Nel cuore di Firenze, in Oltrarno, si trova il Giardino Torrigiani, il più grande giardino urbano privato d’Europa all’interno della cerchia delle mura di una città.
Già famoso nel Cinquecento come orto botanico, il giardino conosce una sua seconda rinascita agli inizi dell’Ottocento, quando il marchese Pietro Torrigiani lo ingrandisce acquisendo tutti i terreni circostanti. Trasformato in un parco romantico all’inglese dall’architetto Luigi de Cambray Digny, combina elementi naturali e artificiali. Questi ultimi provengono dalla simbologia massonica, per l’affiliazione ad essa del committente come pure dell’architetto.
Dopo il Digny viene chiamato a dirigere i lavori del giardino l’architetto ed ingegnere Gaetano Baccani, che nel 1824 realizza un “torrino” in stile neogotico, allusivo allo stemma di famiglia, recante un torrino sormontato da tre stelle. Fu costruito dal Baccani su una collinetta artificiale per aumentarne l'impatto visivo. Era un vero e proprio osservatorio astronomico, sormontato da una terrazza scoperta per l’osservazione del cielo.
L’incontro nel Giardino Torrigiani, avvenuto fra uno scultore, Matteo Baroni, e di un cultore del giardino, Vanni figlio dell’attuale erede, ha prodotto una trasformazione originale, denominata Opera viva, della scalinata di ingresso al giardino e dello spazio ai piedi della scalinata, dove sorge il bar. Si tratta di una struttura di ferro, costruita in loco con decisioni prese di comune accordo in funzione dell’ispirazione che le piante presenti davano ai due. Qui il ferro utilizzato è materiale di recupero, di color ruggine, colore che non crea contrasto con i tronchi d’albero. È lavorato in spirali simili ai rampicanti, e anche in strutture che appaiono di disegno variato, con curve ed incroci molto piacevoli alla vista e che hanno dato alla struttura una stabilità totale, sorprendentemente non frutto di calcoli.
Perché l’opera sia viva ce lo spiegano i due alla conferenza stampa. Non è una gabbia che imprigiona le piante, ma una flessuosa compenetrazione che lascia alle piante la libertà di crescere negli spazi progettati nelle sedute delle panchine, offre inoltre fili su cui i rampicanti possono crescere. Il tutto si modifica costantemente, al crescere dei vegetali. Sono le piante, infatti, le vere protagoniste di quest’opera ambientale, che a loro si ispira, nei materiali e nella forma. Il ferro sembra quindi crescere con suoi rami, e in più crea pure sedute, altalene e tavolini sospesi fra i rami degli alberi, sempre penetrando nel mondo vegetale con grande rispetto.
Opera viva, la cui origine risale a più di dieci anni fa proprio in occasione di alcuni interventi artistici nel Giardino Torrigiani, rientra in quel panorama contemporaneo che vede l’artista come attore di un’azione concreta per trasformare i luoghi. Egli allo stesso tempo denuncia e suggerisce modi nuovi di costruire, per contribuire a contrastare la crisi climatica e a migliorare l’ambiente.
“Opera viva - spiega il critico d’arte Gianni Pozzi, autore dei testi del giornale che accompagna il visitatore - è un intervento ambientale, ma anche un’opera che si aggiunge alle tante che caratterizzano lo spazio di questo grande giardino storico italiano: la statua di Osiride, dio dei morti e della rinascita, quella di Pio Fedi con Seneca e il giovane Piero Torrigiani, e poi i vari tempietti, torri e laghetti che costituiscono un singolare percorso esoterico all’interno. Non una delle tante installazioni temporanee cittadine ma la ripresa – da parte della ricerca e della committenza artistica – di una reale progettualità ambientale”.
Alessandra Scognamiglio, senior researcher ENEA, presente all’incontro, racconta la filosofia che l’ha spinta, in un centro di ricerca, a collaborare con un artista come Baroni. Sono infatti in cantiere nel suo luogo di lavoro molti progetti tecnologici, ad esempio, nel campo delle energie rinnovabili. Urge quindi lavorare sull’ambiente, che è paesaggio, in presenza di un’azione poetica, per conservarne la bellezza, mentre si persegue l’utile. Bisogna, in altre parole, fare il progetto di nuovi paesaggi per il nostro secolo, caratterizzato da un uso massivo della tecnologia. Ovvero scienza ed arte devono lavorare insieme.
Matteo Baroni, fiorentino, classe 1977, si è formato all’Istituto Statale d’Arte di Firenze, conseguendo poi la laurea presso la Central Saint Martins di Londra. Nella capitale del Regno Unito, dove trascorre parte della sua vita, lavora come intagliatore ed esplora l’uso di diverse tecniche e materiali, confrontandosi con la scena artistica contemporanea. È proprio a Londra che ha esposto per la prima volta.
Si occupa di scultura e di installazioni ambientali con particolare attenzione agli equilibri ecologici e agli effetti di questi sulla vita quotidiana, utilizzando per lo più materiali di recupero. Tra gli interventi recenti ricordiamo la partecipazione alla rassegna “Da ragioni invisibili” nel parco di Villa La Cartiera a Pontremoli (estate 2020); la creazione di un ambiente/scultura nella Piazzetta dei Tre Re a Firenze (2019); il laboratorio itinerante Flokers nella Casa Circondariale di Busto Arsizio, pensato per insegnare a trasformare gli scarti materiali del carcere in prodotti artistici (2019); la partecipazione come rappresentante di Italia e Francia alla creazione di un parco di sculture in metallo riciclato a Bhubaneswar in Orissa, India (2018).