Il significato di quello che esprimiamo è dato dai simboli che lo rappresentano graficamente e acusticamente. La forma è l’ovunque e l’ovunque possiede il luogo perché vi è una residenza del formale in quanto sostanza della vita fisica ed immaginata. La vita dello spirito è nel formale contemplata come viaggiatore del mezzo fisico del corpo al quale ci si rapporta, comunque “geometricamente”, in senso affermativo o negativo nel confronto con la propria condizione umana: ciò che da esso deriva informa il ricettore a livello di coscienza. Il corpo è “Abitato” da infinite “Informazioni”, ed in questo termine si enucleano contenuti nella direzione formale che è insita nella morfologia composta della parola “In-formazione”: ciò che diviene forma e si mantiene dentro ad un pensiero e alla sua conseguente visione ed esperienza.
Informazione 1. ant. e raro. L’azione dell’informare, di dare forma cioè a qualche cosa.
(Vocabolario Treccani)
Tutta la concatenazione di questi gesti esperienziali arriva ad apparecchiare un percorso e a determinare la sua planimetria e la sua motorietà grafica rispetto alla morale che investe l’apparenza come la sostanza. L’atto del coprirsi, o del suo opposto, è un’azione legata alla semantica comunicativa e contempla il principio della decorazione e del decoro e dunque informa. Di fatto è un linguaggio che possiede una mutabilità (Moda) e al contempo una sua immutabilità (Costume) che si processano come un dizionario dell’anatomia emozionale, giuridica, sociale dell’uomo. Lo stesso vale per la parola ed il suo ruolo di contatto, rivelazione, o copertura: quest’ultimo aspetto attiene alla parte della non veridicità del suo impiego al fine del messaggio, alla sua potenziale strumentalizzazione e dunque al suo esercizio improprio.
A seconda del luogo dove si esprime vi è una ritualità intima o pubblica che si dosa, in diversa misura, per rappresentarsi nel gesto sociale del coesistere nel rappresentarsi, comunicarsi, ma anche nell’azione personale che si processa dall’epidermide, come ipotetico confine anatomico del proprio ego. Dalle parti significanti emerge il sonoro significato che appartiene a quelle logiche dell’emerso alla luce, tracciabile e leggibile come antropomorfa costruzione materica del senso proporzionale tra anima e suo dettato.
Le parole come la forma ingravidano perché producono un’espressione che in certa misura esercita una sua dinamica spaziale e una sua dimensione volumetrica nella testa di chi le riceve sino ad esprimere un significato coerente al vero o ad esso antitetico.
Quanto più rispecchiano il dubbio ed il suo sondaggio tanto più aiutano il processo della dialettica e dell’etica perché permettono la palestra del pensiero, il confronto e le sue risultanze espressive.
Doveroso sarebbe cercare la controprova del comunicato in termini di onestà d’intenti, veridicità, autenticità, ma diviene sempre più complesso per le sopraggiunte condizioni di disintegrazione, spazio- temporale, tra lo spartito e la sua esecuzione, indotte dalla rete, dal così detto pensiero simultaneo e all’apparenza, democratico di chi si fa portatore del battesimo sociale portando il nominale nel definitorio di natura: social/sociale.
La storia recente ha investito gran parte del suo processo espressivo sul dibattito tra prova e controprova. Parlando dei bisogni indotti ha raccontato delle necessità provando a giocare a scacchi con le regole della dama. In tale contraddizione si sono intorbidite le acque della coscienza su che cosa siano le necessità rispetto ai bisogni e si è abdicato al ruolo magistrale che attiene alla coscienza e a quanto si può realmente giustificare delle proprie azioni.
Nell’abitare il corpo la ricezione delle informazioni e la loro elaborazione, coerente all’habitat, sono sostanziali di un processo organico al sistema di natura nel quale siamo inseriti.
Nel costume sociale ci deve essere un ricettore organico al necessario, più che al bisogno, che sovverta la corrente di quest’ultimo che ha raggiunto la saturazione degli interstizi formali dove ancora regnava l’ossigeno del bello, del buono, del vero di platonica memoria.
L’attenzione a quanto si esprime, e a quanta parte si possa di questo giustificare, entra nel discorso formale del costume.
Ponendo l’esempio di un abito sartoriale di Haute Couture, dunque su misura e a misura dei sogni dell’essere umano, in esso si incontra il potenziale immaginativo del creatore di moda (Couturier, Direttore Creativo...), e lo studio della struttura fisico/anatomica del soggetto che lo deve indossare, prima idealmente legato al modello ispirazionale e poi concretamente nel corpo della modella e del cliente finale.
Nei passaggi costruttivi di tale forma si tiene presente il tema ed il soggetto a cui il creatore si è rivolto e prima di realizzarlo si imposta la tela che ne è l’aspetto negativo del risultato in positivo, conclusivo: la bozza su cui lavorare e perfezionare l’esecuzione.
Di queste tele abbiamo avuto un esempio evidente nella mostra celebrativa dei 70 anni della Maison Dior, andata in scena a Parigi, nel 2017, dove per l’occasione sono stati realizzate, ed esposte sui manichini, le prove in cotone degli abiti definitivi in mostra.
Prototipi indossabili e formalmente coerenti agli originali: abitabili per l’essere umano. Della “Prova” va però osservata la neutralità materica, rappresentata dalla tela di cotone bianca, e l’assenza di decorativismo, se non quello insito nei tagli sartoriali che donano il volume e la forma. L’assenza della soggettività termica e grafica del tessuto originale, che è in realtà scelta cosciente e progettuale del couturier, in quanto i materiali sono legati alla stagione di riferimento e al momento della giornata a cui è dedicata la creazione (abito da cocktail o da sera...), unita alla sottrazione dell’aspetto decorativo connesso al colore e alle espressioni grafiche che appartengono a stampati e ricami, presenti invece nei capi definitivi. Si evince da tale esempio che l’abito è tale anche nel suo divenire e nei passaggi che lo costruiscono ma il suo utilizzo perde di funzione nella tela di prova in quanto neutralizza il cinquanta per cento dell’atto creativo dato dalla mancanza della materia originale scelta e dal colore senza dimenticare le potenziali grafiche.
Si può dunque parlare di un pensiero incompiuto e per tanto portatore di informazioni incomplete. Utilizzabile solo parzialmente perché parziale nella sua natura di soggetto di prova.
Il bello ha una sua oggettivazione che contempla la totalità della natura nella sua forza espressiva e ogni elemento che lo compone concorre alla sua funzione. Questo vale per la moda come per qualunque altro settore.
Ciò che è sperimentale rimane il parziale di un’esperienza. Se utilizzato come completo si entra in un tema che non corrisponde al fine per il quale è stato pensato ma solo ad un suo processo addizionale che non completa l’opera ma la fa altra dal suo senso più profondo.
Assistiamo e ci facciamo attori della soluzione chimica dell’armonia incentivata dal profitto. Approcciamo il pressappoco come parametro dell’assoluto.
Usiamo, senza cognizione di causa, e con vertiginoso impoverimento delle risorse lessicali, il discernimento linguistico per capire lo strumento del corpo, che è il mezzo del viaggio, sempre più letto come fine e unico scopo. Quest’ultimo lo rendiamo centrale dell’esperienza, approssimandolo nei modelli, fuori natura, che raccontano di novità, solo apparenti, per il gusto del nuovo, fine a sé stesso, posseduto per possederci in quanto da esso strumentalizzati dal bisogno di credere in una forma necessaria legata all’ultima uscita.
La condizione di rispetto che di fatto, in chi si fa autore di un modello, è scambio di opinione, si processa nel raggiro contenutistico per favorire un nocciolo della questione che è meramente allegorico mentre il centro del problema è il crollo della di coscienza umanistica a favore della coscienza economica come unico dominio della volontà degli intenti.
Tale economia di linguaggio genera una progenie emotiva non concreta e scollegata dall’esperienza reale. Le parole ingravidano e possono condurci ad esperienze reali e a dubbi concreti così come a processi estetici che colmano di bellezza la nostra quotidianità così come di paura ed orrore.
Ogni parola è un’azione informatrice di una funzione, di un ruolo, di una qualità, una quantità, un’emozione, una immagine, che rimanda a condizioni private ed universali e che concatenata con le altre si sviluppa in un senso appropriato ad una verità relativa o assoluta o al suo opposto.
Le parole, dunque, ci fanno portatori di informazioni sulla vita e per la vita. Le immagini sono parole anch’esse, rispecchiano la semantica e hanno suono e funzione onomatopeica come le parole e nella loro forma si raccontano come lettere, in acustica e contenuti, generando nella loro specificità una sequela che, partendo dal modello, si declina nell’inedito a volte accogliente, a volte respingente, tra l’ecumenismo e l’escludente in tutta la gamma che tra i due estremi si manifesta.
La terminologia specialistica, legata al lavoro, a competenze tecniche, o quella sociale legata alle aggregazioni di forma e stile della strada si compattano in un ideale, connesso a principi comuni nei quali riconoscersi, e genera formule strutturali specifiche che spesso lasciano il tempo che trovano ma altrettanto di frequente modificano la società ed i suoi principi perché, oggi, rapidamente intercettabili, e proponibili, attraverso i social.
Non una lingua a modello universale ma più esperienze che interagiscono nel periodo e nel luogo del bisogno aggregativo coatto per l’estetica della quantità, che diviene per proprietà transitiva parametro di qualità. Questo fenomeno è sottrattivo ed esclusivo delle parti che organicamente costituiscono il modello letterario della lingua e del linguaggio dell’immagine che dovrebbe in verità permettere all’uomo, attraverso la loro duplice pratica di vivere vere acquisizioni qualitative sulla forma del vivere in appartenenza alle forze edificative dell’etica umana.
La forza dei principi semantici della lingua sono essi stessi paradigmi del linguaggio. Oggi la forza delle espressioni formali si misura nell’ora e qui più che nella potenza di un ideale superiore. La territorialità è ridotta all’io del singolo.
Non abbiamo più l’abitudine alla ponderazione formale dei messaggi e delle immagini e all’analisi critica che deriva dalla capacità definitoria della lingua, nella sua totalità e nel suo colore.
È ormai costume cannibalizzare la traccia completa di un’opera che si tratti di insiemi, volumi, o trame. Le necessità privatistiche, di colonizzazione del pensiero, in funzione di una progressione vertiginosa del pallottoliere dei soggiogati a scompenso della qualità dei protagonisti è sovrana.
La capacità descrittiva dell’identità, al massimo del nutrimento dell’anima, attraverso la propria espressione linguistico-letteraria è possibilità di autoalimentazione dell’emozione e del senso di appartenenza al sentimento della natura e al territorio che li definisce e li caratterizza, oltre ogni ragionevole dubbio. Ecco il formale! Ecco il suo divenire! Ecco la sua abrasione costruttiva!
Il motore è la personalizzazione e soggettivazione del sé manifesto, nella carne e nelle ossa, di un corpo umano che mai si ferma e che possiede radici salde nella sua storia e nella sua capacità di raccontarla senza ibridazioni o imbastardimenti indotti dal concetto che il prodotto supera l’edotto.
Saper leggere la forma e sapersi manifestare per la dignità di ciò che il proprio percorso racconta, oltre il condizionamento della giovinezza fisica, come “unico parametro sociale di valore riconosciuto”, dando peso all’esperienza e all’espressione della lingua e della sua essenza più alta, è il modellato che più rappresenta la trasgressione alla norma vigente che fa della sovversione della regola l’unica corrente percorribile.
Impopolare è la divisione tra il bene ed il male ma oggi, forse, sembra essere l’unica strada per una rivoluzione dei costumi che porti ad arricchire l’alfabeto della forma per ripristinare le sfumature che la sintesi di oggi ha neutralizzato e che permette la coscientizzazione che è essenziale all’uomo per essere tale. I recenti funerali di Elisabetta II hanno mostrato al mondo l’impeccabile esecuzione di un rito che, antico, ancora in tale sostanza si esegue. Il pubblico ha guardato e si è nutrito di tale perfetta rappresentazione di un saluto ad una alta carica istituzionale, e per essa si è fermato.
Siffatto linguaggio, composto di simboli, e rituali, si è imposto all’opinione pubblica nella sua sacralità come atto dovuto alla vita.
L’adesione ai simboli ed ai riti collettivi, formalmente impeccabili, sembra figlia di un tempo passato e di un luogo che non è più d questa terra, ma forse vi è ancora una ricerca nel tema del rispetto che va oltre “L’ultimo grido”.
La lingua ed il linguaggio delle immagini definiscono la scena ed i suoi protagonisti, e ci ingravidano di conoscenza tra verità e suo opposto.
Oggi, più che mai importa vestire, sartorialmente, il proprio pensiero di quella struttura terminologica che ci dà la motorietà dell’idea, libera dalla privazione di un registro che ha coscienza di esistere perché parte della scuderia del rispetto e della dignità, che si raggiunge attraverso la coscienza del limite, il dubbio e la sua esperienza. La forza che ne deriva racconta il percorso ed è il carburante della progressione quotidiana dell’uomo nella storia.
I registri comunicativi ed i contenuti che in essi sono racchiusi parlano di rispetto e di una loro esistenza come fine e non come mezzo.
Ogni attimo di faziosità nel sistema sociale, ogni insubordinazione della forma, rispetto al contenuto, crea una gravidanza isterica delle idee: una deriva dei modi, che annulla l’armonia del bello e la possibilità dell’uomo di guardarsi dandosi ancora del “lei”.