Conseguito il Diploma Universitario in Logopedia presso il Policlinico di Milano ha continuato la formazione con il corso di Laurea Magistrale in Psicologia nella sede di Milano – Bicocca.
Applicatrice Feuerstein segue gruppi di potenziamento cognitivo. Conclusa la scuola di alta formazione in Pedagogia Relazionale del Linguaggio presso l’Istituto Chassagny di Milano continua a collaborare con l’Istituto.
Insieme ad alcune colleghe ha fondato nel 2010 “Spazio Keros” centro di liberi professionisti dediti alla cura, con particolare attenzione all’età evolutiva. Da anni segue progetti in alcune scuole del territorio portando avanti attività di prevenzione attraverso screening per DSA e incontri di formazione sull’evoluzione del linguaggio e degli apprendimenti, dedicati a genitori e insegnanti.
Come mai la scelta della logopedia?
Come a volte accade le scelte che facciamo nascono da degli incontri, qualcuno che ti porta qualcosa di sé e ti fa nascere un’idea. Per me è avvenuto così. In modo del tutto inaspettato, durante una vacanza negli anni delle superiori, al mare dove capita che ti vengano a trovare persone diverse, semplicemente perché passano di lì e che magari conosci anche poco ma ti lasciano dentro un pensiero. Così ho conosciuto una logopedista, prima non avevo idea dell’esistenza di questa professione, e ascoltando i racconti del suo lavoro ho capito che mi sarebbe piaciuto un lavoro a contatto con le persone, di aiuto e di relazione che avesse come centro il linguaggio, o meglio, la comunicazione. Poi nel tempo il desiderio è rimasto, ha messo radici profonde e mi ha dato la spinta per “provare” e così affrontare i passi di studio necessari.
Cosa significa il “fare” del logopedista?
La Logopedia è una professione relativamente giovane in Italia, le prime scuole dirette a fini Speciali di carattere universitario vengono aperte alla fine degli anni ‘60 e solo nel 94 esce il DM 742 con l’obiettivo di definire le competenze del logopedista. In questo contesto, gli anni del D.U. in Logopedia sono stati caratterizzati da una trasmissione di conoscenze “pratiche”, per la maggior parte acquisite sul campo da colleghi che lavoravano da anni. L’esperienza personale, nata da riflessioni, tentativi e riflessioni veniva trasmessa come attività riabilitativa che veniva poi declinata in atti specifici per le diverse patologie. Negli anni successivi si è sentita sempre di più l’esigenza di collocare il “fare” all’interno di solide cornici teoriche di riferimento. La Logopedia ha così subito un processo trasformativo profondo integrando sempre più in modo organizzato il “fare” e il “sapere”. Oggi il corso di Laurea in Logopedia porta avanti questa integrazione, pratiche-teorie; quindi il “fare” riabilitativo viene confermato proprio perché efficace.
Cosa succede nella relazione col paziente? Che cosa viene messo in campo?
Lavoro con l’età evolutiva e quando arrivano dei genitori portano una domanda per il loro bambino, all’interno della loro storia personale e della loro famiglia. Il primo incontro è il momento più importante, è l’apertura di una relazione che può iniziare solo in assenza di giudizio, in un clima di fiducia dove il genitore comprende che siamo lì per lui (e con lui). I genitori portano le loro preoccupazioni, e spesso quello che si respira, anche se non viene detto, è un vissuto di fatica. I primi cambiamenti spesso avvengono perché si offre uno spazio di ascolto alla famiglia, per poter parlare delle difficoltà di linguaggio o di apprendimento. Penso sia importante riconoscere ai genitori la loro competenza, questo li aiuta a cogliere i cambiamenti che avvengo nel loro bambino ed a investire in modo positivo nel percorso di cura. Dopo un percorso più o meno lungo arriva il momento dei saluti. Con il bambino è il momento di osservare insieme tutti i cambiamenti avvenuti; ad esempio se lavoriamo sul linguaggio, sono i suoni che ha imparato a dire e le parole più chiare nella loro produzione. Mi piace l’idea di concludere il percorso di terapia con un regalo ai bambini, qualcosa di personale come un quaderno con una dedica, un libro o una foto fatta insieme nella mia stanza in modo che abbiano un oggetto concreto come ricordo.
All’interno della relazione, si accetta la possibilità che venga messo in discussione il nostro lavoro, ci sono chiusure improvvise che assomigliano più a strappi dove il momento di saluto viene ridotto ad un incontro o nemmeno a quello. I motivi possono essere i più diversi ma anche in questi casi si rimane disponibili a sostegno della scelta della famiglia.
Può capitare che a distanza di tempo ci sia un ritorno, spesso proprio sulla base di un ricordo di una relazione positiva, dell’essersi sentiti accolti. Questo capita soprattutto nelle valutazioni per DSA (Disturbo Specifico dell’Apprendimento), in genere percorsi brevi dove si svolge un lavoro testistico; in questo caso la modalità relazionale è uno sguardo che cerca di colorare e dare significato a quello che i punteggi mostrano.
C’è qualche situazione che ricorda con particolare emozione?
Di recente ho conosciuto un bimbo di 5 anni, giunto con una valutazione già effettuata in altro centro e l’indicazione di un lavoro logopedico sul linguaggio, per la mancanza di alcuni suoni. In previsione del prossimo ingresso nella scuola primaria, anche su sollecitazione delle educatrici della scuola dell’infanzia, i genitori hanno intrapreso un percorso di valutazione e l’inizio di un lavoro logopedico. Durante il primo colloquio con i genitori M. viene descritto come un bambino molto dolce, che ama fare costruzioni e stare all’aria aperta.
Mi colpisce la preoccupazione del papà: racconta di come M. sia consapevole dei suoni che non riesce a pronunciare e di quanto questo sia per il suo bambino fonte di frustrazione, anche nel gioco con i compagni. Arrivano da me portando un senso di fallimento in seguito all’avvio di una terapia precedente, subito interrotta.
È faticoso accostarsi ad una situazione che ha visto già un avvio fallimentare, dove i genitori sono “in allerta” e necessitano di un tempo “loro” per affidarsi aprendosi ad una nuova relazione.
Inizio ad osservare M., giochiamo insieme, iniziamo a conoscerci. M. mi stupisce per la grande curiosità che mostra verso tutto; spesso fa domande perché è desideroso di sapere come funzionano le cose e ciò che accade. Nel gioco e nel lavoro specifico di impostazione dei suoni è attento, desideroso di sperimentarsi, è molto contento quando riesce a pronunciare bene le parole! Anche la mamma partecipa ai successi del suo bambino, lo vede più competente e finalmente pronto per iniziare la scuola elementare.
Il percorso con M. è stato davvero breve, una volta compreso come posizionare correttamente la lingua ha generalizzato velocemente la produzione corretta; questo l’ha fatto sentire più capace anche nel gioco con i compagni perché riusciva a dire tutto senza sentirsi chiedere di ripetere più volte le parole. Ci salutiamo con un abbraccio, è grande l’emozione di entrambi.
Nel processo di cura non è importante risolvere tutte le fatiche, a volte basta concentrarsi su un cambiamento e lì fermarsi concludendo un percorso; più avanti magari verranno alla luce altre difficoltà e altre richieste, allora sarà il momento per nuovi pensieri o percorsi.
E poi la decisione di iscriversi a Psicologia….contenta della scelta? Utile?
Concluso il percorso in Logopedia mi erano rimaste molte domande, la curiosità di capire meglio il funzionamento della mente e in generale dell’individuo nei diversi contesti di vita. Anche in questo caso il confronto con altre colleghe appena diplomate, che avevano intrapreso gli studi di Psicologia, mi ha dato lo slancio per iniziare. É stato sicuramente un percorso lungo, impegnativo perché nel contempo lavoravo a tempo pieno presso un centro privato convenzionato. Per concludere gli studi ci sono voluti dieci anni; un lungo arco di vita ci sono stati altri cambiamenti importanti e sono diventata mamma di una bimba bellissima.
Quando ho iniziato a studiare Psicologia non avevo bene idea se l’obiettivo fosse poi cambiare contesto di lavoro dedicandomi ad un’altra professione, questo è venuto con il tempo, la consapevolezza che mi piace e mi corrisponde al meglio la professione del Logopedista.
E’ stato importante per me riuscire a completare l’intero percorso, ho potuto avvicinarmi così al mondo della ricerca, ambito affascinante collegato alla formazione ed ho avuto l’opportunità di definire una cornice di conoscenze approfondite soprattutto rispetto ai temi per me più interessanti; in particolare riguardanti lo sviluppo del bambino e, più in generale, il funzionamento dell’individuo all’interno dei diversi contesti di vita.
Per quanto i due percorsi, quello di Psicologia e quello di Logopedia siano differenti, e abbiano peculiarità specifiche che poi si riflettono in professioni diverse, hanno anche punti di contatto sostanziali, soprattutto rispetto all’evoluzione del linguaggio e all’ambito dell’apprendimento. Alcune aree sono comuni ma affrontate da prospettive differenti che poi personalmente ho cercato di integrare.
Come si integrano il “fare” con il “sapere”? Ma anche il fare presuppone un sapere ….ma forse sono due tipi diversi di sapere.
La pratica riabilitativa, il lavoro che si svolge all’interno della stanza di terapia presuppone prima di tutto un sapere. Ma questo “sapere” si declina nell’incontro specifico con il paziente, ognuno unico nella sua complessità. Il “sapere” permette di rimanere saldi negli obiettivi di lavoro, nella costruzione di un progetto terapeutico efficace, che si traduce concretamente in un “fare” creativo. Partendo da ciò che porta il paziente, per me il bambino, dai suoi interessi, si costruisce il contenuto della terapia. Allora se l’obiettivo è lavorare sulla scrittura posso farlo partendo da un argomento che il bambino preferisce, posso usare disegni o stickers di animali/oggetti e insieme a lui inventare una storia che scriviamo; così potrà portarla a casa e la racconterà ai suoi fratelli, ai genitori o a chi vorrà. Nella stanza di terapia si crea un’alleanza di lavoro, il bambino riscopre di essere capace di fare da solo.
Nel “fare” è presente anche la possibilità di astenersi dall’azione, attendere e accettare il vuoto (per me decisamente difficile!), creando le condizioni perché la proposta arrivi dall’altro. Lavorare sul linguaggio è lasciare spazio al pensiero, che poi diventa parola articolata e si può trasformare anche in scrittura …. allora può anche essere letta e trasmessa ad altri. Lavorare sui suoni, sulle parole, sul linguaggio orale o scritto è fornire strumenti per l’espressione personale e autonoma della persona, qualunque sia la sua condizione. E’ sempre possibile avviare un lavoro partendo da dove si è, nonostante magari ci siano limitazioni di natura fisica, culturale o quadri complessi identificati o meno, da una diagnosi.
Utilizza anche il metodo Feuerstein. Di cosa si tratta? Ce ne può parlare? Per chi è indicato?
Mi sono avvicinata al metodo Feuerstein appena diplomata su segnalazione di mie docenti, ormai più di 20 anni fa. È un metodo di potenziamento cognitivo secondo cui l’intelligenza è la capacità di rispondere all’ambiente in modo efficace, e pertanto è sempre modificabile. L’idea centrale è che l’individuo possa sempre migliorare la consapevolezza di come funziona e quindi essere più capace di apprendere. Feuerstein ha creato una serie di strumenti carta- matita che vanno a sviluppare le “funzioni cognitive”, come ad esempio attenzione al compito, ricerca delle informazioni, pianificazione del lavoro….etc. Si parte dall’esecuzione della pagina e poi si cerca insieme ai bambini cosa è stato utile per risolvere il compito. Si fanno quindi degli esempi tratti dai diversi ambiti della vita quotidiana dove è importante utilizzare proprio quelle strategie che abbiamo scoperto nella pagina così da poterle applicare nuovamente tutte le volte che ci troviamo in una situazione simile. Ad esempio se devo collegare dei puntini sparsi in una nuvola, formando un quadrato e un triangolo sarà importante contare bene quelli che mi servono per una figura. Ma “contare bene” sarà ugualmente importante se devo fare un’operazione di matematica oppure se devo apparecchiare la tavola per tante persone.
L’esecuzione progressiva del metodo crea un aumento dell’autostima personale che viene sperimentata attraverso l’esperienza ripetuta di riuscire in un compito.
Negli ultimi anni applico il metodo Feuerstein con gruppi della scuola primaria o secondaria di primo grado, perché il contesto del gruppo permette una maggiore ricchezza di pensiero. I partecipanti si aiutano, si incoraggiano e imparano ad individuare dove sono più bravi e dove fanno più fatica.
Il metodo Feuerstein è adatto a tutti, viene applicato in tutto il mondo, in diversi contesti di patologia e in tutti quei casi dove si vuole incidere su una modifica della capacità cognitiva dell’individuo.
PRL: cosa significa? Può fare qualche esempio?
La mia esperienza della Pedagogia Relazionale del Linguaggio è recente; mi sono avvicinata all’Istituto Chassagny e alla formazione in PRL attratta dall’idea centrale della Relazione come terreno comune dell’incontro tra terapista e paziente. Durante il percorso di studi vengono ripresi i concetti pedagogici e di cura che derivano dal pensiero di Claude Chassagny. Nella sua lunga formazione, prima come maestro, poi rieducatore dei disturbi di lettura e scrittura, e successivamente analista, individua nel paziente già tutte le competenze e il sapere necessario per emergere dallo stato di difficoltà; allora il ruolo del terapista diventa quello di rendere il soggetto consapevole e attivo nel cambiamento. Per spiegare meglio quanto accade in PRL prendo a prestito le parole di Marina Steffenoni, psicologa psicoterapeuta che ha seguito da vicino Chassagny e ha portato la PRL in Italia diffondendola attraverso un lavoro continuo di formazione: “...il riflettere su come avvicinarsi al bambino, sul modo di fare del rieducatore conduce Chassagny alla PRL. Senza rifiutare la tecnica, ma mettendola al suo giusto posto, evitando che agisca come uno schermo tra il bambino e l’adulto, la PRL diventa quella “maniera di essere” che gli permette “questa maniera di fare”, di fare in modo che desiderio e parola del bambino possano conciliarsi con desiderio e parola dell’adulto, per giungere insieme all’espressione comune” (Pedagogia Relazionale del Linguaggio; Claude Chassagny; p.9).
In questa prospettiva è centrale la consapevolezza dell’importanza dell’incontro con l’altro. E’ importante creare uno spazio perché il paziente possa definire con delle parole le sue difficoltà; è grazie all’ascolto che la persona può avvicinarsi a quello che è il significato del suo sintomo. Il sintomo infatti non è solo qualcosa da eliminare ma è anche una richiesta di aiuto che ha un suo linguaggio.
Quando viene portata a noi una patologia diagnosticata o semplicemente una difficoltà nel linguaggio spesso incontriamo una ferita nei genitori e una fatica nel vedere il loro bambino reale.
L’ aspetto che mi attrae maggiormente in questo percorso è l’attitudine a porsi domande; osservare quanto accade in terapia, cosa porta il bambino, senza produrre interpretazioni (ciò esulerebbe dal mio mandato terapeutico e dalle mie competenze) ma riconoscendo i sentimenti e le emozioni che l’altro genera in noi e domandarsi perché accade?. E’ una formazione continua, condivisa in un gruppo di supervisione e ricerca dove vengono portate e narrate le relazioni che ci creano più interrogativi, quelle che ci portiamo a casa, su cui incontriamo delle difficoltà e continuiamo a riflettere ben oltre il tempo del lavoro.
Ha anche rapporti con gli insegnanti. Cosa chiedono? Come li può aiutare?
Di frequente ho occasione di incontrare gli insegnanti ed è sempre un momento prezioso, dato che i bambini trascorrono a scuola la maggior parte del loro tempo. I bambini che vengono da me possono avere un rapporto conflittuale con la scuola, spesso fanno fatica a leggere o continuano a fare errori ortografici quando scrivono. Alcuni di loro trovano faticoso andare a scuola tutti i giorni.
I rapporti più fruttuosi si hanno con gli insegnanti che riconoscono le fatiche del bambino e si pongono come loro alleati per favorirne l’apprendimento, mettendo in campo conoscenze e creatività per adattare il loro modo di insegnare alle esigenze dei bambini.
In altri casi negli incontri con gli insegnanti rimane solo la possibilità di ascoltare. Anche questo pezzettino di lavoro è importante per creare una rete attorno al bambino e alla famiglia, e poter condividere dei pensieri insieme. I genitori si sentono supportati e possono vedere il loro bambino da prospettive diverse.
Gli insegnanti spesso hanno bisogno di un interlocutore anche solo per condividere quello che osservano durante le ore di scuola, le fatiche che incontrano e la responsabilità che inevitabilmente si accompagna ad un rapporto di insegnamento.
Lo studio Keros, dove lavora, chi accoglie? Perchè Keros?
Spazio Keros è nato più di dieci anni fa da un sogno condiviso tra colleghe nei corridoi e nelle pause pranzo di un servizio UONPIA di Milano. Dai sogni condivisi in modo informale è nato un desiderio sempre più vivo e così i progetti hanno assunto concretezza. L’idea che ci accomunava all’inizio, e che rimane la nostra caratteristica principale anche oggi, è quella di una condivisione costante tra professioni diverse, con una visione multidisciplinare rispetto all’ambito di cura. Il servizio territoriale è stato il luogo del primo incontro, dove in cinque abbiamo dato voce ai nostri desideri. Pian piano la progressiva conoscenza ha affinato la sensibilità e il rispetto che sono alla base del nostro gruppo di lavoro. Questo ci ha dato la spinta per strutturare un posto nostro che ci rispecchiasse nella modalità del lavoro.
Anche la scelta del nome rispecchia il pensiero di fiducia nel cambiamento: in greco arcaico “Keros” significa cera, materiale plasmabile, sempre in divenire e aperto al cambiamento. Materia nobile che permette all'anima di esprimersi concretamente e che con il calore trova la sua forma ed emana la sua propria luce. L’idea di indeterminato, di possibile modifica che questo nome porta con sé si riflette nel rapporto di terapia, nell’attenzione a cogliere e sostenere i più piccoli cambiamenti.
È nato così uno studio multidisciplinare che oggi vede la partecipazione di varie figure professionali, orientato alla cura di “patologie” dell’età evolutiva primariamente, ma non solo. Fondamentale il confronto in equipe dove ognuno fornisce un contributo in relazione alla formazione personale e al lavoro specifico, in un ambito di libera professione.
Ha tre figlie, in eta`di trasformazione, come riesce a conciliare la vita privata con quella professionale?
Domanda difficile ma assolutamente attuale. Mi viene subito in mente l’immagine del giocoliere che cerca di far roteare più clavette possibili camminando lungo un percorso...e in genere dopo poco qualcuna se la perde. Così è, mi perdo pezzi, faccio errori, dimentico cose e spesso confido nelle prelibatezze dei piatti pronti un momento prima di entrare in casa. Il pensiero però è costante verso le mie figlie, con la domanda “qual è il loro bene? Qual è il bene per la nostra famiglia?”. Allora si costruiscono momenti dedicati, di ascolto e condivisione… o di shopping. Siamo in cinque e le esigenze delle ragazze cambiano con la crescita, e anche io e mio marito cambiamo. Il mio grande desiderio è che ognuno di noi sia coinvolto nel cambiamento dell’altro. Cambia il modo di vestirsi, i compagni di scuola, quello che piace mangiare e io rimango spesso indietro, ho bisogno che loro mi raccontino di sé.
Sicuramente il mio lavoro è una parte fondamentale della mia vita, mi piace, l’ho scelto e vi investo molte energie; è anche una parte che mi porta molta ricchezza e creatività. L’energia che mi trasmette il lavoro, i rapporti con i bambini e le loro famiglie la riporto poi a casa nelle relazioni familiari. Ogni tanto mi capita di raccontare pezzettini del mio lavoro alle ragazze, è un modo per far vedere loro anche un’altra parte di me, difficile da percepire perché non visibile.
Milano è una città che offre possibilità di cura per quanto riguarda i problemi di apprendimento e del linguaggio?
Sicuramente Milano offre molte opportunità di cura; nelle diverse zone della città sono molteplici i centri pubblici, privati e convenzionati con la Regione che possono assorbire la richiesta di terapia rispetto ai disturbi di linguaggio e dell’apprendimento. Molte sono anche le equipe accreditate ATS per la diagnosi di DSA e le informazioni sono generalmente di facile accesso. In genere consiglio alle famiglie di trovare un centro vicino al luogo d’abitazione, soprattutto se il progetto terapeutico prevede un rapporto continuativo con cadenza settimanale o anche di più incontri a settimana, in modo da ridurre gli spostamenti e la fatica di gestione, cosicché la terapia sia sostenibile anche per un lungo periodo, se necessario. Spesso mi capita di mettere in contatto i genitori con altri professionisti, colleghi logopedisti o altre figure terapeutiche. Mi sono accorta di come sia importante dedicare un tempo di ascolto anche solo per poter dare un’informazione o un riferimento aiutando il genitore ad identificare il bisogno del suo bambino. A volte le famiglie arrivano perché consigliate da amici, dalla scuola o perché hanno cercato informazioni nel web ma senza avere chiarezza di quale sia il bisogno del loro bambino e, ancor meno, di quale percorso di terapia intraprendere.
C’è una qualche parte di Milano che lei ama in particolare e che la accoglie soccorrevole dopo tanta dedizione agli altri?
Sono nata e cresciuta a Milano, quindi sono di parte! E’ una città che amo e che mi piace scoprire in ogni occasione, vedendo come si rinnova o come si addobba diversamente a seconda delle stagioni. Mi piace molto camminare e anche un po' perdermi (ho un pessimo senso dell’orientamento e ringrazio l’esistenza dei navigatori GPS). Abito a Sud-Est di Milano e spesso mi capita di andare a piedi in centro o verso il parco della Vettabbia e Chiaravalle. Camminare è un modo per chiarire i pensieri, fare ordine nelle giornate piene di lavoro e di incontri ma è anche la possibilità di dare spazio al corpo e alla stanchezza fisica. Milano mi accoglie nelle sue possibilità, non solo come quartieri che si alternano ma anche per le attività che si possono fare e io, curiosa, trovo sempre qualcosa di nuovo da sperimentare che mi “rigenera”.