Un Acero ancora giovane viveva nella campagna assolata circondato da Aceretti appena nati. Il suo tronco corto e contorto spiccava tra gli alberelli per via della chioma abbondante e intensamente colorata. Da esso partivano numerose ramificazioni anch’esse contorte e coperte di foglie palmate verdissime. Per la verità il simpatico Acero era più affascinante in autunno quando si vestiva del suo abito giallo ambrato, lucente e suggestivo. La sua elegante corteccia liscia come seta mostrava i riflessi madreperlacei della sua fragilità, mentre le sue radici aggrappate al terreno con forza e decisione erano le giuste propaggini di un tronco immensamente possente.
La sua crescita era stata lentissima anche se ora aveva quasi l’aspetto di un albero adulto, eppure quel suo carattere solare e quell’atteggiamento un po’ burlone manifestavano un animo ancora fanciullo. Certo, stare sempre in mezzo ai piccoli lo aveva divertito e rallegrato, ma, per quanto fosse stato così piacevole, non gli aveva consentito la piena maturazione. Infatti non aveva ancora regalato i suoi migliori frutti, eppure di fiori ne era ricolmo, ma non riusciva a trasformare quelle perle nei giusti raccolti.
Tutta quella foresta di piantine da cui era attorniato stimolavano la sua fantasia, gli facevano inventare storie e racconti, musiche e canzoncine e soprattutto un’infinità di giochi. I giovanetti si entusiasmavano a giocare con lui, ma chi se la spassava più di tutti era lui stesso. Ogni giorno se ne inventava una, toglieva una radice dalla zolla e si spostava nel prato, cosicché nessuno sapeva mai dove sarebbe andato e dove lo avrebbe trovato. I ragazzi s’intrattenevano a cercarlo, si passavano la voce che era nascosto e tutti insieme gli davano la caccia. Non era mica facile riconoscerlo, era capace di abbassare completamente i suoi rami e appiattirsi verso terra come un piccolo cespuglio. Rimaneva silenziosamente raggomitolato su se stesso e se qualcuno lo scorgeva trovava un altro modo per burlarsi di lui. Faceva ridere ogni piantina, era il re degli alberelli, ma nessuno lo prendeva sul serio. Nonostante lui potesse produrre una musica prodigiosa, un’infinità di suoni a seconda del suo stato d’animo, nonostante la sua linfa scorresse nel tronco con intensità e sensibilità straordinaria trasferendo nell’armonia della musica una danza equilibrata ed equilibrante, le piante del bosco accoglievano le sue melodie, la voce del suo mondo nascosto, i suoni più antichi, cogliendone l’essenza stessa ma rimanevano sconcertate dal suo comportamento infantile.
Gli sarebbe piaciuto avvicinarsi a qualche splendida Quercia, corteggiarla e stare a lungo in sua compagnia, ma era troppo timido per riuscire a trattenerla e troppo sprovveduto per interessarla come maschio. Le Querce ne erano attratte, lo ascoltavano intrigate, lo cercavano e lo ammiravano, ma non se la sentivano di adottarlo come un figlio. Certe Albere, invece, lo usavano approfittando della sua ingenuità e tenerezza, poi facevano scempio dei sui rami e calpestavano le sue foglie, facendo a pezzi il suo animo fragile e delicato. Quando qualche femmina gli scuoteva la chioma e il cuore, per paura di una nuova sofferenza, l’Acero si rifugiava nel suo mondo bambinesco e diventava ancor più ridicolo. Come si sentiva solo, abbandonato alla sua puerilità, alla maschera che si era cucito addosso per nascondere i suoi bisogni! Gli ci sarebbe voluto un padre, un vecchio sottile e consapevole che gli insegnasse a essere più responsabile.
In un giorno di primavera, mentre l’Acero emetteva una musica di suoni ricercati e fruscianti, affettuosa e avvolgente, un Faggio centenario discese dal cielo e si collocò proprio accanto a lui. Lo guardò in silenzio, lo ammonì per la sua semplicità e incominciò a spiegargli la via della crescita. L’Acero si allontanò temporaneamente dalle sue piantine, si accostò fermamente al Faggio e decise di diventare grande. Il Faggio era molto severo e lo riprendeva continuamente per il suo agire avventato e ansioso, ma ben presto riuscì a mettere in luce le qualità nascoste del giovane Acero. Cercava di orchestrare la sua musica eliminando la pateticità dei lamenti, facendogli distinguere la diversità delle note in funzione degli stati d’animo, della stagione, del tempo, della vicinanza di altre piante. In inverno la musica era pacata e semplice, ma quando giungeva la bella stagione diventava ricchissima, colma di bemolle e diesis, di una varietà di suoni che entusiasmavano anche l’ascoltatore più distratto.
Talvolta il Faggio accarezzava l’Albero e gli faceva notare come il suono mutava, diventando prima più acuto, più alto, per poi scendere di nuovo facendosi più dolce. Se il vecchio padre gli stava vicino, l’Acero era felice della sua presenza, ma soprattutto lo rallegrava il contatto con le piantine che incominciò a guardare con affetto pa-terno. In quei momenti la sua musica affettuosa riempiva tutta la campagna d’avvolgente allegria. Grazie al Faggio, l’Acero s’accorse dei suoni invitanti che emettevano le altre piante, ognuna secondo la sua natura: le gentili Betulle chiacchieravano in continuazione, le Querce emettevano una musica solenne, le Felci una musica bassa e carica di mistero, le piante di Noce una musica sempre allegra. In questo modo imparava a costruire il suo pentagramma e a comprendere i pentagrammi delle altre piante, a leggere la chiave delle sinfonie femminili, a riposarsi ascoltando il Tiglio, a farsi stimolare dal suono vivace della Menta. In sostanza imparò a mettersi in contatto con il mondo vegetale che lo circondava, senza parlarsi più addosso per timore di non essere nessuno.
Dopo anni di duro lavoro, il Faggio riuscì a far germogliare nell’Acero ogni sua potenzialità. Pensate che il suo legno fu scelto dagli esperti per costruire i violini più precisi e preziosi, quelli che riproducevano più perfettamente l’armonia di ogni suono. Una sera, proprio mentre l’Acero cominciava a sentirsi adulto, un’esplosione di fotoni trasformò l’Antico Faggio in un abbaglio di luce che si sollevò nella notte fino a raggiungere i cerchi di Giove. Da quel giorno, ogni notte il cerchio più luminoso del pianeta guida l’esistenza terrestre dell’Acero e gli suggerisce sempre la strada giusta.
Se nel boschetto soffia una brezza
come se fosse una dolce carezza
ogni piantina suona un motivo
pieno di note armonico e vivo.
Quando nell’Acero ingenuo e burlone
il Faggio Paterno porta ragione
possono nascere i frutti futuri
dolci succosi gustosi e maturi.