Sono nata in una terra di dominazioni succedutesi nei secoli che hanno lasciato ognuna la propria personale impronta: la Sicilia. Camilleri l'ha definita "il frutto gloriosamente bastardo di tredici dominazioni, dalle quali abbiamo preso il meglio e il peggio”. Monumenti, terminologie, vocaboli, tradizioni, usi e costumi hanno tutte connotazioni multietniche e folkloristiche a volte ben delineate e a volte nascoste e leggendarie. Sono certa che Sherlock Holmes si sarebbe divertito tra i misteri che dimorano nell’isola.
Oltre agli itinerari culturali, la Sicilia la si conosce nella sua essenza più profonda attraversandola negli ingredienti e nei sapori della sua gastronomia.
Gli arabi hanno deliziato la cucina siciliana, tra leggende e storia, tra aromi e innovazioni con il "cous cous", "la pasta di mandorle", "la cassata". La pasta "mari e monti" fu creata dal cuoco del generale Eufemio che durante una campagna militare nel siracusano, in condizioni di scarsità di viveri, partendo dalla classica pasta con le sarde, ai finocchietti selvatici, pinoli e zafferano, unì il pesce e la verdura.
Un'altra ricetta da leggenda narra che le concubine dell'harem degli emiri saraceni di Caltanissetta, (in arabo Castello delle donne) furono le inventrici della ricetta del "cannolo” ispirandosi a un dolce di origine romana di cui avrebbe parlato Cicerone, creandolo, con ricotta, miele e mandorle, dalla forma vagamente fallica in omaggio ai loro uomini. Dopo la fine dell'impero arabo gli harem scomparvero ma questa ricetta giunse nei monasteri tramandata dalle favorite che si erano convertite al cristianesimo, con grande goduria dei palati golosi.
Ma esiste una pietanza in Sicilia, di origine araba, famosa in tutto il mondo, che con un morso ci traghetta in un'esperienza sensoriale oltre ai confini di una semplice degustazione: l'arancina o arancino, oggetto di una diatriba lessicale che divide l'isola in fazioni maschili e femminili. Le arancine, femmine a Palermo e in tutto il versante occidentale, diventano maschili nel versante orientale; catanesi e messinesi non ammettendo discussioni e li chiamano arancini. Secondo il parere dell'Accademia della Crusca entrambe le versioni sono corrette, dipendendo solo dalle varianti parlate nelle differenti aree geografiche.
I saraceni nei loro banchetti ponevano al centro della tavola del riso allo zafferano che ogni commensale trasformava tra le mani in una succulenta pallina cosparsa di verdure e carne di agnello. Testimonianza dell'arancina chiamata Naranjiya (arancia in arabo) la troviamo nel ricettario di Muhammad al Baghdadi mentre all'emiro musulmano di Sicilia Ibn Ath-Thumna, signore di Catania, Noto e Siracusa, furono intitolati piccoli timballi di riso che riportano alla memoria le arancine.
Se chiudessimo gli occhi trasportandoci alla corte dello stupor mundi Federico II di Svevia, assisteremmo alla nascita dello street food. L'imperatore, per le battute di caccia e le missioni diplomatiche pensò ad una panatura, seguita da una frittura per conservare quel prelibato oro giallo durante il trasporto preservandone gusto e fragranza e poterlo assaporare in tutta la sua bontà.
Nel XIII secolo Giambonino da Cremona nel suo Liber de ferculis faceva notare che nel mondo arabo le polpette prendevano nome dal frutto che per forma, dimensioni e colore somigliava più a queste preparazioni culinarie. L'arancina però compare ufficialmente nei ricettari dopo la seconda metà del 1800 con Giuseppe Biundi che nel suo dizionario siciliano del 1857 registra la forma arancinu come una vivanda dolce di riso fatta alla forma della melarancia. Ma nelle ricette del passato la transizione da dolce a salato è spesso presente, con ottimi risultati.
"Le arancine di riso grosse come un melone" le troviamo nel romanzo I Viceré di De Roberto. Lo scrittore catanese usa la forma al femminile per motivi inerenti alla famiglia: la mamma aveva vissuto per un po’ di tempo a Trapani e nel dialetto trapanese l'arancina è femmina.
Cammilleri li rende protagonisti in uno dei suoi racconti e svela ingredienti e procedimento della ricetta custodita da Adelina, cuoca e governante del commissario Montalbano che "ci metteva due jornate sane sane a pripararli. Ne sapeva, a memoria, la ricetta”. Così come Elvira, la nonna di Camilleri.
Dopo la scoperta dell'America venne aggiunto il pomodoro e ad oggi la versione più succulenta e intramontabile è quella al ragù che si fa risalire alla dominazione normanna.
È tradizione consumare le arancine, insieme alle panelle e alla cuccia, senza toccare pasta e pane, nel giorno di Santa Lucia, in ricordo del miracolo del 1646, quando, durante una grave carestia che aveva colpito Siracusa per la moria di bovini il vescovo fece venerare in chiesa l'effigie della Santa e dopo otto giorni di suppliche una nave carica di grano attraccò al porto, ponendo fine alla carestia mentre una colomba volava sulla Cattedrale. Nasceva la cuccia, grano bollito e condito dolce o salato, che venne cotto in questo modo e subito mangiato per alleviare nel più breve tempo possibile la fame.
I più grandi chef siciliani creano veri e propri capolavori dell’arancina con versioni gourmet che vanno dal dolce al salato con ingredienti innovativi. Tonda come un’arancia o conica come sua maestà l’Etna, l'arancina è il cibo che ogni turista porta nella sua memoria al ritorno dal viaggio isolano perché quando si mette piede in Sicilia si fanno più viaggi insieme. E questa terra non te la scordi più, con la voglia di ritornarci, non appena la lasci.
La mia ricetta e consigli per preparare le arancine: 1 kg di riso originario o Roma cotto in 2.5 l di acqua salata in modo che a fine cottura l'acqua sia stata assorbita interamente dal riso rimanendo in tal modo ricco di amido che ne facilita la preparazione. Aggiungete a fine cottura una bustina di zafferano sciolta in un poco di acqua calda, una noce di burro e un'abbondante manciata di caciocavallo grattugiato. Per farlo raffreddare versatelo in una capiente scodella mescolandolo spesso per non farlo seccare in modo che, avendo il ragù di carne già pronto, raffreddatosi, potrete procedere alla preparazione.
Esistono ormai in commercio degli attrezzi che facilitano la preparazione conferendo alle arancine le caratteristiche forme tonde o a punta per differenziarne i ripieni ma io preferisco prepararle come ai tempi dei Saraceni.
Prendo del riso nel palmo della mano (non lo peso, vado a occhio e sentimento) e con l'altra mano scavo come un piccolo nido ponendo all'interno il ragù e un pezzetto di formaggio provoletta o caciocavallo o mozzarella (potete usare quello che preferite) e chiudendolo con entrambe le mani, coprendolo, se necessario con dell'altro riso. Mi raccomando non siate avari nel condimento, dovete mangiare arancine, non riso colorato al profumo di ragù.
Per la panatura avete due opzioni entrambe gustose e dall'ottimo risultato. Potete passare l'arancina nella farina bianca, poi nell'uovo sbattuto e infine nel pangrattato oppure per una versione più leggera, panate l'arancina in una pastella di acqua e farina e successivamente nel pangrattato.
Terminata la panatura adagiatele man mano su un vassoio e fatele riposare in frigorifero per qualche ora prima di friggerle in olio di semi di girasole. La temperatura ideale è quando immergendo una briciola di pangrattato nell'olio, inizia a sfrigolare e salire a galla. Se necessario cambiate l'olio non appena notate che si scurisce a causa del pangrattato. Dopo averle fritte vanno mangiate rigorosamente calde.
Buon appetito!