Io, Rosaria Costa, vedova dell'agente Vito Schifani mio, a nome di tutti coloro che hanno dato la vita per lo Stato, lo Stato..., chiedo innanzitutto che venga fatta giustizia, adesso. Rivolgendomi agli uomini della mafia, perché ci sono qua dentro (e non), ma certamente non cristiani, sappiate che anche per voi c'è possibilità di perdono: io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, se avete il coraggio di cambiare... Ma loro non cambiano... loro non vogliono cambiare... Vi chiediamo per la città di Palermo, Signore, che avete reso città di sangue, troppo sangue, di operare anche voi per la pace, la giustizia, la speranza e l'amore per tutti. Non c'è amore, non ce n'è amore.
(Rosaria Costa, vedova dell’agente Vito Schifani, ucciso dalla mafia nella strage di Capaci il 23 maggio 1992, il giorno dei funerali nel Duomo di Palermo il 25 maggio 1992)
23 maggio 1992, era sabato, era primavera. Avevo appena compiuto 13 anni. La mia vita da preadolescente scorreva tra i tumulti del cuore e della mente, radio accesa in camera a tutto volume, balli davanti allo specchio, poster di Eros Ramazzotti e Madonna alle pareti, Cioè, i ragazzini, le amiche, i primi corteggiamenti, le sceneggiate per futili motivi, le cose non dette, quelle nascoste e quelle urlate ai quattro venti. La fine della scuola che si avvicinava, la voglia di estate. Tutti dicono che quel giorno di 30 anni fa lo ricordano perfettamente, ricordano esattamente dove erano alle 17:57. Io no. Io ricordo il 24 maggio 1992. È impresso, come una fotografia nella mia mente.
Ore 12:30, 24 maggio 1992. Seduta a tavola per il pranzo: alla mia destra papà, di fronte mamma e Ale, mio fratello. Accanto, mio nonno. Zitti. Muti. Per noi la tavola dell’ora di pranzo è sempre stata la nostra personale tribuna politica. A volte si faceva lezione di fisica grazie a papà, a volte si rideva, ci raccontavamo le nostre vite. Ma nella quasi totalità dei casi, dalla mia infanzia, praticamente, è sempre stato il momento del confronto, delle idee, del commento di ciò che accadeva nel mondo e di ciò che è stato nel passato. Un talk show dei tempi passati.
Quel giorno no. Quello è stato il giorno del silenzio. Mentre il Tg faceva entrare nella nostra casa parole come strage, tritolo, mafia, giudice, sua moglie, agenti della scorta, Palermo, capo dello Stato, Capaci, autostrada, Cosa Nostra, centinaia di chili di esplosivo, commando, brillare, corpi incastrati, corpi sbalzati, colpevoli, noi facevamo una cosa sola: ci disperavamo in silenzio. Solo lacrime, senza lamento. Solo flebili “perché” e sgomento per quelle vite portate via con tanta, troppa cattiveria, messe a nudo dalla violenza cieca di chi voleva trasformare la morte in spettacolo da offrire ad un pubblico attonito, un segnale troppo forte per essere ignorato. Perché è successo, perché non è stato previsto, perché non è stato evitato. Quanta paura faceva il lavoro di quest’uomo.
I giornalisti raccontavano i dettagli di quella strage che sarebbe entrata come uno shock collettivo nelle nostre vite. A perderla la vita, invece, su quel tratto di autostrada che collega l’aeroporto di Punta Raisi a Palermo, all’altezza di Capaci, furono il giudice antimafia Giovanni Falcone, sua moglie, anche lei magistrato, Francesca Morvillo, e tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro. Le immagini del cratere scavato dall’esplosivo sotto le indicazioni Palermo-Capaci, le auto del giudice e della scorta ridotte ad ammassi di lamiere, i mezzi di soccorso e l’autostrada sbriciolata, restano ferme, istantanee del dolore di una nazione. Dolore che riaffiorerà, come un fiume in piena, a poco meno di due mesi di distanza quando, il 19 luglio del 1992, in un altro attentato mafioso persero la vita in via D’Amelio a Palermo, il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. L’agente Loi fu la prima donna a far parte di una scorta e ad essere, suo malgrado, la prima donna della Polizia di Stato a cadere in servizio. E quella di Capaci e via D’Amelio non furono le uniche stragi di quegli anni. La mafia uccise prima e dopo.
Alle stragi seguirono i processi e il maxiprocesso nell’aula bunker di Palermo. La richiesta di giustizia e verità per quelle persone che avevano letteralmente dato la vita per lo Stato si facevano sempre più pressanti. Il risveglio delle coscienze a seguito di tutti gli attentati di quegli anni fecero montare la pretesa di legalità nell’opinione pubblica. La morte del giudice Borsellino portò nelle strade di Palermo, uomini, donne e bambini in lacrime che chiedevano giustizia e lotta all’omertà.
Per non disperdere tutto questo e per continuare a combattere la mafia, che non è certo sparita e che negli anni ha assunto forme diverse, venne scelto proprio il 23 maggio come Giornata nazionale della legalità. Da quel 23 maggio ad oggi sono passati 30 anni. Anni utili a guardare e rileggere con distanza, almeno temporale, episodi che hanno segnato la nostra storia recente e che devono entrare anche nelle vite delle nuove generazioni affinché l’insegnamento di chi ha dedicato la propria vita per migliorare la società civile non vada perso. La Giornata nazionale della legalità è nata dalla necessità di fare memoria. La memoria che non deve essere unicamente celebrazione di chi non c’è più ma deve essere materia viva che parli alle coscienze di tutti. Con l’iniziativa “Palermo Chiama Italia” della Fondazione Falcone, in collaborazione con il Ministero dell’Istruzione, si coinvolgono soprattutto gli studenti in un percorso che ha come filo conduttore l’educazione alla legalità. E non solo il 23 maggio ma tutti i giorni.