Oggi più che mai, l’arte ha un compito ben preciso: quello di insegnare agli uomini e alle donne a guardarsi dentro. Perché solo conoscendo profondamente se stessi è possibile realizzare azioni migliorative per il mondo in cui viviamo, per il mondo che costruiamo ogni giorno. Per il mondo che siamo.
Ci sono artisti che operano credendo fermamente in una missione sociale e rivoluzionaria dell’arte. Ci sono artisti che sviluppano progetti finalizzati ad una costruttiva indagine dell’individuo, che della dimensione sociale è parte articolante.
L’arte può essere un potentissimo mezzo di autoanalisi e di esplorazione del sé. Ogni forma d’arte, ogni linguaggio artistico, può avere un potere rivoluzionario: quello di toccare corde tese e nascoste nel nostro intimo, fino a renderci nudi, indifesi, ma finalmente autentici di fronte a noi stessi e al mondo.
Ci sono artisti, come Cristina Nuñez, che credono fermamente nel potere rivelatore e terapeutico dell’arte, e agiscono ogni giorno in questa precisa direzione.
Cristina è una fotografa autodidatta di origini catalane, nota a livello internazionale. La sua difficile vicenda personale ha sicuramente acuito una certa sensibilità, portandola a lavorare con la fotografia prima in una dimensione autobiografica e poi mettendo a frutto quanto aveva appreso su di sé, per indagare l’altro. La ricerca sull’autoscatto inizia nel 1988. Per Cristina, fotografarsi diventa immediatamente qualcosa di analitico e terapeutico. Di se stessa scopre così tanto da comprendere che questo strumento può diventare un potente mezzo per sondare la vita interiore di ciascuno di noi. Non occorre essere artisti. Occorre avere il coraggio di guardare nell’obiettivo senza alcuna via di fuga.
Nasce così SPEX, la pratica artistica messa a punto dalla Nunez e che nel 2020 ha ottenuto persino il Diamond Phototherapy Award.
Di questo e di molto altro ci racconta nell’intervista che vi propongo di seguito. Il lavoro di Cristina Nuñez è promosso, seguito e curato dalla MLB Maria Livia Brunelli Gallery di Ferrara. Cristina (Figueres, Catalogna. Spagna, 1962) vive e lavora a Saulnes, in Francia, al confine con il Lussemburgo. E attraverso le mie domande, si racconta così:
Chi è Cristina?
Sono un’artista, o meglio una “artivista” contemporanea. Sono una facilitatrice del processo creativo autobiografico, una ricercatrice, una madre, una nonna. Sono gender fluid. E sono single per scelta, per poter dedicare tutto alla mia missione.
Il ricordo più dolce della tua infanzia?
La notte del 5 gennaio (in Spagna i regali di Natale arrivano coi Re Magi il 6 mattina), io non riuscivo a dormire dall’eccitazione, perché immaginavo i Re Magi arrivare in casa coi regali.
Il ricordo più amaro della tua infanzia?
Il bullismo a scuola.
Dove ti rifugi quando hai bisogno di ritrovare te stessa?
Tutto il mio lavoro mi porta ad essere in contatto con me stessa, ma quando le emozioni sono in subbuglio, salgo nel mio studio e faccio dei video.
Quando hai incontrato la fotografia?
Nel 1986 conobbi un fotografo svizzero che viveva a Milano, ci innamorammo e mi trasferii a Milano. Stando accanto a lui compresi la potenza del mezzo fotografico. Vidi come tirava fuori il carisma e la forza delle persone.
Ricordi il primo autoritratto che hai scattato?
Era il 1988 a Los Angeles. All’inizio credevo fosse vanità, ma poi capii che stavo ricreando uno sguardo profondo di accettazione verso me stessa.
Cosa vedi quando fotografi te stessa?
Tantissime Cristine diverse, ogni volta. È l’inconscio che parla col linguaggio dell’arte e dice quello che oggi dobbiamo sapere. Non smetto mai d’imparare dalle mie immagini, mi sorprendono sempre e mi permettono di capire le emozioni più profonde che sto vivendo. Poi quelle emozioni mi dicono che ci sono bisogni da soddisfare.
Qual è il potere terapeutico della fotografia?
Dice Walter Benjamin che la fotografia ha il potere di accedere all’inconscio. Secondo me, all’inconscio personale ma anche quello collettivo. Quindi permette che parte della materia sedimentata nell’inconscio passi alla coscienza. Bisogna ricordare che la fotografia non dice chi siamo, ma esprime quello che abbiamo bisogno di esprimere oggi e che possiamo gestire e conoscere oggi. Poi, le opere sono sempre unione di opposti, già nei due lati del volto possiamo vedere questi opposti, per esempio, tanta vulnerabilità e tanta forza. È un processo di conoscenza profonda di sé, ma anche dell’essere umano. Inoltre, nell’autoritratto siamo allo stesso tempo autori, soggetti e spettatori e questi tre ruoli si guardano a vicenda. Anche questo è fortificante.
Mi parli del tuo metodo “The Self-Portrait Experience”?
SPEX è un viaggio esplorativo attraverso la fotografia autobiografica (autoritratti, paesaggi, foto di famiglia, ecc.), che propone esercizi divisi in tre parti: io, io e l’altro, io e il mondo. Poi c’è la metodologia della percezione SPEX: una serie di criteri artistici e umanistici per la scelta delle opere e per esplorare le molteplici e mutanti percezioni delle immagini, con l’obiettivo di amplificare la percezione di sé, degli altri e del mondo. Questo è il prerequisito per il cambiamento, per la nostra evoluzione. Poi produciamo dei progetti artistici e autobiografici e li mettiamo in mostra. Così facendo, diventiamo attivisti, anzi, artivisti, perché vogliamo contribuire alla creazione di una società più focalizzata sulle emozioni e i bisogni degli esseri umani, piuttosto che a quelli del mercato.
Dal 2004 organizzi e coordini workshop SPEX nelle carceri, nei centri di recupero per tossicodipendenti, nei centri di salute mentale, nelle scuole, nei musei, nelle gallerie di tutto il mondo. Cosa ti restituiscono, ogni volta, queste esperienze?
Ciò che vivo e provo è sempre diverso, perché incontro persone diverse con vissuti diversi. È sempre una sfida, ma adoro le sfide. Una delle cose che mi colpisce ogni volta è che nello SPEX siamo tutti molto simili. Le espressioni emotive, le reazioni alle percezioni delle immagini sono molto simili in persone di status, cultura ed età diversissime. Le emozioni e l’immagine di sé sono universali.
L’episodio che più ti ha colpito durante uno dei tuoi workshop SPEX?
Un detenuto in Spagna, che ha iniziato il workshop vantandosi di aver bruciato un altro detenuto. Si comportava come un bullo. Alla fine del workshop era come un bambino, vulnerabile e tenero. Esprimere la propria vulnerabilità è il segreto per vincere la violenza.
È vero che la scaturigine di un’opera è sempre autobiografica?
Forse, ma oggi nell’arte contemporanea, molte opere non sembrano affatto autobiografiche, forse perché ci sono tanti passaggi che le svuotano dell’emozione. Probabilmente all’inizio lo è sempre. Non so. A me interessa l’arte che può essere capita da chiunque, non quella che va studiata perché sia comprensibile
Un’opera che vorresti avere, da collezionista, e perchè?
Guido Reni, La Strage degli Innocenti, per le espressioni dei volti e la gestualità dei corpi e perché dobbiamo sempre ricordarci del dolore degli altri e sapere che l’essere umano è violento, e che dobbiamo fare di tutto per conoscere la nostra violenza in modo da non attuarla su nessuno.
Ad ispirarti, influenzarti, illuminarti ci sono letture particolari?
Tutto di Michel Foucault, Judith Butler, Walter Benjamin, Susan Sontag, Jacques Lacan, Georges Didi-Hubermann, Roland Barthes, Friedrich Nietzsche, Herman Hesse, Haruki Murakami, Paul Auster…
Scegli tre delle tue opere fotografiche e scrivimene il titolo e l’anno, e dammene una breve descrizione.
Mauthausen, 1995.
È un autoritratto allo specchio realizzato in albergo, a Mauthausen, il giorno prima del 50º Anniversario della Liberazione del campo nazista. Portavo una stella gialla che mi ero fatta per ricordare gli ebrei scomparsi, e per attirare gli sguardi dei sopravvissuti ebrei che volevo fotografare per il mio libro All’Inferno e Ritorno.
Sick Cris, 2000.
Ero ammalata, avevo la febbre alta e mi sentivo morire. Volevo vedere l’espressione della morte sul mio volto.
The Fury, 2008.
Un giorno mi svegliai piena di rabbia contro tutto e tutti. Scesi subito nel mio studio e cominciai a picchiare a vuoto per buttarla tutta fuori. La rabbia è l’emozione più stigmatizzata, quindi volevo trasformarla in un’opera.
Un o una fotografa che avresti voluto esser tu.
Non vorrei essere nessun’altro.
Un artista con cui avresti voluto realizzare un progetto a quattro mani.
Caravaggio.
Quale credi sia il compito di una donna-artista, oggi?
Essere artivista e lottare per la costruzione di una società più umana, più emotiva, che risponda ai bisogni e i diritti di tutti. Giorni fa, negli Stati Uniti la Corte Suprema ha votato contro il diritto delle donne all’aborto, una regressione terribile, pericolosissima, incredibile in una “democrazia”. Il concetto dell’“art pour l’art” non ha senso in un mondo come questo, l’arte deve essere utile per cambiare il mondo e per rispondere ai bisogni degli esseri umani.
Il colore dell’audacia?
Il rosso e il giallo.
Tre aggettivi per definire il sistema dell’arte in Italia.
Il sistema dell’arte contemporanea non lo capisco e non lo conosco, quindi non posso dire molto. E preferisco non occuparmene, delego completamente alla mia gallerista Maria Livia Brunelli.
La paura che sfidi ogni giorno.
La paura della morte. L’autoritratto fotografico è lo strumento perfetto per superare questa paura. Mi immortala, quindi mi rende immortale, e allo stesso tempo mi permette di capire che quell’immagine è morte in sé stessa, perché quell’istante non esisterà mai più.
Work in progress e progetti per il futuro.
Attualmente sto lavorando moltissimo in Lussemburgo nei miei workshop SPEX nel carcere, coi giovani in varie istituzioni, scuole e università. Sto preparando la mostra My Echo, My Shadow and Me per Esch 2022, Capitale Europea di Cultura. Sto collaborando col Ministero di Educazione del Lussemburgo nella formazione dei professionisti che lavorano coi giovani. E poi svolgo workshop SPEX online sia in italiano che in inglese e sono sempre più ricchi di partecipanti. Inoltre mi occupo della formazione per facilitatori SPEX.
Ho tantissimi progetti per il futuro e non li elencherò tutti! Voglio creare una mostra e una piattaforma online con una selezione dei più di 4000 autoritratti partecipativi del progetto Higher Self, prodotti durante i miei workshop SPEX. Si tratta di una immensa mappatura delle espressioni di emozioni nel volto umano, con persone di ogni nazionalità, razza, genere e status sociale.
Vorrei continuare la ricerca sullo SPEX che nel 2020 si è materializzata nel mio dottorato in UK. Infine, voglio rimettere mano al mio archivio, pienissimo di autoritratti inediti. Con lo sguardo di oggi so che emergeranno tante nuove opere e storie della mia vita.
Il tuo motto in una citazione che ti sta a cuore.
Le emozioni possono cambiare il mondo, purché diventino pensieri ed azioni.
(Georges Didi-Hubermann)