Il Pianeta con la sua folle corsa e la sua omologazione di modelli e culture, sta perdendo la bellezza della diversità, sta dimenticando la magia delle origini, la storia e la memoria degli antenati. Eppure c’è chi non vuole scordare o meglio desidera proprio rammentare il mondo incantato di un femminile legato alla terra, agli elementi, ad una natura che tutto nutre. Stiamo parlando del regista e drammaturgo di Palermo, classe 1975, Fabrizio Catalano, che potremmo definire “nipote d’Arte”. Aver respirato il mondo di suo nonno Leonardo Sciascia, lo ha segnato profondamente e lo ha di certo spinto a trovare la sua strada nell’Arte, per forza di cose: se di Arte sei circondato non puoi fare altro, all’Arte e alla bellezza devi sottostare. Come afferma lui stesso:
«Essere cresciuto in casa di un uomo come Leonardo Sciascia ha indubbiamente influenzato la mia evoluzione. Dal punto di vista etico: mi ha insegnato che l'intellettuale ha il dovere di opporsi al Potere, che il denaro ha un'importanza del tutto relativa, che bisogna essere pronti a lottare per le proprie idee, che le idee – quelle vere – muovono il mondo e fanno paura. Ma anche dal punto di vista del gusto: mio nonno aveva una passione per la grafica, e nel suo appartamento – come in molte abitazioni della mia infanzia – i quadri erano disposti su tre file. Tra l'altro, con un penchant per il Liberty, per il Simbolismo e il Surrealismo, perfino per un certo erotismo intriso di satira e di grottesco, apparentemente piuttosto distanti dai suoi gusti letterari. Sono cresciuto in una casa dove si parlava di letteratura francofona e ispanofona, dove le simpatie andavano a quella parte del continente europeo, e del pianeta, che oggi qualcuno ci vuol far credere marginale. E che forse lo è provvisoriamente diventata; e forse è proprio per questo che il mondo va a ramengo...»
E così Fabrizio, dopo aver diretto diversi documentari e cortometraggi, si è dedicato prevalentemente al teatro, riscuotendo un notevole successo di pubblico e di critica con alcuni spettacoli tratti dalle opere del suo celebre nonno come Il giorno della civetta, Todo modo, A ciascuno il suo, La scomparsa di Majorana - spietati verso le derive della società contemporanea -, ma anche altre creazioni come Amore intorno al vuoto e Dannata bellezza. E sì perché la bellezza è davvero dannata, ti insegue e ti cattura, e sei schiavo della sua essenza civettuola, la scorgi dappertutto anche laddove nessuno la guarda, oppure la vai a scovare, lontano, anche nel mondo alla fine del mondo. Fabrizio è un essere sensibile che si abbandona al flusso e segue il suo daimon, anzi lo cerca inseguendo suggestioni e sogni, come ci narra con consapevolezza:
«È innegabile che in ciò che facciamo – se lo facciamo con consapevolezza, con cognizione, addirittura con passione – potrebbe essere interessante individuare il motivo d'ispirazione iniziale: l'incidente scatenante, come lo chiamano gli sceneggiatori americani. Ma anche lì, in ogni spirito complesso – e di sicuro io lo sono – alberga, si muove, si sovrappone e s'agita un coacervo di suggestioni ed esperienze. Un incessante rimescolio che, lungo l'accidentato sentiero della vita, ti porta a riconsiderare scelte e ambizioni. O meglio: aspirazioni. In un bellissimo racconto di Charles Van Lerberghe, al principe salpato verso i mari della luna su un battello dove sono state caricate tutte le parole del mondo non rimane, per definire la propria anima, che un tremulo verbo verde: j'aspire! Concetto che – attraverso un'immagine di facile efficacia – si direbbe sia stato, nella società in cui viviamo, risucchiato nel gorgo della competizione, dell'irriflessione, del profitto illimitato.
Insomma, del capitalismo. Un modello di società aberrato ed aberrante, pericolosissimo: perché ci fa credere che l'istinto di sopraffazione sia inalienabile dall'essere umano. L'uomo non è bello dice il personaggio di un'opera di Pirandello; e molti di noi, in quest'epoca di crisi, sono portati a pensarla così. Ma l'uomo è anche Dante, Galileo, Leonardo, Botticelli, Caravaggio. L'essere umano può e deve essere bello».
E così il nostro eroico Fabrizio, dopo essere stato per tre meravigliosi anni il Direttore artistico del Teatro Regina Margherita di Racalmuto, ci racconta la sua esperienza quasi incredibile.
«Il teatro mi ha dato parecchie soddisfazioni. Fra queste, visto che la Sicilia è un argomento ricorrente nelle mie chiacchierate, non va trascurata la mia esperienza in qualità di direttore artistico del Teatro di Racalmuto, dal 2008 al 2011. Quando arrivai nel paese di una parte dei miei antenati, trovai uno scenario devastante: in teatro si facevano rari spettacoli gratuiti che attiravano al massimo una decina di persone, e le gestioni precedenti avevano lasciato debiti e disillusioni. Qualche mese dopo, il Regina Margherita era diventato uno dei pochi teatri in attivo dell'Italia meridionale e attirava spettatori da tutte le province della Sicilia occidentale. È stato un po' come portare la squadra di un piccolo centro in Serie A: un'emozione irripetibile».
È sempre interessante comprendere che cosa muova l’eroe ad intraprendere il suo viaggio e da quale esperienza nasca l’idea, che resta magari in cantina per anni e poi improvvisamente si concretizza. A volte basta un libro, un accadimento, un film. E Fabrizio ci racconta cosa gli accadde: «A quattordici anni ho visto in televisione Per qualche dollaro in più e alla fine del film ho deciso – ovvero ho capito – che sarei diventato un regista. Tre giorni prima di compiere diciannove anni, appena presa la licenza superiore, sono partito per Roma. Ho avuto alcune esperienze da aiuto regista, ho frequentato per tre anni il Centro Sperimentale di Cinematografia, ma non ho ottenuto il diploma a causa di un mio atto di insubordinazione.
Subito dopo, ho vissuto a Parigi per quasi un anno. Un'esperienza alla quale probabilmente ero destinato, che mi ha aiutato ad estrarre dalle mie viscere e dal mio cuore aspirazioni e passioni ingiustamente sopite, e che ha cambiato la mia percezione di ogni tipo di bellezza: da quella femminile a quella dell'arte. Riannodare i legami atavici con la cultura francofona mi ha, negli anni a seguire e incessantemente ancora oggi, condotto a rimettere in discussione non soltanto alcune scelte personali ma anche a guardare, dapprima con sospetto, poi a tratti con disgusto, tante regole della società in cui viviamo (o sarebbe più corretto dire: vegetiamo). S'è innescato quindi un meccanismo che mi ha indotto a ripensare il mio lavoro alla luce – fioca, intermittente ma invincibile – dell'indipendenza».
Intanto, forse per far tesoro degli insegnamenti di nonno Leonardo, Fabrizio ha percorso anche la strada della letteratura scrivendo alcuni romanzi. Il più recente è Le viole dagli occhi chiusi, 2020, Edizioni Ex Libris, che rappresenta una parte importante del suo "percorso dalla variopinta e rumorosa natura della Bolivia tropicale alle ovattate atmosfere del Belgio pervaso dalle reminiscenze dell'Art Nouveau".
Più lontano nel tempo aveva scritto Una goccia d’ambra nella neve, nel 2015, pubblicato con la Casa Editrice Nerosubianco, dove individua già il tema centrale nella sua ricerca ambientandolo in "una piccola città dalla gloria sepolta, freddissima e contaminata, sui cui abitanti incombe l’angoscia di un disastro ecologico", che sembra rappresentare i limiti della società moderna e dove emerge l’angoscia per l’abbattersi di una tempesta che "ha già provocato morte e distruzione. Un’atmosfera morbosa, da soluzione finale, aleggia su tutto e su tutti. L’odio è l’unico vero dio: e chi non lo adora dev’essere punito". Sembra quasi una profezia per gli anni che sono arrivati dopo, ma c’è anche il suo individuare una via di salvezza, laddove nessuno la vede e anzi in direzione del tutto opposta a quella che vogliono gli altri, infatti: "tutta la città è concorde nel condannare colei che non ubbidisce alle regole degli altri, l’ancestrale capro espiatorio, la strega: Sylvabel. E, con lei, la libertà".
Fabrizio non ci sta, non si può condannare la “Libertà”, altrimenti a cosa gli sarebbero servite le parole di suo nonno, quelle opere, quelle idee, quella visione attenta e sottile che scardina le regole del gioco, gli assi giocati dal potere, la programmazione ad un pensiero “corretto” e “omologato”? Nel 2017 si è cimentato in un romanzo erotico, ‘La profanazione del pudore’, pubblicato con il nome d’arte di Fabricius Deverell per la Casa Editrice Satt: il protagonista è sempre quel luogo senza regole, dove tra luci soffuse e arredi Art Nouveau, lontani dalla violenza della guerra e dalla malinconia del fronte, qualunque regola si sgretola, lasciando il posto al piacere dell’intimità, dove domina la gioia dei sensi e con essa la ricerca della Libertà.
Fabrizio ha scritto anche articoli e saggi come Il tenace concetto, redatto in collaborazione con Alfonso Amendola ed Ercole Giap Parini, pubblicato nel 2021 con Edizioni Rogas, un volume che celebra il centenario della nascita di Leonardo Sciascia cercando di indagare quella sua "vanga affilata capace di dissodare la zolla della vita sociale italiana, facendo emergere gli aspetti nascosti e grotteschi del potere". Sempre nel 2021 ha pubblicato un saggio curato da Vincenzo Aronica Sciascia e il cinema. Conversazioni con Fabrizio, Editori: Centro Sperimentale di Cinematografia; Rubbettino, mentre sempre con Rogas Edizioni, aveva pubblicato nel 2019 L’immaginario rubato, il cui sottotitolo, Senza arte, ogni società è indifesa, è emblematico di quanto sia importante l’arte cinematografica per Catalano, che invece si è fatta:
«strumento e complice dell’aridità finanziarizzata in cui oggi il genere umano è immerso fin quasi al soffocamento. Depauperato e deriso, il patrimonio artistico europeo è stato saccheggiato dall’industria cinematografica nordamericana e usato per condizionare e indottrinare il pubblico».
Insomma in Fabrizio c’è sempre un’altra possibilità, la speranza di un altrove dove sanare le storture del presente affinché l’uomo possa avere un futuro. L’ha cercata in altre culture, come quando si è trasferito a Parigi, anche se solo per un anno, e quest’esperienza lo ha condotto anche a tradurre dal francese liriche e testi teatrali di Charles Van Lerberghe, Georges Rodenbach, Émile Verhaeren, Auguste de Villiers de l’Isle-Adam. Ma il suo vero amore è stata la Bolivia, sempre da quando un libro della biblioteca del nonno gliela fece conoscere attraverso un uomo ai più sconosciuto, Augusto Céspedes Patzi (Cochabamba, 6 febbraio 1904 - La Paz, 11 maggio 1997), un intellettuale, giornalista, scrittore e politico boliviano, soprannominato «Chueco», uno degli scrittori più significativi della «generación del Chaco» e della rivoluzione del 1952. Ed ecco che il cerchio si chiude e si comprende proprio come questo film documentario, intitolato Irregular, che ha appena terminato di girare in Bolivia, assieme a Fátima Lazarte - ballerina e insegnante di danza classica, protagonista di molte scene -, sia proprio quell’altrove auspicato, di cui ha creato un pamphlet per immagini che teorizza il possibile ritorno delle società matriarcali.
Le immagini sono fondamentali nel lavoro cinematografico di Fabrizio, sono di una bellezza travolgente, necessitano di un lavoro certosino, appassionato e costante. Infatti lui dichiara: «Una parte di ogni mia giornata è dedicata allo studio delle immagini; immagini che non necessariamente nascono dal cinema o dal teatro; anzi: derivano dalla pittura, l'unica arte che non mi stanca e nutre instancabilmente le mie fantasie e la mia creatività. La sfida è portare questo studio in opere, come si diceva in quella stagione felice in cui ancora la cultura anglo-germanica era subalterna rispetto a quella latina, engagées. La sfida è per l'appunto – seguendo nel mio piccolo le orme del grande nonno, provando a scoprire cosa c'è oltre il cammino che lui ha percorso – giungere a teorizzare sistemi sociali alternativi a quello che ha prodotto la crisi che ci attanaglia. A rischio di sembrare vanamente romantico, sono convinto che in consessi umani con Sciascia, Pasolini, Sartre, Manuel Scorza e altri spiriti liberi ancora in vita, questo ultimo coronavirus non sarebbe esistito. Al di là del dibattito sull'origine del covid, esso è comunque il prodotto di una società senza anticorpi, in cui l'estremo sviluppo tecnologico non è stato accompagnato dalla conquista della coscienza. E questo è stato possibile perché il potere legato all'economia, e peggio ancora alla finanza, è arrivato a ridicolizzare la cultura. A fare della cultura qualcosa di astratto e inutile. Invece la cultura è quell'insieme di sensibilità, consapevolezza, memoria ed etica che rende l'essere umano diverso dagli altri animali. Ogni progetto sociale che non metta al suo centro la cultura è destinato al fallimento e alla tragedia.
Il mio primo amore è stato il cinema. Ma, ancorché casuale, la deviazione verso il teatro è stata un evento risolutivo della mia esistenza. Questa deviazione è avvenuta all'inizio del millennio, con la regia di uno spettacolo tratto da Il giorno della civetta – l'adattamento per le scene si doveva a Gaetano Aronica – che, fra un allestimento e l'altro, è stato in tournée per sei anni: fatto – mi permetto di aggiungere – alquanto raro nel teatro italiano. Questo ha generato un effetto domino che mi ha portato a dirigere diversi spettacoli d'impegno civile, spesso tratti dai libri di mio nonno. Fra questi, Todo modo, A ciascuno il suo e La scomparsa di Majorana, la cui tournée è finalmente ricominciata dopo l'epidemia e che forse era il più riuscito dei quattro».
E così Fabrizio è partito di nuovo, prima è andato in Svizzera, poi in Spagna, quindi è volato in Bolivia per girare le scene di questo suo ultimo capolavoro, forse il suo preferito? O forse no, come lui stesso dichiara:
«Antonio Margheriti, uno dei padri del cinema di genere italiano, rispondeva, quando gli chiedevano quale dei suoi tanti film preferisse, che una madre non può avere dei figli meno cari; è vero, ma ripartire equamente l'affetto non impedisce di riconoscere vizi e virtù. In ogni caso, ritengo che il cinema e il teatro dovrebbero accendere dei dibattiti. Dovrebbero – cosa che non fanno – raccontare la società. Ciò che si può fare anche attraverso il sogno e la fantasia. E dovrebbe contribuire a risvegliare la passione: termine che più volte ho inserito in questo testo e che è la chiave di ogni vita vera».
Su cosa è incentrata quest’opera? Su un personaggio caro alla tradizione andina, rappresentato dalla “curandera”, la saggia strega guaritrice, abile conoscitrice delle piante e dei loro poteri di guarigione sugli esseri umani, una donna di medicina, sciamana, amante della natura e profondamente connessa alla terra. Lei conosce i più profondi segreti del mondo vegetale ed è in grado di dialogare con gli spiriti elementali che popolano i mondi invisibili. Che non sono sempre energie benefiche, ma talvolta sono spiriti burloni e spesso anche malefici. La curandera è in grado di allontanare quella schiera di energie diaboliche che sono nocive per l’umanità e richiamare le schiere benefiche, per guarire il corpo e l’anima della sua gente.
Catalano è stato talmente affascinato da questo tema, che ha lasciato casa e amici e si è trasferito in Bolivia per un lungo periodo. In realtà il viaggio era necessario per un essere rimasto turbato dagli accadimenti che si sono verificati in Italia e in Europa negli ultimi tre anni, era il gesto sano di un cittadino di buon senso che ha osservato con stupore e amarezza il comportamento della gente, come afferma lui stesso:
«La gente ha tollerato, accettato, in alcuni casi perfino auspicato una deriva repressiva della società, cosa che mi appare folle e inammissibile. Avverto ormai, con molte persone, una sorta di incomunicabilità. E credo che quello del perdono sarà uno dei grandi temi dei prossimi anni, ammesso che la disintegrazione della società europea non sopraggiunga prima. Tutti noi avremmo il dovere di cercare soluzioni alternative».
E la soluzione alternativa può essere proprio "Irregular”, un modo di pensare non omologato, irregolare, politicamente scorretto, lontano dagli stereotipi sociali che hanno fatto della donna uno strumento a servizio della società patriarcale, un cosmo femminile ancestrale dove riemerge il potere originario che rimetta in discussione i dogmi della società contemporanea in relazione alla donna. Come afferma la danzatrice Fátima Lazarte: «Si tratta di una sorta di prodotto ibrido: interviste a donne appartenenti a contesti sociali e località differenti, di diverse età e con distinte visioni della vita si mescolano a scene oniriche, fantastiche, con danze evocative, spesso girate in location mai raggiunte prima dal cinema. Il film, che nasce da due anni di intenso dialogo, teorizza una società non omologata, declinata al femminile, senza competizione né gerarchie, idealizzando le antiche culture matriarcali».
Bisognerebbe chiedersi se oggi quel modello sociale potrebbe essere in risonanza con i cittadini del Pianeta Terra, con la visione di un potere invisibile, che muove i fili e sovrasta ogni decisione, nazionale e internazionale, che ha programmato uomini e donne come i personaggi del Mondo Nuovo di Aldous Huxley. Nel 1932 era un romanzo di fantascienza distopico, che sembrava completamente estraneo alla realtà sociale di allora, con quell’utero anonimo che generava un’umanità mediocre e predestinata alla schiavitù: oggi sembra molto vicino a quel mondo globale che passo dopo passo sta costruendo la civiltà dei Cyborg, metà uomo e metà macchina, programmati per essere uomini qualunque, anzi nemmeno contraddistinti da un genere, né maschi, né femmine; una specie di androgini del futuro, felici di appartenere all’epoca post-umana di una ‘Matrix’ artificiale, cittadini senza possedimenti, senza proprietà e senza nemmeno più l’ombra di sé stessi.
Eppure ci ha provato l’archeologa lituana Marija Gimbutas (Vilnius, 23 gennaio 1921 – Los Angeles, 2 febbraio 1994) a raccontare, nel suo celebre Linguaggio della dea, la rappresentazione della società e del culto femminili nel mondo Mediterraneo, civiltà pacifiche, governate da donne regine e sacerdotesse, molto diverse da quelle bellicose che le hanno poi invase soppiantando il culto sacro della Grande Dea, che emergeva dallo studio dei reperti di statuette sia femminili che maschili, con il mondo politeistico prima e monoteistico, dopo.
Un cosmo dove la natura e i suoi “segreti” sono governati dalle donne sarebbe piaciuto a Fátima e Fabrizio, al loro sogno di pace, bellezza e benessere. E questo non è un mondo di angeli e diavoli, ma è l’universo della strega, non di quello che intende la nostra civiltà moderna con questo vocabolo, ma piuttosto come nella tradizione andina, come afferma Fabrizio: «la strega non è una donna malvagia, ma una “curandera”, una saggia che conosce i segreti delle piante e della natura, in constante comunicazione con un mondo spirituale che per noi convive con la realtà. Questo lavoro riflette sulla possibilità di essere liberi, vivere al di là delle imposizioni sociali, senza sensi di colpa, esplorare, conoscere, approcciarci a diverse concezioni; e crediamo che il femminile sia una strada per avvicinarci a questo mistero, all'enigma. Perché ogni donna è in se stessa un enigma».
Quel che manca alla nostra società attaccata al superfluo, dove finiamo per spostarci inconsapevolmente nello spazio e nel tempo, è quel pizzico di magia che deriva dalla piena padronanza dei sensi, che il mondo della fretta e del consumo ha affievolito, talvolta completamente annientato. E invece che le matrone opulente e materne del periodo della dea, le donne sono state trasformate in fredde e diafane figure senza ombra e senza passato. Secondo Fabrizio, nella società dello sfacelo non facciamo più il nostro mestiere: registi, giornalisti, scrittori, non fanno abbastanza, anzi: «in molti prevale un'ansia di quieto vivere, addirittura una vigliaccheria, che ci fa rimpiangere l'Italia della fine del secolo scorso: che sì aveva tanti problemi, ma dove almeno si poteva essere urticanti e politicamente scorretti».
La tradizione andina assomiglia all’approccio magico che emerge dal mondo del Ramo d’oro di James Frozer, come dichiara ancora Fátima: «Qui il sovrannaturale è parte della quotidianità, e riti ancestrali convivono con grattacieli luminescenti. Gli esseri umani sulle Ande, considerano molto importante il rapporto con gli antenati. Questo avviene tanto nelle aree rurali come in città, e attraversa tutti gli strati sociali, generando, per esempio, uno sguardo più conciliante verso la morte, la cui idea non ci opprime né ci fa paura, e che è presente in varie tradizioni, come la “challa”, che è una cerimonia di ringraziamento alla Pachamama in cui si brucia un'offerta che a volte comprende un feto essiccato di lama, o quella di conservare un cranio umano, chiamato “ñatita”, al quale garantisci cibo, foglie di coca, alcool, sigarette e fiori affinché ti protegga».
Insomma questo documentario rappresenta il sogno di un mondo migliore, di un cosmo che renda possibile la vita, di un universo dove la Libertà del corpo e della parola sono la norma, dove la collaborazione e la solidarietà tra esseri umani non solo sia possibile, ma sia necessaria, perché ognuno di noi fa parte di quell’organismo vivente unico che non ha cellule di serie A e cellule di serie B, ma ogni componente ha la stessa dignità e deve possedere la stessa opportunità di tutti gli altri. Forse Irregular si sarebbe dovuto intitolare Utopia e solo i posteri davvero potranno emettere «l’ardua sentenza».