Poiché, a detta del Ministro dell’Istruzione, non compete ad un Preside esprimere un messaggio formativo di taglio storico e di ferma posizione antifascista, tento di esprimere la stessa idea della Preside del Liceo classico fiorentino, nella speranza che l’espressione di questo messaggio e di alcuni timori rientri nelle competenze di una Psicoterapeuta.
Sì, timori. Ma non tanto – e non soltanto – rispetto all’attuale rischio di deriva fascista. Parlo di un timore più generale, che ha a che fare con la libertà di espressione. L’articolo 11 della nostra Costituzione sancisce infatti che: “Ogni persona ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera. La libertà dei media e il loro pluralismo sono rispettati”
La prima domanda che mi pare lecita è questa: per quale ragione un messaggio di attualità, un riferimento storico, peraltro in perfetta sintonia con i valori della Costituzione, non dovrebbe essere di competenza di un Preside? Forse non è compito di chi dirige un Istituto scolastico formare ai valori etici e costituzionali? Ma nasce anche un’altra domanda: se viene considerato “inappropriato” il discorso fatto dalla Preside del Liceo fiorentino, allora quale dovrebbe essere il ruolo dell’adulto in generale rispetto alla formazione dei ragazzi? Allora anche un genitore diventa “inappropriato” quando esprime le proprie idee di democrazia e di rispetto davanti ad un figlio? Trovo invece, questo sì, molto più che “inappropriato”: che un Ministro dell’Istruzione esprima attacchi e minacce a chi si muove nel proprio ruolo e nel pieno rispetto della Costituzione. Infine, vorrei estendere il tema del giudizio e della censura – perché di censura più o meno velata si è trattato – all’ambito molto più generale della libera e rispettosa espressione delle idee. Sì, perché ciò che è accaduto alla Preside del Liceo accade ogni giorno a tutti noi, senza che forse ce ne accorgiamo. La censura, anche editoriale, in nome del “politically correct”, che va per la maggiore nella cultura anglosassone, ha oggi acquisito una connotazione ed una deriva estremista.
Sembra quasi che si stia creando una sorta di protocollario che indichi il modo corretto di parlare. Ma non più soltanto al fine – nobile – di evitare di offendere determinate categorie, bensì in maniera via via più estesa. Tanto che il politically correct, nato con ideali progressisti, oggi si è esteso alla limitazione della libertà di espressione, divenendo una sorta di neolingua di orwelliana memoria. Lo scopo sembra quello di rimuovere ogni parola che possa urtare la sensibilità di qualcuno, generalmente inteso come una minoranza. L’esempio forse più eclatante è l’utilizzo del genere neutro, la desinenza con asterisco che, paradossalmente, vorrebbe assumere la funzione di rispetto della parità uomo-donna. Ma siamo sicuri che questo sia il rispetto?
Siamo proprio certi che l’utilizzo del termine “fascismo” sia così deprecabile, soprattutto in contesti che si avvicinano molto al significato storico di tale termine? Siamo sicuri che l’eliminazione della parola, della desinenza, o la vera e propria censura siano la soluzione? Come psicoterapeuta, vorrei ricordare che la censura è molto vicina al meccanismo difensivo della rimozione, che consiste nell’eliminare un elemento che crea problemi o turbamento. Ebbene, la rimozione è una difesa, non una soluzione del problema: il rischio di deriva fascista, oggi, è un problema e non può essere risolto nascondendo le parole sotto il tappeto.