-Che fai, parti? Stai scherzando vero? Non ci credo.
-Sì, parto domattina.
-Ma tu sei fuori di testa! Ma cosa caz…
-Non ho bisogno del tuo incoraggiamento.
-Ma è una follia…non ti rendi conto che...
-Ho riflettuto a lungo e sono giunto alla conclusione che…
-Vuoi andare a farti ammazzare...bravo, bella conclusione.
-E a Marzia non hai pensato? E ai tuoi genitori, alla tua famiglia? E a me?
-Ascolta Roby, non mi rendere la vita difficile. Nessuno potrà fermarmi. Marzia mi vuole bene e ha capito. I miei genitori non capiscono infatti cercano in tutti i modi di ostacolarmi. In verità non mi hanno mai permesso di spiegare le vere ragioni di questa mia partenza. L’unico è nonno. Lui a sedici anni è scappato di casa per andare a combattere con D’Annunzio, a Fiume. Guarda caso con lui sono bastate poche parole. Pensare che da quando ha l’Alzheimer tutti in famiglia lo considerano andato...Invece, a conti fatti, mi è sembrato il più lucido di tutti. Mi ha detto: la libertà…la libertà è tutto. E mi ha messo in tasca 50 euro.
-No…dai…ripensaci, cazzo...è troppo pericoloso andare laggiù…ma cosa ti è preso?
-Sarà anche pericoloso ma è meglio che stare qui a guardare, inerti. Non sopporto più l’ipocrisia di questo nostro mondo. Non si può reagire ad una simile situazione con le belle parole. E le solite, inutili, manifestazioni di piazza. Ho sentito che i cantanti nostrani hanno già proposto di creare un pezzo dedicato agli ucraini…ecco questo è quello che riusciamo a fare…Ma ora basta...basta con questa roba...basta con questo stillicidio di parole retoriche. Dopo essermi sorbito due anni di sermoni televisivi dedicati alla pandemia, dopo lo sproloquio quotidiano di politici, medici e giornalisti non posso sopportare una cosa simile con guerra. E mi vengono i brividi quando vedo con che naturalezza si dà ora la parola ai generali…i generali! Capisci a che punto siamo arrivati? Questo mondo senza pace non mi piace.
-Anch’io mi sento fregato dagli adulti, non credere...e poi ne abbiamo parlato mille volte però dai...tu sei sempre stato il più pacifista del gruppo. Cosa è successo?
-Ho cambiato idea. Le immagini di guerra che si vedono sui giornali mi fanno vomitare, ma ancora di più aborro l’autocompiacimento di tanti fotoreporter che cercano l’estetica nella tragedia, il ritratto della ragazza ucraina con il fucile, la foto ricercata e ben composta di un ponte crollato con la folla di profughi che attende il proprio destino…Sono gli stessi giornalisti che indugiano sui particolari macabri e contribuiscono con la diffusione delle loro immagini e dei loro articoli a creare panico tra la gente. Odio questa spettacolarizzazione della guerra...
-Ma è giusto informare per poter essere contro la guerra...invece di partire per la guerra…
-Ascoltami bene: la notizia dell’aggressione russa è stata per me come una doccia fredda, mi ha definitivamente svegliato da un torpore che durava da troppo tempo. Mi ha fatto capire che invocare la pace non serve, che mettere la bandierina arcobaleno sul balcone non cambia la situazione. E che le cose inizieranno a cambiare solo quando i Paesi come il nostro avranno smesso di produrre e vendere armi. La nostra pacifica Italia da decenni esporta morte impunemente e non ne fa mistero, anzi si vanta dell’alto livello tecnologico raggiunto dalla sua produzione bellica. E i bambini italiani, come i loro coetanei in Europa, vengono educati alla guerra, crescono giocando con video giochi derivati dalla tecnologia digitale militare. Sono giochi di una violenza inaudita eppure vengono comunemente accettati. E poi quando arriva la guerra vera ci indigniamo? Ma dai! Vendiamo armamenti ai guerrafondai di mezzo mondo e ci sorprendiamo se la guerra viene a trovarci sotto casa. Allora siamo pronti a riempirci la bocca con parole vuote e bei discorsi moralisti e senza pudore pronunciamo ad alta voce le parole “libertà” e “pace” illudendoci che queste, da sole, ci salvino. Ingenui ma forse solo ipocriti facciamo finta di non capire che la pace potrà esistere nel nostro mondo solo quando saremo disposti a cambiare il mondo radicalmente.
-Ma che cosa vuol dire questo? È un discorso assurdo il tuo e trovo una profonda contraddizione nelle tue parole…
-Non aspetterò che i soldati russi o cinesi vengano a minacciare le nostre città…è chiaro? Tu continua a passare le tue giornate al bar con gli amici a parlare di calcio o a lamentarti perché l’Inps non ti paga la cassa integrazione...Tra poco il prezzo della benzina sarà così alto che non potrai più fare il bulletto in giro con il SUV di tuo padre...

Franco è il proprietario del piccolo negozio di caccia e pesca non lontano da casa mia, accanto al panettiere. Da quando sono entrato non mi ha perso di vista un secondo. E appena ho cominciato a guardare le giacche mimetiche mi si è avvicinato.
-In partenza?
-Sì.
-Sei il terzo oggi. Se non avessi la schiena a pezzi verrei con voi.
-Capisco.
-Vieni qui dietro, ho anche dell’equipaggiamento usato. Hai già gli anfibi?
-No. Devo ancora prendere tutto.
-Ok. Comincia a guardare queste giacche, poi ti faccio vedere i pantaloni. Ci vorrà anche qualcosa di pesante...lassù di notte fa freddo. Io intanto vado in magazzino a prenderti gli scarponi… [e si allontana].
-Grazie.
-Ecco qua. Ti conviene prenderli di un numero in più così ci puoi mettere le calze in goretex. Ieri è passato di qua Franz...tu lo conosci vero?
-Chi? Quello della Fossa dei Leoni?
-Sì, esatto. Ho dato a lui le stesse cose che ho dato anche a te. Franz è conosciuto da tutti per essere una testa calda...ma tu? Non pensavo che...
-Infatti, non è come pensi. La risposta a questa chiamata è stata molto trasversale.
-Da dove parti?
-Da Milano.
-Hai già trovato?
-Sì. Su Internet si trova tutto.
-In bocca al lupo ragazzo. Ah, c’è anche questo [e mi allunga un grosso coltello da sopravvivenza con fodero mimetico]. Potrà esserti utile. Consideralo un mio omaggio.
-Sei un amico, grazie.
-A te. E che Dio te la mandi buona…

Ore 5 del mattino del giorno seguente. Il piazzale di fronte al capolinea della metropolitana è vuoto. È domenica. Non è difficile intuire che gli unici due autobus parcheggiati siano quelli diretti in Ucraina. Un folto gruppo di persone li circonda. Si tratta per lo più di uomini. Sono tutti impegnati a caricare pesanti valigie e scatoloni pieni di generi alimentari.

Uno di loro, dalla corporatura massiccia e con addosso una maglia verde oliva, mi viene incontro, dice di chiamarsi Sergej, mi chiede i documenti di viaggio. Quando scopre che sono italiano mi squadra con una occhiata e senza aggiungere una parola mi accompagna verso l’altro autobus. Là ritrovo alcuni coetanei che riconosco perché del mio quartiere, tra i quali Franz.

-Siete ancora in tempo per cambiare idea - annuncia Sergej a gran voce - perchè quando sarete in mezzo all’inferno non potrete più farlo. Perciò vi dico: qualsiasi sia la motivazione della vostra presenza qui, quando salirete su quel bus farete parte del corpo di volontari per la liberazione dell’Ucraina. Sarete dei nostri. E questo vuol dire diventare come noi. Essere pronti a combattere e a morire.

E dette queste ultime parole...Sergej ci passa in rassegna, ci stringe la mano ad uno ad uno consegnando ad ognuno un pacchetto rivestito di nastro adesivo. Scoprirò più tardi contenere una pistola con un caricatore pieno.
-Questa vi servirà. Ci sono notizie di convogli che sono stati intercettati dai russi. I primi che cercano sono quelli come voi. E se vi beccano, beh...almeno così avrete la possibilità di vendere cara la vostra pelle.

In quel momento Sergej viene avvicinato da un uomo in mimetica che gli sussurra qualcosa nell’orecchio. Subito dopo veniamo fatti salire sul bus in fretta e furia e il mezzo imbocca a tutta velocità lo svincolo che porta all’autostrada. Da lontano riesco a vedere l’arrivo di due macchine dei carabinieri nel piazzale ormai deserto.

Dopo 32 ore di viaggio e due tappe, una in Austria e l’altra in Ungheria, giungiamo nella notte a Kroscienko, al confine tra Polonia e Ucraina. Il pullman attraversa un’immensa tendopoli illuminata dalle flebili luci a gas fornite dalle organizzazioni umanitarie. Il freddo è pungente. Nell’aria c’è odore di cucina e legna bruciata. Il nostro gruppo viene alloggiato in un tendone militare separato dalla zona dei profughi. Faccio amicizia con un tipo di Roma che si chiama Vittorio, un ragazzone più alto di me che per tutto il viaggio non ha smesso di parlare della guerra dicendo di essere stato in Afghanistan, vantando conoscenze a Kiev e notizie fresche dal fronte: sembra che le cose per i russi si stiano mettendo male, da ogni parte la resistenza è agguerrita e l’avanzata è ferma.

La partenza viene fissata alle 22 del giorno seguente, si viaggerà di notte, per motivi di sicurezza. Sergej spunta tra le sagome scure nel tendone e passa a salutarci. A Milano sorrideva orgoglioso, qui invece appare stanco e triste.
-Buona fortuna ragazzi – ci dice rivolgendosi a tutti.

Trascorro la notte e parte del giorno successivo sdraiato in una branda da campeggio, cercando di recuperare un po' di sonno. Dopo aver mangiato con gli altri una zuppa calda e piccante mi aggiro per il campo. Il gruppo di volontari è molto eterogeneo, molti italiani, ma anche croati, austriaci, addirittura uno svizzero. gli sfollati – principalmente donne e bambini – incontro alcuni volontari italiani che, saputa la mia intenzione di proseguire oltreconfine, iniziano a tampinarmi, cercando in tutti i modi di convincermi a restare.
-Guarda che la guerra non è uno scherzo, abbiamo notizie di bombardamenti e stragi di civili inermi...non ti conviene.

Mi allontano per concentrarmi sugli ultimi preparativi. Partiamo intorno alle 23, il nostro pullman si incolonna insieme a numerosi altri furgoni e camion stipati di viveri e medicine. Si tratta di una tattica per mascherare l’arrivo dei volontari. In realtà è già successo che i russi abbiano fermato questi contingenti umanitari e passando immediatamente per le armi tutte le persone sospette.

Il viaggio è senza fine. La colonna di mezzi percorre strade secondarie, attraverso villaggi apparentemente abbandonati. Più penetriamo all’interno del territorio ucraino più si vedono i resti dei combattimenti sulle strade, i fari del bus illuminano lungo la strada scheletri di carri armati semi carbonizzati, file di auto abbandonate per la mancanza di carburante...anche gruppi di civili sbandati, in cammino verso la Polonia, veri zombies nella notte. Cerco di dormire, vengo svegliato da un forte odore di cannabis bruciata. Due volte la colonna viene fermata, si odono voci concitate tutt’intorno e durante i controlli si percepisce tra i poliziotti e i militari una tensione fortissima mentre in lontananza appaiono i primi bagliori dei bombardamenti intorno alla città. Quale città? Non ci è dato saperlo. La nostra destinazione, per motivi di sicurezza, è segreta. Giungiamo in una estesa periferia di un grande centro abitato e veniamo fatti scendere e subito divisi in piccoli gruppi. Da lì, con dei camion militari ci trasferiscono in punti diversi di quella che ha tutta l’aria di essere una zona industriale. Sergej guida il nostro gruppo che ora è composto da 8/10 ragazzi.

Arriviamo vicino a un grosso capannone pieno di macchinari abbandonati e con altri volontari ci viene ordinato di scendere nelle cantine dove ci sono numerosi soldati ucraini ad attenderci, festosi. Ci viene offerto del caffè d’orzo molto caldo e subito dopo un giovane graduato dell’esercito ucraino ci passa in rassegna chiedendo a ognuno, in inglese, la motivazione della nostra presenza là. Nel frattempo, alle sue spalle alcuni soldati predispongono l’equipaggiamento individuale. È il momento che attendevo: posso finalmente imbracciare un mitragliatore, una sensazione di gioia e profonda inquietudine insieme. Veniamo alloggiati in una piccola stanza trasformata in bunker con la promessa di un veloce corso di istruzione all’uso delle armi il giorno successivo. La connessione del mio smartphone cessa di funzionare in quell’istante, si sentono alcune esplosioni in lontananza, ci viene chiesto di stare accovacciati in attesa di ordini. Poi le bombe cominciano a piovere proprio sopra di noi e tutta la terra trema e gli intervalli tra uno scoppio e l’altro si fanno sempre più brevi tant’è che a un certo punto il tuono sembra unico e non finisce mai.
-Sono razzi – mi suggerisce l’amico Vittorio, mentre insiste nel voler mostrarmi come infilare i caricatori nel fucile mitragliatore AK 101, una versione moderna del Kalashnikov russo, dice. Lui sembra sapere molte cose. Ma non riusciamo a comunicare, il rumore è pazzesco, assordante e sembra intensificarsi ancora di più andando avanti nella notte.

Chissà se è notte? Ho perso la cognizione del tempo, non ci sono orologi, non posso più guardare fuori. Le forti detonazioni mi spaccano la testa. Mi riportano a certe notti di temporale quando da bambino stavo a dormire a casa di nonna e i fulmini cadevano così bassi che pareva volessero entrare in casa. Ed io, terrorizzato resistevo, resistevo fino al terzo o quarto botto per sgattaiolare poi veloce nell’altra stanza e infilarmi tremante nel letto di nonna e lei con il suo corpo caldo e rassicurante, pronta a tenermi stretto. Mi colpiva, ricordo, il fatto che lei non facesse una piega davanti a quelle detonazioni spaventose. Solo più avanti negli anni, udendo i suoi racconti di guerra, capii cosa avesse vissuto. Qualcosa che assomigliava decisamente a ciò che stavo vivendo di quel momento.

Dopo un martellamento di bombe che sembrava non finire mai, ritorna la calma. Un soldato ucraino con una lunga barba e un cappello di pelliccia in testa ci urla qualcosa e ci fa cenno di uscire.

Risalgo con gli altri una rampa di scale in metallo e mi ritrovo all’interno di un capannone abbandonato dove ci sono altri soldati. Alcuni sono visibilmente feriti ma ci sono anche dei sacchi neri, lunghi, dove presumo ci siano dei morti. Un soldato distribuisce pastiglie da un vasetto, un altro controlla che ognuno di noi abbia almeno quattro caricatori. Io controllo con la mano l’interno della giacca dove ho nascosto il coltello di Franco. Poi giunge quello che sembra il comandante di tutti e ci indica uno squarcio nella parete di metallo attraverso la quale uscire.

Fuori c’è una luce blu, potrebbe essere mattina, ma non si capisce veramente.

Prendo posto dietro al muro di un parcheggio, accanto a me, a pochi metri di distanza, vedo Jacov, un volontario come me. Lui viene dalla Croazia. Più in là intravvedo Vittorio che sta fumando anche se ci hanno detto di non farlo e altri ragazzi, mescolati ai soldati ucraini. Ci dicono di tenere d’occhio una palazzina, quella di fronte a un distributore di benzina, ci sono dei russi lì, nel caso sparare per eliminarli. Io dico sì...controllo due volte la sicura della mia arma e poi penso a quanto ho atteso quel momento…penso a Marzia...chissà forse in quel medesimo istante si sta alzando...ma ecco che appaiono nette delle sagome scure in lontananza e vedo che Pervar è già in posizione di tiro e allora alzo la testa dal muro e mi preparo.

In quel preciso istante ci piovono addosso due bombe di mortaio e mi crolla addosso un cornicione di mattoni sbriciolati che mi atterra. La mitraglia di Jacov vomita una raffica di colpi spaventosa e io lo guardo e decido di emularlo…e vedo alcune delle sagome scure cadere sotto i miei colpi e tutto mi sembra come Call of Duty il mio video game preferito. Nessuno tra gli amici è mai riuscito a fare il mio punteggio, sono sempre stato il miglior tiratore scelto. Ma questa è guerra vera, c’è un rumore infernale tutt’intorno e urla lancinanti. Tutti sparano contro tutti. Mi volto e vedo il corpo di Jacov piegato su se stesso a terra, il volto tumefatto. Anche Vittorio non parla più, la sua bocca è fissa in una smorfia di dolore, gli occhi al cielo, ancora aperti, il corpo già rigido. Inserisco un nuovo caricatore e riprendo a sparare, i russi replicano con inaudita violenza...mi rintano dietro al muro, steso a terra, più basso che posso…Ma loro avanzano, ci sono addosso. L’ultimo caricatore lo scarico addosso a tre soldati giunti a pochi metri dal mio riparo. Uno di questi si trascina fino a me e si lascia cadere al mio fianco.

-Fai fuori quel bastardo! - mi urla un soldato ucraino che ha visto la scena. E subito scompare dietro ad un cingolato in fiamme. Io mi volto e vedo alle mie spalle un ragazzino senza elmetto, i capelli biondi incollati alla fronte da un grosso grumo di sangue, gli occhi terrorizzati: un russo. Mentre gli punto istintivamente il mio mitragliatore alla testa sento sorgere dentro di me una frase in russo: Как тебя зовут? Как тебя зовут? (Come ti chiami? Come ti chiami?). Da dove proveniva quella mia conoscenza linguistica? La mente simultaneamente torna a un campo di calcio, al ricordo di una estate, di una partita, a quel giocatore russo tanto forte che noi ragazzi guardavamo stupefatti…come si chiamava? Era stato lui a insegnarmi i rudimenti della sua bella lingua.
-Меня зовут Миша (Mi chiamo Misha) aveva balbettato il mio piccolo prigioniero.

In quel momento cominciano a piovere proiettili di mortaio ovunque, lo spostamento d’aria delle esplosioni ci scaraventa uno sull’altro ancora più in profondità dentro il cratere di una bomba. Si sente lo sferragliare dei carri armati che si avvicinano e urla straziate, richieste di aiuto in lingue incomprensibili. Ora lui è aggrappato a me, ed io istintivamente lo abbraccio. Lui trema e lo sento piangere e non so perché ma mi viene in mente un episodio dell’infanzia quando il vento aveva scaraventato un pettirosso contro la finestra ed io ero riuscito a prenderlo in mano e tenendolo tra le dita con grande delicatezza ne percepivo il battito del cuore allarmatissimo mentre osservavo i suoi occhi scuri che mi guardavano, imploranti.
-Сейчас что ты сделаешь? Убъешь меня? (E ora cosa farai? Mi ucciderai?) mi dice Misha.

Improvvisamente la terra inizia a tremare ma non sono i colpi dell’artiglieria questa volta, è qualcosa di completamente diverso. Metto fuori la testa e vedo un enorme carro armato che si dirige verso di noi e intorno, protetti da quel gigante d’acciaio, un gruppo di soldati armati fino ai denti.

Un’esplosione spaventosa mi strappa dall’abbraccio e mi fa volare a qualche metro di distanza. Dolorante e stordito, vedo sferragliare il carro armato russo a pochi centimetri dalla mia gamba e un gruppo di soldati piombare dentro la nostra postazione urlando come demoni inferociti. Prima di svenire mi giunge, flebile, l’eco della voce di Misha che urla disperatamente ai suoi compagni: Он итальянец. Он один из нас! (È italiano! È dei nostri!).

Mi sveglio nel cuore della notte invocando il nome di Misha. Marzia è accanto a me, amorevole e bella come un angelo. Mi porge un bicchier d’acqua. Poi mi chiede.
-Ma dove sei stato stanotte? Il tuo corpo non ha fatto che muoversi e rantolare...e poi chiamavi persone sconosciute e singhiozzavi…un incubo poverino!

Crollo tra le sue braccia e piango. Quando le lacrime s’acquietano, lei mi guarda senza dire una parola, mi prende per mano e mi accompagna in soggiorno. Un raggio di sole supera in quel momento una linea di nuvole basse e salendo inonda la casa con la sua luce dorata. Mi sembra di vedere il mondo con lo stupore del primo giorno.

Corro in cucina e mi assicuro che il frigorifero sia pieno, come sempre, di cibo delizioso. Oltre il cancello che divide il giardino dalla strada vedo passare Vincenzo, il mio vicino. Fino a ieri lo consideravo la persona più gretta e malvagia di questo mondo. Oggi mi sorride, sì, mi sta sorridendo e io rispondo al suo saluto e avrei voglia di abbracciarlo...