La morte pone fine a una vita, ma non pone fine a un rapporto che nella mente di chi sopravvive continua a cercare una soluzione che forse non troverà mai.
(Robert Anderson, I never sang for my father)
Questo è l’esergo che si trova nel libro di Eric Segal Oliver’s story, il sequel del più famoso Love story.
Ci sono libri che leggiamo con empatia e immedesimazione, vi scorrono parole di tristezza, di speranza, di malattia e di rapporti umani. E leggendo quel libro, ignara di cosa fosse fino a quel momento l’essenza dello sconforto, lo scoprii quel giorno d’estate. Fui catapultata nell’inverno dell’anima, paralizzata in ogni mio movimento, il mondo divenne solo un affollamento di corpi che camminavano.
Avevo un’amica e in un tempo minimale come può essere quello che occorre agli occhi nel leggere una frase, lei decise di calare il sipario sulla sua vita.
Non c’era più.
Non mi ero accorta che quei due grandi occhi vispi come cavallette camuffavano una ragnatela nell’anima che pian piano veniva recisa, un filo alla volta, senza rimedio da un ragno che le costruiva il suo non-domani.
Il mio cuore da quel giorno infernale non ha più cessato di colpire parole su parole di una malattia segreta.
Mi addentrai in un mondo sommerso, tanti corridoi si incastravano e camminavano paralleli. Infinite porte.
La malattia speronava diversi lati della personalità e della mente. Depressione era solo la parola madre di una genealogia interiore inaccessibile.
Lei, la malattia, se la portava dentro come un sacchetto della spazzatura dove infilava di tutto e fuori invece indossava una borsetta grandi firme.
Essere arrabbiati e tristi le emozioni minori, è l’impotenza quella che attanaglia. L’attenzione clinica di medici professionisti e l’attenzione umana delle persone intorno, sarebbero un giusto equilibrio per essere aiutati ad abbandonare questo sentiero ma non sempre queste due attenzioni si incontrano. E forse pur incontrandosi non basterebbero.
La mia amica, solo sua nonna la conosceva nei momenti peggiori oltre che in quelli incantevoli, era la pietra angolare della sua esistenza. E quando la nonna venne meno, ora Valchiria, ora immobile, la mia amica gravitazionava tra le due se stessa senza mai sentirsi completamente né l'una, né l’altra.
O forse sì?
La disperazione e la vergogna dei momenti di lucida consapevolezza l’avevano forse travolta in un vortice? Cosa può fare chi vive con una persona che non manifesta il suo mal-essere?
Interrogativi muti.
Ci sono situazioni in cui non possiamo dare consigli pur avendole vissute, stralci di vita che non dobbiamo giudicare. Ciò che tiene ancorati ognuno di noi a questa terra può spezzarsi come un ramo secco e senza rendercene conto cadremmo a terra. E se accade, chiedere aiuto e vomitare fuori la gramigna infestante il corpo e l’anima potrebbe aiutarci.
Dedicato alle persone che non ce l’hanno fatta, a chi ha assistito alla loro disfatta e a chi, dopo, osserva con occhi nuovi gli individui. A chi cerca di sopravvivere, con le unghie aggrappate alla vita, incastrata in malattie difficili, lacerazioni invisibili che quando si manifestano hanno già fatto attorno a loro voragini che inghiottono.
Ricordando la mia amica mi vengono in mente le parole di Jean-Marie Baptiste Vianney, il curato d’Ars. Nel consolare la povera vedova che piangeva durante una confessione per il marito suicida buttatosi in un fiume da un ponte e quindi destinato all’inferno le disse: “Ma, si fermi signora, perché tra il ponte e il fiume c’è la misericordia di Dio”.
E la misericordia di Dio come tra il ponte e il fiume ci sarà stato anche tra quel maledetto terrazzo e l’asfalto.
Chi leggerà queste poche righe potrebbe scorgere nella mia amica una sua amica, un parente, un conoscente e, finito di leggere, forse piangerà, pregherà. O semplicemente abbraccerà quella persona, fosse solo con il pensiero.
A chi fa della speranza il suo alleato ubriacante:
Ero dentro e fuori, contemporaneamente incantato e respinto dall’inesauribile varietà della vita.
(Francis Scott Fitzgerald, Il grande Gatsby)