Non ho mai indossato i tacchi alti, ma ho amato le scarpe con il cinturino e quel tacco discreto e affusolato che imprime al passo un suono leggero, femminile, come di piccola, dolce complicità. Sorretta dalla sua elegante forza percorrevo lo spazio tra il palcoscenico e il pubblico ed era un turbine di felicità, la sensazione di poggiare i piedi sopra un tappeto fatato capace di portarmi al di sopra dello spazio e del tempo.
Mi manca questa sensazione di infinito e di bellezza: il ricordo non mi basta, è una mancanza che non si può colmare, è la fredda verità della perdita di un frammento di cuore.
Mi rivolgo alle parole perché mi aiutino a non perdere il legame che mi unisce a vite vissute, a sensazioni da conservare amorevolmente. Insieme decidiamo di scrivere su un bel quaderno un po’ démodé, quei pensieri che arrivano per non dimenticare, per tener desto il nostro sentire e ritrovare la magia del dire e dell’immaginare.
Sono brevi pensieri fermati senza un ordine che non sia quello dettato dal cuore che si sente libero di lasciar volare la memoria fantastica e di riascoltare come una dolce armonia le voci che non vogliamo dimenticare.
Un anno intero al quale attingere, milioni di parole che abbiamo creduto di ascoltare, milioni di segni che abbiamo cercato di interpretare, sogni narrati ad alta voce per rivivere tempi di speranze e fiducia, “sussurri e grida” mischiati nel tormento delle anime che non hanno saputo comprendere, che hanno rifiutato di credere nel presente proiettate nell’illusione di un futuro del tutto ignoto.
Silenzi incapaci di incontrarsi nell’ascolto, visioni incapaci di staccarsi dalla Terra che soffre le ferite dell’incuria, dell’arroganza, dell’odio, della gelosia. Parole per rinascere, parole che osservano come occhi da mari lontani. Parole che ricreano antiche atmosfere, raffinati incontri di menti e di cuori: nostalgico ascolto che sfiora l’anima come un ventaglio di seta d’Oriente.
Mi piaceva sentire la mia voce intrecciarsi con le altre a creare una consonanza colma di intensità e di energia. Sentire le vibrazioni espandersi in armoniche sonorità che sapevano comunicare emozioni fatte di vicinanza, di ascolto, di passione. Il miracolo della musica nella coralità di spirito ancor prima che di voce, anime cantanti capaci di toccare il cielo.
Fatico a ritornare in questa stanza della memoria che mi avvolge di vuoto, come fosse insonorizzata anche per i pensieri che restano immobili, incapaci di alimentare le emozioni. Non ritrovo l’armonia, la gioia dell’ascolto. L’orecchio e il cuore si sono fatti meno accoglienti, la voce è lontana, tutto è silenzio.
Capitava talora di sentire il battito del suo cuore quando nella grande sala da ballo rimasta pressoché immutata dal tempo del suo splendore negli anni Cinquanta iniziava il tango. Era il magico istante nel quale i corpi dei ballerini si avvicinavano come in un amplesso di conoscenza, un incontro di sentire di cui il ricordo così vivido mi sta abbandonando.
Oggi ho indossato il delizioso cappellino verde intrecciato dalle mani di mia madre perché potessi sfoggiarlo nel primo giorno trascorso al mare: una magia! Mi è parso di tornare indietro, in tempi spensierati ed ho ringraziato le parole che mi hanno permesso di far tornare in vita un evento forse destinato all’oblio.
L’emozione è forte leggendo dalle pagine del quaderno di ricordi ma è cambiata l’intensità del profumo di violetta che ora posso risentire ma che attraversa il mio olfatto come un odore sfilacciato dai piccoli tagli del tempo. Mi commuove questo intreccio di verità e desideri.
Sappiamo nel corpo che tutto scorre, si trasforma, finisce e ritorna, sappiamo nel corpo la sofferenza ma non perdiamo la capacità di lasciarci scorrere nella gioia pura della memoria.
Armonia del silenzio
Tenerezza dell’ascolto
Forza della parola che viene dall’anima
Si respira il cielo nitido della condivisine
Il corpo si sente liberato
si lascia andare al profumo
di balsami guaritori
Almeno una volta nell’anno le parole sono libere di darci l’aiuto necessario a non dimenticare.
A mio padre “Quando pensi che arriverà Zeno? Te lo ricordi, vero, il mio amico Zeno?” “Sì, certo” rispondo con emozione “verrà presto a trovarti e trascorrerete insieme una di quelle belle serate accanto alla grande stufa di porcellana a fiori colorati”.
Pareva che il fuoco sciogliesse le parole che si facevano fluide e piene di ricordi. In verità Zeno, da almeno dieci anni, era partito per il lungo viaggio nel soffio del vento freddo di dicembre, eppure mio padre continuava ad aspettarlo e intrecciava con lui una invisibile conversazione oltre lo spazio, oltre il tempo, con la stessa tenerezza, con la stessa verità che gli era stata compagna per tutta la vita.
Percorro la via che percorrevo per raggiungere mia madre che stava ad aspettarmi all’uscita dalla lezione di pianoforte e ritrovo le belle architetture del Conservatorio intitolato a Gerolamo Frescobaldi, annunciatrici di una modernità che aveva reso famoso questo tempio della musica. Mi soffermo a guardare la splendida luce che arrossa il cotto dei palazzi e aspetto, aspetto di sentire il profumo della “pasta nera” che solo in quella pasticceria veniva confezionata quasi come un segreto depositato e che era il mio premio dopo la lezione.
Mi torna in mente il suono degli strumenti che vengono accordati e, avvicinandomi all’ingresso, mi piace credere di riascoltare il brusio dei giovani musicisti in attesa di essere sottoposti agli esami.
Provo un’emozione che sembra quasi risvegliarmi da un sogno, ma non mi basta: vorrei rivivere la pienezza di questi ricordi, sentirne l’odore, toccarne la materia, assaporare le sensazioni che attraversavano le mie dita che riuscivano a strappare melodie inattese alla preziosa tastiera d’antico lignaggio. No, il ricordo non basta.
Oggi più che mai abbiamo bisogno di custodire il prezioso patrimonio dei nostri vissuti che ci aiuta di tanto in tanto a partire verso orizzonti dimenticati, a ritrovare le tracce della fanciullezza.
“Noi siamo ciò che ricordiamo” ed è un atto d’amore, un gesto di cura mettere ordine nei luoghi, mentali e non, che custodiscono la nostra storia. La parola dà vita alle cose, dà loro esistenza e allora raccontare è dare la vita agli accadimenti, è accettare di incontrare la nostalgia e la malinconia, la dolce tristezza che si prova nel ricordare gioie lontane.
Che cosa spinge a tradurre i ricordi individuali in parola scritta? L’urgenza della condivisione nasce dal timore che la memoria vada perduta, si allargano i buchi nel suo tessuto. La trama è minacciata da parassiti sempre più aggressivi che la divorano.
Se prima i ricordi erano piccoli segreti da condividere con gli amici ora la condivisione passa attraverso il linguaggio. Attraverso la parola la memoria, anche quella individuale, va ben oltre la propria vita reale, la durata si amplia e forse l’urgenza del dire è anche bisogno intenso di superare i limiti angusti imposti dal tempo.