Di che corpo sei? Io sono del genere “corpo alto”. Beh, altissimo, direi, dato che sono alta 1 metro e 80. Solo che un conto è un corpo-donna 1 metro e 80 in età adulta, consapevole, pacificata, un altro è un corpo-donna 1 metro e 80 a 15 anni, età di passaggio piuttosto critica. Un metro e 80 a 15 anni è tutto uno spalancarsi di bocche “Oh, come sei alta!”. Uno stare fuori dai canoni che ti rendono simile alle altre, mentre dentro quei canoni vorresti starci eccome (che poi quei canoni li abbia stabiliti qualcun altro al di fuori di noi, è un’altra storia).
Di che corpo sei?, dunque, come a chiedere di che segno sei? Solo che il corpo, al contrario di un segno zodiacale, si vede bene, è lì che parla al posto nostro, per quanto ce ne stiamo zitti. È l’involucro, il contenitore con cui ci presentiamo al mondo. E il mondo, si sa, non sempre è dalla nostra parte. O meglio, dalla parte del nostro corpo.
Per anni ho vissuto la mia altezza fuori dai canoni come un grande trauma. Qualcosa che non mi ero scelta, che non mi rispecchiava. Da bambina e adolescente ero timidissima, faticavo a tirare fuori la voce, specie con chi non conoscevo. Essere molto alta, e (oltretutto) donna, mi metteva in una posizione di rilievo, ben in vista – esattamente dove io non volevo stare. Invece, tutti a puntare il dito contro di me. Durante la ricreazione, alle elementari, il ritornello canzonatorio di tutti i giorni era “Watussa, Watussa!” Perfino quando qualche compagno mi incrociava fuori per strada. Certo si sa, i bambini scherzano. Ma i bambini sanno anche essere perfidi, nei loro scherzi. Soprattutto se questi scherzi si ripetono per anni (oggi questo particolare tipo di bullismo ha un nome: body shaming). Oltre all’altezza chilometrica, spiccavo per due braccia extra-lunghe tutte ossa, quasi due rami secchi e nodosi. E in aggiunta, un bel paio di occhiali sul naso, l’apparecchio ai denti, e un petto in stile tavola da surf! Un vero obbrobrio, a guardarmi – nella mia percezione di adolescente insoddisfatta di sé.
Durante l’ora di educazione fisica alle medie, poi, vigeva questa usanza, per cui all’inizio dell’ora venivamo sistemati in piedi contro una parete, in ordine di altezza. Non ho mai capito bene a cosa servisse. Darci un ordine, ma esattamente per cosa? Così, mentre tutte le mie compagne medio-basse se ne stavano a un lato della fila, io mi ritrovavo a chiuderla dalla parte opposta, come alunna più alta della classe, subito prima di Fabio, il maschio più alto. Io stavo nella vergogna. Inutilmente, direi ora. Ma all’epoca ero una ragazzina insicura e schiva che non voleva apparire troppo, dentro una società dove il “normale” e socialmente accettabile è il maschio che supera la donna, in altezza, e dove io, invece, “osavo” fare il contrario. L’insegnante di educazione fisica ha provato in tutti i modi a esaltare la mia altezza e le mie gambe lunghe: pallavolo, salto con l’asta, corsa ad ostacoli. Un disastro, ogni volta. Non sono mai stata portata per lo sport. Non riuscivo ad appassionarmi – e dunque ad applicarmi. Semplicemente, mi interessava fare altro. E ogni disciplina sportiva che provavo, senza la minima convinzione e motivazione, finiva in risultati fallimentari, con la prof sconsolata lì a ripetermi, puntuale, “Ah, Costenaro, che spreco, con quelle gambe!”. Non sono riuscita a fare della mia caratteristica fisica, un talento. Ma sinceramente non mi importava e non mi importa: sono convinta che ognuno debba seguire ciò che più lo appassiona, senza sentirsi obbligato a fare qualcosa solo perché gli altri (e la società) si aspettano che chi possiede quel tratto fisico, debba sfruttarlo per forza.
Gli adulti, dal canto loro, apprezzavano la mia altezza, e, vedendomi a disagio, mi ripetevano in coro il famoso detto “Altezza, mezza bellezza”. Ma a poco serve, un commento del genere, a una ragazzina cui interessa passare il suo tempo a leggere e scrivere, dentro mondi paralleli. E la cosa triste, è che non riuscivo a far finta di nulla, non ancora. Soffrivo parecchio. Ci sono voluti anni, il raggiungimento di una certa maturità e consapevolezza, di una mia sicurezza personale, per accettare questa mia caratteristica, che non posso cambiare, e farne una mia alleata. Qualcosa che mi distingue, certo, ma che non mi crea più lo stesso disagio e a cui non faccio più tanto caso. Sono diventata seguace pure io, senza rendermene conto, della filosofia detta body positivity?
È negli anni ’90 che, grazie a una associazione statunitense, The Body Positive, guidata da Connie Sobczak ed Elizabeth Scotto, emerge il termine body positivity. Ossia: amare sé stessi e il proprio corpo, così com’è. Concezione che si è diffusa soprattutto negli ultimi due anni, legata ai concetti di “diverso” e “inclusione”. Ma accanto a questo modo di intendere il proprio corpo, dal 2015 si sta facendo strada un nuovo pensiero, sostenuto dalla life coach Anne Poitier: e se la soluzione, invece, fosse di non darci troppo peso, al nostro corpo? Riflessione sostenuta dal body neutrality: più che invitarci al self-love, ci invita a cambiare modo di pensare. Non facile, ma interessante: amare il proprio corpo in relazione alle funzioni che svolge, e tutto il resto è noia! Quel che conta, è cosa so fare, io con il mio corpo, piuttosto che com’è, esteticamente, il mio corpo.
Io credo che un corpo fuori dai canoni vada bene sempre, a patto che non metta in pericolo la salute della persona che ci sta, dentro quel corpo. Quando vivevo a Dallas, negli Stati Uniti, mi spostavo con i mezzi pubblici. Chi può permetterselo, a Dallas guida l’auto e non è mai salito su un mezzo pubblico in vita sua. Io, ospite della città per 10 mesi, lo prendevo regolarmente per andare da casa all’università, assieme alle persone meno abbienti. L’autobus era pieno di persone obese. Secondo uno studio della Harvard del 2020, 1 americano su 3 è obeso, in particolare donne nere non ispaniche (59%). I maggiori casi di obesità sono concentrati nel Sud e nel Midwest. La cosa che più mi colpiva, dentro i bus che prendevo ogni giorno, erano i pannelli posizionati sopra la cabina dell’autista, dove passavano scritte luminose a ricordare che l’obesità è un fattore molto pericoloso per la salute delle persone, che può portare a disturbi molto gravi, se non alla morte. E queste scritte luminose passavano proprio mentre, accanto a me, una donna obesa si ingozzava con hamburger e patatine fritte presi al volo prima di salire, in qualche catena di ristorazione a basso prezzo. Ed io pensavo: finché ci saranno persone con poche possibilità, e questa moltitudine di ristoranti a basso prezzo e di scarsa qualità, come possono arrivare, certi messaggi, ai loro destinatari?
Prendersi cura del proprio corpo. Educare alla salute del corpo. Accettare il proprio corpo in tutte le sue particolarità. La cultura del rispetto del corpo, di ogni corpo. Tutte questioni che andrebbero affrontate nelle scuole, nei toni e modi più adatti a ogni età, con le metodologie più appropriate. Fin dalle scuole materne. Si fa, sì, soprattutto in alcune scuole che seguono progetti all’avanguardia, ma è ancora troppo poco. Il corpo, in fondo, è la nostra casa – che ci piaccia o meno. Della nostra casa, ci prendiamo cura. Facciamo attenzione a non rovinarla. Il corpo è la nostra casa “ambulante”, che portiamo sempre con noi, ovunque. Questa metafora della casa, è semplice e potente. Ecco, forse si potrebbe cominciare da questa, per educare alla cura del e al rispetto di qualunque corpo: stai nel tuo corpo come stai a casa tua. E a sostegno di questo pensiero, ci arriva, come tante volte, la poesia. Più precisamente, una poesia della poeta indo-canadese Rupi Kaur, che, alla fine, è anche una piccola preghiera di ringraziamento, per questo nostro corpo che ci contiene.
look down at your body
whisper
there is no home like you
thank you – rupi kaurguardati il corpo lì in basso
sussurra
non c’è altra casa come te
grazie – rupi kaur(Traduzione dell'autrice)