Se chiediamo a un parlante erudito che cos’è un “testo” dovremo aspettarci di ricevere almeno una tra queste risposte: un libro, un tessuto o un vaso. Con il termine textum gli antichi hanno infatti inteso genericamente un “corpo” prodotto dall’intreccio delle sue componenti, fibre, vene o lettere che fossero. Non dovrà sembrare quindi troppo remoto il legame che assiomi botanici arcaici, mossi dalla ricerca fisica e metafisica sul senso delle cose, hanno scorto tra la pianta del lino e l’essere umano. Le parole sanno infatti sempre dove stanno andando. Seguendole noi cerchiamo di scoprire dov’è che va l’uomo.
L’etimo di “sindone”, termine a tutti noto come lenzuolo funebre che ha avvolto il corpo di Cristo, è il greco sindōn (σινδών), “telo di lino”. L’immagine del Corpo eccezionale che, com’è noto, esso ha custodito, gli è rimasta prodigiosamente impressa come un marchio a fuoco.
Era costume presso gli Ebrei avvolgere i defunti in panni di lino, così come ai sacerdoti era prescritto di indossare vesti e persino indumenti intimi di questo tessuto vegetale da preferire alla lana, prodotto della più “violenta” tosatura animale. Ma cosa ha patito la pianta del lino per incarnare la nobile tela degna dei significati di purezza che una tradizione millenaria le ha tributato?
La sua storia si perde nella notte dei tempi, tanto che nelle svariate fonti greche e latine non c’è accordo sulla paternità e sulle travagliate vicende del misterioso dio di nome Lino. Ciò che sappiamo è che con il nome di Lino i Greci chiamavano la melanconica melodia con cui si compiangeva la morte tragica e prematura del dio. Il canto di Lino, o linodia, era perciò una lamentazione, un gemito, un compianto, come vuole la sua radice fenicia lin o linah, ma anche, come vogliono fonti preziose come quella di Ateneo, un ignoto canto di gioia.
Come dio arcaico Lino deve essere stato un nume già della cultura pre-ellenica. Conoscitore di lettere pelasgiche e dell’arte di saperle tessere insieme, il suo ricordo era infatti serbato in cima al monte Elicona, il Parnaso dei Greci, dove si sacrificava alle Muse di fronte ad un ritratto del dio inciso su una parete rocciosa. Non a caso, Lino era considerato l’inventore della melodia e del ritmo, maestro addirittura del più celebrato Orfeo, padre della poesia.
Cresciuto tra gli agnelli nella città di Argo, secondo una delle tante versioni del mito, egli era il figlio di Apollo e proprio dal padre sarebbe stato ucciso quando avrebbe osato sostituire le tre corde di lino della lira con tre corde di budello più capaci a suo dire di produrre armonia.
Il corrispettivo egizio di Lino, ci dice Erodoto, era Maneros, lo spirito del grano, e non ci riesce difficile capire il perché. Figlio unigenito del re d’Egitto, egli fu colto da morte violenta e prematura. Il canto per la scomparsa di Maneros, secondo lo storico, si sarebbe poi diffuso per tutto il Mediterraneo con vari nomi. Grano e Lino condividono infatti molto della comune sorte dell’essere sottoposti al tormento della trasformazione. Il primo per diventare nutrimento, il secondo per incarnare la custodia e la protezione.
Ad accomunarli nella loro “passione” l’azione misteriosa dell’elemento fuoco, agente protagonista di vere e proprie drammaturgie a cui sapienti conoscitori della Natura, designati talvolta con il nome improprio di alchimisti, davano il nome di nigredo, albedo e rubedo. Con quest’ultimo processo essi alludevano alla misteriosa abilità di certe combinazioni di elementi di resistere persino al fuoco, abilità che sperimentavano nei loro leggendari “vasi” che, non a caso, nella cultura popolare verranno detti “testi”.
Racconta quindi Plinio nella sua monumentale e sibillina Naturalis Historia che il lino viene sottoposto ad un lungo processo di lavorazione in cui l’azione del macerare ha gli stessi termini del canto. Una volta estirpato, infatti, i suoi steli devono essere ripetutamente battuti con bastoni, le sue fibre sottoposte al “carminari”, verbo che reca il doppio significato di “essere composto in versi per essere cantato” e nello stesso tempo “essere macerato o cardato”. Il lino è perciò percosso dal “carmen”, che non è solo un “canto in versi”, ma è anche significativamente il pettine che deve sciogliere i nodi della pianta, eliminarne le parti superflue e grezze per giungere ad estrarne l’anima più pura.
È stato scoperto, ci dice sempre Plinio, che esiste un lino che non si consuma al fuoco, anzi risplende in esso. Esso è perciò chiamato “vivo”. I Greci l’appellano, secondo la dizione pliniana, asbestinon, cioè l’inestinguibile. Durante i convivi si possono quindi ammirare fazzoletti di lino che si purificano non con l’acqua, ma con il fuoco. Perciò le tuniche funebri dei re erano fatte di lino. Perché il tessuto avrebbe separato tutta la cenere del corpo mortale da quella scintilla del corpo destinata invece a non estinguersi e a sopravvivere alla morte.
Molto difficile trovare il lino, ci dice Plinio, e molto difficile tesserlo. E qui capiamo che la sua scrittura non è cronaca e che la sua scienza, nei secoli mal interpretata, non è che poesia. Il lino, afferma lo scrittore latino, nasce in luoghi deserti, senza piogge e la convivenza tra serpi feroci lo ha abituato a vivere “bruciando”. Quando si riesce a trovarlo e perfino a tesserlo, esso uguaglia il valore delle perle più pregiate, tanto che si racconta che quando si copre un albero con un telo di lino, se lo si abbatte, esso non sente i colpi che gli si infliggono perché il filato li attutisce per lui.
E così nella fiaba del Lino di Andersen, l’autore ci narra di come il fiore azzurro venga estirpato con tutte le radici. Battuto, spezzato, tritato, egli è dapprima felice di una felicità immatura perché senza pena. Una volta affogato nell’acqua e arrostito nel fuoco, il Lino diventa felice per aver appreso che “solo chi fa esperienza conosce davvero le cose”. Così, nonostante attorno a lui si canti la triste melodia che recita che “la storia è finita”, il Lino è lieto di essersi trasformato in “qualcosa” e di essere diventato uno splendido e candido tessuto. Anche se non è ancora giunto alla fine delle sue trasformazioni.
Egli viene infatti ulteriormente mutato in carta per diventare libro e custodire il testo e, quando il tempo necessario è trascorso, viene infine consegnato alle fiamme guizzanti di un caminetto. Mentre brucia, le voci dei bambini ingenuamente intonano che “la storia è finita”. Il Lino, però, sotto gli occhi degli astanti che non scrutano nell’invisibile, ha invece raggiunto l’ultima delle sue trasformazioni. Esso, ci dice Andersen, è diventato la scintilla di minuscoli esseri che volano invisibili. Il Lino è diventato fuoco.
E se i bambini cantano che “la storia è finita”, bisogna pur sempre ricordare che gli occhi non vedono tutto e i piccoli, a differenza delle parole, non sanno dov’è che Lino è andato né vedono ciò in cui si è mutato. La storia infatti non finisce e nulla si perde perché tutto si trasforma.