La donna G. ha dimenticato. Suo marito D. ricorda. Per qualche ragione che non viene mai nominata G. e D. sono chiusi in una stanza dalla quale non possono uscire e D. cerca di trasportare G., che ha sepolto l’inaccettabile, in un viaggio di riacquisizione della coscienza. Non gli manca la crudeltà. Sul palco si susseguono tre racconti, tre sogni che si svolgono in luoghi e secoli diversi: a Londra nel 1617, a Parigi nel 1793, nella contea di Boone nel 1856. Immutata la sopraffazione dell’uomo sulla donna, del potente sull’inerme.
È Favola, tragedia da camera contemporanea in tournée fino alla primavera 2023, con Giorgia Cerruti, anche regista, e Davide Giglio, prima tappa di Progetto Vulnerabili di (a loro non piace “della”) Piccola Compagnia della Magnolia che prevede tre spettacoli sulla vulnerabilità da qui al 2024. Con Favola s’indaga la vulnerabilità al tempo, con Enrico IV di Pirandello alle apparenze e con I Cenci di Artaud all’ingiustizia. Fabrizio Sinisi ha scritto Favola e adattato gli altri due.
A che cosa è vulnerabile Giorgia Cerruti? Non è domanda da farsi. Sappiamo, però, che una delle questioni centrali della sua vita è la memoria. Ha cancellato almeno un lustro, perciò è come fosse più giovane. Ricorda espressioni e odori remoti. Non ricorda gli accadimenti negativi e i copioni le rimangono impressi per sempre. Elementi che, distaccandosi dal consueto, lasciano intravedere venature di invulnerabilità.
La memoria?
Ho veramente un rapporto un po’ strano con la memoria. Io ho dimenticato tutto ciò che è accaduto nella mia vita fino ai sei anni, che non è tantissimo, ma… So che fino a sei anni i miei genitori vivevano insieme e io vivevo con loro in una casina, come peraltro la chiama Fabrizio (Sinisi n.d.r.). Quando mi sono risvegliata, dopo un incidente e un coma, i miei avevano divorziato e questa cosa un po’ mi spiace, come a tutti i bambini, eh, senza far tragedie, anzi sono cresciuta con l’amore enorme di entrambi, ma mi fa incavolare non avere un ricordo, pur sapendo che invece quel tempo reale c’è stato.
Hai detto che questa smemoratezza porta pure ad abitare più vite.
Sì. Da bambina vale 0,1 perché non lo sai neanche, però in mano a un drammaturgo suscita voglie e lui ha subito pensato a cosa succede se togliamo la memoria a una persona che immaginiamo trasmuti di stato identitario e sociale. Cosa si porta dietro questa persona? Cosa mi porto io dietro dei miei primi sei anni? Non so. Fabrizio ha traslato quello che gli ho raccontato dentro alla coppia di Favola, nella libertà totale che si è preso con la sua meravigliosa penna.
Il testo è dedicato idealmente a Pasolini.
Davide, Fabrizio e io condividiamo un enorme amore per Pasolini. Alla fine del 2018 iniziai a meditare su un lavoro che contenesse l’addormentarsi e lo svegliarsi perché rimasi folgorata da una lettura, l’ennesima, del Calderón di Pasolini. L’avevo già letto anni fa ma con totale leggerezza: non avevo capito niente. L’ho riletto e sono rimasta folgorata, non tanto dalla scrittura, in parte anche un po’ datata, ma dallo scheletro dell’opera, con questa Rosaura che attraversa epoche, storie e vite rimanendo se stessa, addormentandosi e svegliandosi come una bella addormentata. Passati due anni, la pandemia, mi sono chiesta: a chi vorrei far scrivere un’opera su questo soggetto? Alla penna che io oggi più stimo, a Fabrizio Sinisi che è un profondo conoscitore di Pasolini: ci ha fatto la tesi e tradusse il Calderón per la compagnia Lombardi-Tiezzi.
E lui?
Mi ha detto: “Guarda Giorgia, io scriverò un testo autonomo che avrà, sì, delle suggestioni di Pasolini ma, soprattutto, di quello che mi racconterete tu e Davide”. E quindi mettendo nel calderone, senza più sapere bene i contorni, Pasolini, la mia storia personale e anche, non da ultimo, il rapporto simbiotico che lega me e Davide, e facendo la centrifuga è nata Favola. Simbiotico è dir poco: siamo stati una coppia anni e anni orsono, non lo siamo più, ma abbiamo fondato la compagnia, abbiamo vissuto insieme, lottiamo insieme da quando avevamo vent’anni. Insomma lui è proprio la “mia” persona
La tua regia?
Mi andava di lavorare sulla video art e ho chiesto a Fabrizio, per favore, di tenere in un angolo della mente che io avrei voluto che una grossa sezione del soggetto si esprimesse tramite video proiezione, nello specifico i sogni di lei, G. I video li abbiamo realizzati io e Giulio Cavallini, bravissimo videomaker e aiuto regia video dello spettacolo che con me ha composto il lavoro che scorre in video, frutto di un mio ragionamento registico sul testo. Un flusso curioso, anche da vedere.
Un po’ al di fuori del tempo?
Dici bene. In un tempo nel quale la digestione dei testi, anche nella drammaturgia, è molto veloce e molto dialogica, Fabrizio in qualche modo lavora per sequenze di grandi monologhi. In primis di G. perché D. invece, che è assolutamente protagonista come lei, se non di più in quanto regista, marito, aguzzino, è la parte che agisce e non parla.
Infatti i costumi di G. sono appariscenti, mentre D. è quasi incolore per esercitare meglio la sua funzione.
Esattamente. Hai usato la parola funzione che ci è proprio carissima per questi due personaggi che aiutano il dipanarsi della grande storia dietro di loro: dagli indiani alla schiavitù. Sull’eccentricità di lei e la maggior neutralità di lui, il drammaturgo è chiaro: G. è attrice e ha un coté un po’ cocotte.
Fin dal principio, quando è seduta, con la coscia che quasi si confonde col cuscino e suggerisce la carnalità.
(ride) Son contenta che si vedano i dettagli. Questa del cuscino mi tocca un sacco, cavolo! Alle volte fai le scelte perché segui un disegno preciso, e poi scopri che qualcuno nel pubblico se ne accorge.
Perché si chiama Piccola Compagnia della Magnolia?
Eravamo una banda di smandrappati, alla nascita di una compagnia si fa festa e quella sera eravamo tutti insieme, mezzi ubriachi: fra il bere il mangiare, il dire cavolate decidiamo il nome. Io tiro fuori la magnolia perché avevo letto in un libro di simbologia ermetica che la magnolia è un fiore che si rigenera sempre senza passare dallo stadio di deperimento. Non in botanica dove muore. Abbiamo voluto aggiungere piccola perché eravamo pochi, artigianali.
Fate vita di troupe?
Quando avevo quindici anni ho proprio iniziato a desiderare che il teatro diventasse la mia professione e non mi pensavo come attrice ma in un gruppo di lavoro. Adoro il mio mestiere, fare l’attrice e la regista, ma mi ricordo come fosse adesso che pensavo il gruppo e il viaggio i due elementi di felicità nella vita. Finito il liceo linguistico sono andata a studiare teatro alla Cartoucherie / Thèatre de l’Epèe de Bois a Parigi, dove il mio maestro Antonio Diaz-Floriàn mi ha fatto crescere in un clima di troupe. Facevamo tutto: l’amministrazione, le prove, andavamo in scena, il ristorante per gli spettatori, la pulizia delle cucine. Buttavamo la spazzatura. Corvée pranzo a rotazione. E nel bene e nel male ho portato questo nella Piccola Compagnia della Magnolia.
Ovvero?
Nel bene perché è una cosa in cui credo, nel male perché oggi in Italia, economicamente, è molto difficile seguire questa metodologia che richiede la presenza di tutti quanti nell’ensemble. Molto avvilente. E c’è anche un trend da notare. Da un po’ di anni gli attori sono interessati a essere free lance, più che sposare una causa a lungo termine, a passare da una cosa all’altra anche, spesso, con delle marchette. Non c’è giudizio, ma fare troppe marchette ti intossica un po’. Il sistema non protegge i suoi artisti, questo è sicuro. Le ultime decisioni ministeriali dimostrano che sempre di più si difende l’istituzione e non gli indipendenti perciò capisco anche che gli attori vadano a cercare lavoro per i vari teatri stabili. Noi lottiamo tanto, a prezzi altissimi. E non per chissà quali filosofie, ma proprio per una roba tecnica: è un lavoro che richiede talmente tempo e pazienza che se tu inizi a imbastardirlo perdendoti su cose basse e brutte…
Su Favola vorrei aggiungere che le musiche originali sono di Guglielmo Diana, giovanissimo e molto bravo. E Davide Giglio È un gioiello di attore, una presenza delicata, puntuale. Molto bella.