“Sono stanco, questo tour ho accettato di farlo perché era programmato da due anni”. Ho il biglietto in mano per il concerto di Paolo Conte al Lucca Summer Festival, e per caso leggo questa frase rimbalzata sui social da un’intervista all’Avvocato, pochi giorni prima della data fatidica, fine giugno 2022. Già prima di leggerla, questo appuntamento era una specie di giorno sacro, un premio di liberazione dopo due anni di sofferenze varie, i due anni abbondanti in cui mi sono tenuto in tasca questo biglietto. Ora ho anche il sospetto che quello che si chiude proprio a Lucca possa essere l’ultimo tour di Paolo Conte e addirittura – ma scaccio subito il pensiero – che quello a cui assisterò possa essere l’ultimo concerto di Paolo Conte.
Lo avevo visto e ascoltato dal vivo una volta sola, nei primi anni Novanta, al Teatro Manzoni di Pistoia, in un periodo in cui aveva una forma sfavillante come le scarpe lucidate, la stella del successo e della fama ancora in parabola ascendente (non è tramontata mai, naturalmente, ma allora per quanto sia incredibile a dirsi c’erano ancora fan da conquistare) e una band storica, con Jimmy Villotti alla chitarra a ricamare la verde milonga.
Nel frattempo, sono passati più di tre decenni, ci penso e mi pare impossibile che Conte allora avesse poco più di cinquant’anni, cioè poco più dei miei di adesso, e so che non potrò aspettarmi lo stesso spettacolo.
Da tempo il pianoforte fa dannare più del solito le dita dell’Avvocato, che sui tasti passano leggere, sfuggenti, qua e là teneramente incerte, ci sono occasioni in cui dalla voce traspare la stanchezza, quella degli anni ma anche quella della giornata, dell’estate bollente, del lavoro, e penso al fatto che di solito la gente a 85 anni non lavora, a meno che non sia presidente della Repubblica o aspirante leader del centrodestra.
Il concerto lo vedo vicino a un ristretto gruppo di amici, tutti contiani appassionati. Ci aspettiamo una band strepitosa, Antonio, che di secondo lavoro fa il chitarrista in una delle rockband italiane più interessanti nate proprio negli anni Novanta, garantisce su questo: ha un lungo curriculum di spettatore nei live dell’Avvocato e conosce abbastanza nei dettagli le pieghe degli arrangiamenti. Quando parte Diavolo Rosso mi avverte: “Sentirai che assolo che arrivano in questo pezzo”. E io li aspetto, ma nel frattempo, come di solito non si fa ai concerti, ascolto con attenzione le parole: “Quelle bambine bionde/Con quegli anellini alle orecchie/Tutte spose che partoriranno/Uomini grossi come alberi”. E poco dopo: “Guarda le notti più alte/Di questo nord-ovest/bardato di stelle/E le piste dei carri gelate/Come gli sguardi dei francesi”, con tanto di risata del pubblico, che quanto sente prendere in giro i francesi si diverte sempre, e poi ancora: “Un valzer di vento e di paglia/La morte contadina/Che risale le risaie/E fa il verso delle rane e puntuale/Arriva sulle aie bianche/Come le falciatrici a cottimo”.
Ogni verso è una pagina di romanzo, e non ce la faccio a non voltarmi verso Antonio per dirgli che questo testo dovrebbe vincere tutti i premi letterari che esistono. Poi i musicisti si lanciano in una gara di bravura uno contro l’altro, ed è Daniela, la moglie di Antonio, a chiedergli di applaudire meno forte, che sta disturbando tutti.
E se alla fine di un concerto prevedibilmente stringato non si può che fare la conta dei capolavori che non sono arrivati (per la mia sensibilità e per le mie scarpe direi su tutte Genova per noi e Un gelato al limon, ma anche Azzurro e Hemingway, e Sudamerica e fermiamoci qui che si soffre troppo), basta fare una lista di quelli che invece sono stati suonati per concludere che nel canzoniere di Conte c'è un problema di sovraffollamento difficilmente risolvibile sul palco, a 85 anni. E allora, cominciando dall’inizio e andando un po’ in ordine sparso, Aguaplano, Sotto le stelle del jazz, Come di, Alle prese con una verde milonga, Messico e nuvole in una versione jannaccizzata, una meraviglia di Madeleine, Dancing, Gli impermeabili, appunto Diavolo rosso, Max, Blue tangos, Gioco d'azzardo, Le chic et le charme, Recitando e naturalmente Via con me, fatta due volte, la seconda come unico e fugace bis, lasciando al pubblico il refrain in inglese, poco prima di passarsi la mano sulla gola a mo’ di lama come dire: “E ora andate a casa, che il concerto è finito”.
Guardo l’orologio, e non so più se è passata un’ora e dieci, un’ora e venti, o trent’anni. I musicisti (Nunzio Barbieri, Daniele Dall’Omo e Luca Enipeo alle chitarre, Lucio Caliendo all’ oboe e fagotto, Claudio Chiara al sax contralto, fisarmonica e tastiere, Daniele Di Gregorio alla batteria e percussioni, Francesca Gosio al violoncello, Massimo Pitzianti alla fisarmonica, bandoneon, sax baritono e tastiere, Piergiorgio Rosso al violino, Jino Touche al contrabbasso, Luca Velotti ai sax, flauto e clarinetto) sono stati straordinari, le uniche parole di Conte, oltre quelle uscite dai testi delle canzoni, sono state i loro nomi, chiamati puntuali dopo gli assolo più belli.
Arrangiamenti eleganti, che qua e là citano atmosfere diverse da quelle in cui le canzoni sono nate e cresciute, ma poi riescono sempre a tirare le somme e riportarti a casa, o meglio ti lasciano su uno stradone impolverato in cima a un paracarro ad aspettare che passi Paolo Conte, come Bartali, che forse è la canzone che mi è mancata più di tutte perché racconta la storia di un Paese travestito da ciclista, che non esiste più. E allora non resta che convincerci che quel gesto da tagliagola valga solo per la stanchezza di una sera, di un’estate, e che gli 85 anni siano uno scherzo, come i nostri cinquanta.