendo equilibrio tra variegata offerta e stile più sobrio e velatamente austero. Di certo di lì a poco qualcuno si avvicinerà a quella golosa occasione, facendoci intuire e presagire la presenza festosa di invitati e familiari.
Ecco, dunque, il paradosso della natura morta: quello di essere per nulla figurativa eppur così carica di richiami per una inevitabile e irrinunciabile presenza. Essa ci mostra quasi l’urgenza di prepararci all’accoglienza dei commensali: come dolce attesa di un imminente incontro o, eventualmente, a meditare la profondità di una presenza che si riverbera nel nostalgico ricordo, dopo la sua conclusione. Gli oggetti della vita quotidiana – o magari dei momenti di festa – ci invitano così a interiorizzare il piacere di un colloquio e di uno scambio di viva umanità.