È stata forse la prima forma di turismo di massa, ed è soprattutto stato un fenomeno che ha lasciato una testimonianza indelebile nella cultura e nel costume europeo dal XVII al XIX secolo: stiamo parlando del Grand Tour, termine coniato da Richard Lassels, importante viaggiatore e scrittore, nel 1670.
Il Grand Tour era il viaggio di formazione dei gentiluomini appartenenti agli strati medio-alti della società europea, che aveva sia l’obiettivo di istruirli, grazie al contatto con lingue e culture diverse, ed anche quello di metterli alla prova, per tutte le peripezie e le avventure che avrebbero affrontato viaggiando in Paesi a loro sconosciuti. Inutile sottolineare che di questo viaggio di formazione l’Italia non era semplicemente una delle principali destinazioni: la conoscenza del Belpaese era piuttosto la ragione essenziale dello spostamento, in quanto questo era considerato da tutti la culla della civiltà umanistica, un vero e proprio “museo a cielo aperto” e, last but not least, un luogo dotato di un clima temperato e piacevole, decisamente molto diverso da quello dei Paesi di provenienza di questi viaggiatori (che erano soprattutto l’Inghilterra e la Germania).
In un certo senso, il viaggio in Italia, con le sue bellezze artistiche e architettoniche e la sua storia, era anche un modo di rivivere quella storia, quasi ritornando indietro nel tempo. A questo proposito, sono esemplari le parole di Goethe, nel suo Viaggio in Italia:
In verità, questo è l’effetto più completo che ottengono le opere d’arte: di riportarci alle condizioni dell’epoca e degli individui che le produssero. Circondati dalle statue antiche, ci sentiamo come immersi nel moto d’un’esistenza naturale, percepiamo la multiformità della struttura umana e siamo ricondotti in tutto e per tutto allo stato più puro dell’uomo, col risultato che lo stesso osservatore acquista vita e umanità autentica.
Si è parlato finora di “viaggiatori”: se quello del Grand Tour è stato infatti un rito prevalentemente maschile, questo non significa che le donne furono totalmente escluse da questa esperienza. In verità, già a cominciare dall’inizio del Settecento, ci furono molti casi di donne che si misero in viaggio; certo, erano in numero molto minore rispetto agli uomini, ma non avevano nulla da invidiare a loro: né la curiosità, né lo spirito di indipendenza, né la capacità di adattamento. Per queste donne il viaggio rappresentò una fuga verso la libertà, politica in alcuni casi o semplicemente una liberazione da quel ruolo di mogli e madri a cui erano tradizionalmente e inevitabilmente destinate.
Un valido motivo riconosciuto da tutti e che poteva giustificare questo viaggio al femminile era quello della salute: a cominciare dalla “malattia di petto”, che sicuramente traeva grande beneficio dal soggiorno in zone dal clima più temperato come l’Italia. Bisogna anche dire che il fatto di poter intraprendere il viaggio dava a queste donne anche un altro vantaggio: per prepararsi ad esso, potevano mettere da parte i libri tradizionalmente a loro riservati (ovvero le Sacre Scritture e i libri di cucina), per dedicarsi invece a tutte quelle letture che concernevano il viaggio: le avventure di Robinson Crusoe, di Gulliver, quelle immaginarie di Don Chisciotte…
Sicuramente, grazie alla loro sensibilità e alla loro visuale diversa da quella maschile, le donne viaggiatrici contribuirono sensibilmente ad arricchire la valenza del Grand Tour: mentre infatti l’interesse dei loro colleghi uomini era prevalentemente rivolto all’archeologia e all’antichità classica, loro erano invece curiose anche degli aspetti più prettamente antropologici, che riguardavano quindi le tradizioni e i costumi delle popolazioni con cui venivano a contatto. Questo risulta chiaramente dai resoconti che queste donne hanno lasciato dei loro viaggi: pur essendo di numero minore rispetto a quelli maschili, non sono sicuramente meno importanti e significativi per ricostruire il grande affresco del Grand Tour.
Come oggi la documentazione dei nostri viaggi è affidata alla fotografia, allora analogo compito era svolto dalla scrittura: viaggiare senza fissare attraverso le parole quanto si era visto era come non aver viaggiato. E, per le donne del Settecento, la scrittura di viaggio costituiva una doppia trasgressione: in primo luogo perché, oltrepassando il confine delle mura domestiche all’interno delle quali erano tradizionalmente relegate, uscivano dalla loro condizione di staticità. In secondo luogo, perché si appropriavano dello strumento della parola, ambito in cui il dominio era ancora prettamente maschile. “Se gli uomini hanno da sempre dominato il mondo delle parole, le donne hanno avuto potere su quello delle cose”, si può affermare citando la studiosa di storia della medicina femminile Erika Maderna.
Ecco, in questo caso il tentativo, peraltro pienamente riuscito, è proprio quello di staccarsi da questa dimensione “pratica”, di cui però nella maggior parte dei casi poche tracce rimanevano ai posteri, per abbracciarne invece una che avrebbe potuto lasciar traccia di loro e delle loro virtù. È infatti indubbio che, nel parlare dei loro viaggi, queste scrittici raccontavano anche di se stesse, mettendo nero su bianco i momenti cruciali della loro vita e, nello stesso tempo, dimostrando di avere una mentalità molto moderna, soprattutto quanto sostenevano che i giudizi formulati sui Paesi stranieri avrebbero sempre dovuto considerare i costumi e le tradizioni in essi presenti.
Un esempio lampante di questo atteggiamento è quello di Mary Shelley, che tra tutte queste donne viaggiatrici è sicuramente una delle più conosciute. Stiamo parlando di una delle più grandi scrittrici del Romanticismo inglese, autrice del celebre romanzo Frankestein. Il moderno Prometeo, pubblicato per la prima volta in forma anonima nel 1818. Una donna dalla vita senz’altro travagliata, piena di amori, viaggi e passioni. Sicuramente, il lungo tempo che trascorse viaggiando in Germania e soprattutto in Italia, influenzò decisamente la sua esistenza e la produzione letteraria: e proprio di questo parlò nella sua opera Viaggi in Germania e in Italia nel 1840, 1842 e 1843.
In Italia la Shelley visse a lungo, ci tornò più volte e prese decisamente a cuore la causa indipendentista del Belpaese: potremmo dire che è quasi come se avesse tracciato un parallelismo tra la voglia di libertà e di indipendenza del suo spirito e quella del Paese che aveva subito eletto come quello del suo cuore. Risale al 1818, quando aveva poco più di venti anni, il primo viaggio in Italia della Shelley, che dalla Liguria si spostò in Lazio e in Campania, avendo così modo di ammirare Roma, Pompei, Salerno… E, dopo un periodo trascorso in Inghilterra, sempre in Italia ritornò nel 1840, quando si propose di accompagnare il figlio nel Grand Tour che avrebbe toccato Belgio, Svizzera, Germania e, appunto, Italia (e proprio a questo viaggio si riferisce la sua opera sopra citata).
Nei suoi resoconti di viaggio, risalta la sua creatività geniale, imprevedibile e sorprendente, nonché la sua indipendenza di giudizio e la sua capacità di calarsi completamente nel contesto che le stava intorno. In particolare, con le sue maestose rovine, Roma costituiva un fervido motivo di ispirazione per Mary Shelley, che la portò a trascorrervi molto tempo. Per esempio, così parlò del Pantheon:
Non posso dimenticare la sera in cui visitai il Pantheon al chiaro di luna: i tenui raggi del pianeta si irradiavano dall’apertura su in alto e le colonne scintillavano tutto attorno: era come se lo spirito della bellezza fosse disceso nella mia anima mentre me ne stavo seduta in muta estasi.
Tutti i periodi che passò in Italia furono contraddistinti da sofferenze e lutti; ma, come lei stessa affermò più volte, “soffrire è diverso sotto questo cielo”. Ed infatti, negli anni trascorsi in Inghilterra, ripensò sempre all’Italia con un moto di nostalgia, un fuoco che le ardeva dentro e a cui tendere costantemente le mani, tanto da scrivere, quando si trovava nella fredda Londra: “Perché non sono in Italia? Il sole italiano, l’aria, i fiori, la terra, la speranza sono contigui all’amore, alla gioia, alla libertà, mentre in Inghilterra tutto assume il volto della più arcigna realtà”.
Si potrebbe continuare a parlare a lungo sia di Mary Shelley che delle tante donne che furono protagoniste di quell’esperienza tanto appagante e completa quanto faticosa che fu il Grand Tour. Qui concludiamo ringraziando queste donne che, con il loro coraggio e la loro intraprendenza, ci hanno fatto percorrere dei passi fondamentali nel travagliato e ancora lungo percorso che ci potrà condurre alla piena e reale emancipazione femminile.