Trascorriamo il nostro tempo seduti su quella strana altalena che gli umani chiamano vita. Pendoliamo tra i ricordi e le dimenticanze, tra i certo e i forse, tra le evocazioni dei profumi e la cancellazione della memoria. Entrambe le azioni, il ricordare e lo scordare, sono essenziali per l’equilibrio dinamico delle persone. Non potremmo solo accumulare nozioni o emozioni o immagini nella nostra mente e non potremmo nemmeno vivere senza reminiscenze di ciò che è stato, di quanto abbiamo vissuto, individualmente e collettivamente, come persone e come società, come singoli mortali e come stormi di frammenti d’umanità che volteggiano nei cieli azzurri del tempo presente. Ricordare e scordare sono due partiture per una medesima melodia, due componenti di un medesimo accordo esistenziale. Ricordiamo e scordiamo, per accordare.
Ricordare con il cuore
Pensiamo, sì pensiamo. Calcoliamo, ragioniamo, ponderiamo, arguiamo con acume, attiviamo tutto il logos di cui siamo capaci, esaminando i minimi dettagli e passando con gli indici della mano sugli orli delle superfici umane. Ma più spesso ci emozioniamo di fronte a un tramonto che ci rende malinconici, proviamo una sensazione di vertigine quando la vita ci propone i suoi ottovolanti da capogiro, restiamo turbati all’ascolto di un no, di un vabbè o di un chissà, ci entusiasmiamo per le nuove sfide, ci rattristiamo quando le cose non vanno come vorremmo, scoppiamo di gioia di fronte a un sorriso o a un abbraccio inatteso. Insomma, usiamo la testa e usiamo il cuore, che poi è un modo antico per definire ciò che in realtà gli scienziati hanno scoperto attenere ancora una volta alla mente.
Quando ricordiamo, etimologicamente, riportiamo al cuore. La parola ricordare deriva dal verbo latino recordāri, che voleva dire ‘richiamare alla mente’, derivato di cor, cordis ‘cuore’, con un prefisso re-, in quanto nell’antichità il cuore era ritenuto la sede dell’anima. In greco antico, il cuore era kêr e kardía, da cui tutti i termini medici che hanno a che vedere con il cardio, parente stretto del tedesco Herz, e dell’inglese heart.
Quando ricordiamo, dunque, con la carrucola e con una lunga corda facciamo scendere il secchio del nostro io nel pozzo del cuore e, quando riportiamo su quel secchio, troviamo le nostre emozioni, le nostre commozioni, i nostri turbamenti e i nostri entusiasmi che abbiamo provato nel passato. Ricordiamo, portiamo al cuore.
Rammentare con la mente
“Quel rosignuol, che sì soave piagne /…/ e tutta notte par che m’accompagne / e mi rammente la mia dura sorte”, canta lirico Francesco Petrarca in un sonetto del suo Canzoniere. E l’usignolo che ha perduto i figli o la consorte porta alla mente del poeta la sua sorte straziante, imbevuta di lacrime e di dolore. Rammenta, quindi, porta alla mente. Il verbo risale al XIII secolo. Con il prefisso ra(d)- anteposto al tema, ci spiega il movimento delle reminiscenze verso il cervello. Il dizionario etimologico di Alberto Nocentini ci rammenta (appunto) che il sostantivo mens, mentis ha corrispondenze nel sanscrito matis, che vuol dire ‘pensiero’, nel lituano mintìs ‘pensiero, idea’ e nell’antico slavo pa-mętĭ ‘ricordo’ (in russo pámjat’). La parola mente è un derivato astratto della radice indoeuropea men-/mon- che significa ‘pensare’ e che si ritrova in altri termini latini come meminisse ‘ricordare’, commentum ‘invenzione’, monēre ‘far ricordare’, nonché nel greco antico mimnḗskō ‘ricordare’, da cui in italiano abbiamo le parole derivate ammonire, moneta, monito, monumento e reminiscenza. Rammentiamo, portiamo alla mente.
Rimembrare con la memoria
I'll remember you
Long after this endless summer is gone
I'll be lonely, oh so lonely
Living only to remember youI'll remember too
Your voice as soft
As the warm summer breeze
Your sweet laughter, mornings after
Ever after, I'll remember you
Ti ricorderò, cantava Elvis Presley. Ti ricorderò anche dopo che questa estate se ne sarà andata. Ricorderò la tua voce come una calda brezza d’estate, ricorderò il tuo riso. Il cantante statunitense, re del rock and roll, usa la parola remember, rimembrare. Le rimembranze sono uno dei centri della poetica del nostro Giacomo Leopardi.
Chi rimembrar vi può senza sospiri,
O primo entrar di giovinezza, o giorni
Vezzosi, inenarrabili, allor quando
Al rapito mortal primieramente
Sorridon le donzelle
Leggiamo così nella poesia Le ricordanze, che inizia con l’invocazione alle vaghe stelle dell’Orsa: rimembrare, chi vi può senza sospiri?
Silvia, rimembri ancora
Quel tempo della tua vita mortale,
Quando beltà splendea
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
E tu, lieta e pensosa, il limitare
Di gioventù salivi?
È ancora il poeta di Recanati che rivolgendosi all’amata Silvia le chiede se rimembra ancora il tempo lieto della gioventù.
Chi di te parla o scrive,
Che, rimembrando il tuo passato vanto,
Non dica: già fu grande, or non è quella?
Giacomo Leopardi, ancora lui, si rivolge all’Italia, alla sua e nostra Patria, e ricorda il passato glorioso contrapposto a un tempo presente senza fasti.
Il verbo italiano è un prestito dall’occitano remembrar o dal francese antico remembrer, che a sua volta derivano dal latino tardo rememorāri ‘ricordare’, da memorāre con il prefisso re-. La storia di rimembrare è quindi intessuta di memoria, da memor –ŏris, che significa ‘che si ricorda, che conserva il ricordo’.
Memoria da attivare
Ricordiamo, rammentiamo, rimembriamo. Attiviamo la memoria, cioè facciamo salire alla coscienza. Il sostantivo memoria, come il memore, colui che ricorda, deriva appunto dal latino memor –ŏris. La radice indoeuropea da cui trae origine il memorare è evoluta nel tempo e ha molto gemmato, rendendo più ricco il nostro vocabolario e più colorata la nostra esistenza.
Il latino memor si confronta con il sanscrito smarati ‘ricordarsi’, col greco mérmēra ‘pena, pensiero’ e col goto maurna ‘aver cura, darsi pensiero’. In inglese mourn vuol dire ‘addolorarsi’. Il significato originario di memorare, sostiene il linguista Nocentini, sembra piuttosto quello di ‘preoccuparsi, aver cura’ e il significato di ‘ricordare’ si è sviluppato per l’accostamento ai verbi come il latino meminisse, che ha una forma simile ma risale alla radice *men-, da cui la parola mente. La memoria dunque è imbevuta di vicinanza, di relazione, di desiderio di prendersi cura degli altri e talvolta anche di dolore per il troppo pensiero.
Dimenticare per valorizzare
Non riusciamo a trattenere tutto nella mente: troppe informazioni, troppi dati, troppi oggetti da custodire una volta che li abbiamo levigati in noi. Se ricordassimo tutto, vivremmo sommersi di ingombri, squassati dal troppo pieno.
Talvolta non riusciamo a ricordare perché le emozioni provate sono troppo forti, dimentichiamo per rispetto alla potenza del momento vissuto, scordiamo per accordare, ci inchiniamo con deferenza alla pienezza dell’attimo, attiviamo l’oblio come forma di protezione e di custodia degli incanti della vita. I quali procedono a balzi, con “voli imprevedibili ed ascese velocissime, traiettorie impercettibili, codici di geometrie esistenziali”, come cantava il poeta e maestro siciliano Franco Battiato. Non è facile gestire le emozioni, serve allenamento alla sorpresa, occorre fare pratica di meraviglia, bisogna frequentare assiduamente le palestre degli stupori.
Dimenticare è talvolta una strategia del cervello: impone blackout, sospensioni dei ricordi, momentanei oblii. Dimenticare vuol infatti dire far uscire dalla mente. Nel latino tardo, dementĭcāre significava ‘uscire di mente’, derivato di dementīre che voleva dire ‘perdere il senno’, derivato a sua volta di mens mentis ‘mente’ con il prefisso dē-, a indicare sottrazione. Dimenticare è mettere da parte la mente per far battere il cuore con maggiore intensità.
La parola oblio, sinonimo di dimenticanza, ha come genitore il verbo francese oublier, dal latino volgare *oblitāre, derivato di oblītus, participio passato di oblivīsci ‘dimenticare’. Il verbo usato da Cesare e Cicerone oblivīsci deriva dalla stessa radice di oblinĕre ‘ungere, spalmare’, che ha acquisito il significato specifico di ‘cancellare lo scritto’, da cui ‘rimuovere dalla memoria’, con riferimento alla scrittura su tavolette cerate, dove la cancellazione avveniva passando la parte piatta dello stilo sulla cera.
Ecco, quando dimentichiamo passiamo con uno stilo sopra la tavoletta della nostra mente. Cancelliamo le tracce. O forse solo le appartiamo per un po’, per custodirle per sempre in un luogo segreto dentro di noi e risvegliarle leggere quando desideriamo rievocare quelle lacrime o quei sorrisi.
Bertold Brecht, l’intellettuale tedesco, drammaturgo e regista, tra le menti più acute del Novecento, al dimenticare ha dedicato una poesia che merita di essere letta e riletta. Questa che segue è Elogio della dimenticanza, nella traduzione di Franco Fortini.
Buona cosa è la dimenticanza!
Altrimenti come farebbe
il figlio ad allontanarsi dalla madre che lo ha allattato?
Che gli ha dato la forza delle membra
e lo trattiene per metterle alla prova?Oppure come farebbe l’allievo ad abbandonare il maestro
che gli ha dato il sapere?
Quando il sapere è dato
l’allievo deve mettersi in cammino.Nella casa vecchia
prendono alloggio i nuovi inquilini.
Se vi fossero rimasti quelli che l’hanno costruita
la casa sarebbe troppo piccola.La stufa riscalda. Il fumista
non si sa più chi sia. L’aratore
non riconosce la forma del pane.Come si alzerebbe l’uomo al mattino
senza l’oblio della notte che cancella le tracce?
Chi è stato sbattuto a terra sei volte
come potrebbe risollevarsi la settima
per rivoltare il suolo pietroso,
per rischiare il volo nel cielo?La fragilità della memoria
dà forza agli uomini.
Ecco, la fragilità della memoria dà forza agli esseri umani, donne e uomini che transitano forti e insieme incerti sulla superficie di questo bizzarro mondo. Del resto, ha sostenuto lo scrittore Primo Levi, che ha ammonito l’umanità all’obbligo del ricordo, “La memoria è uno strumento molto strano, uno strumento che può restituire, come il mare, dei brandelli, dei rottami, magari a distanza di anni”.
E noi umani, nel far affiorare alla memoria, nel ricordare, nel rammentare, nel rimembrare, ma anche nel dimenticare, cerchiamo quei brandelli nel mare dei nostri incerti perché.