Il primo fu un muro. Alla periferia di Padova, dove abitava con la famiglia. Ma ora non c'è più: è scomparso inghiottito dalla nuova urbanizzazione della città che nel suo vorticoso divenire distrugge la fantasia. È il destino della maggior parte delle scritte murarie, ma per i writers questo non è un problema. Né lo fu per Joys, allora giovanissimo studente di un istituto tecnico e oggi protagonista internazionale dell'Urban Art.
A quel muro dove aveva 'urlato' per la prima volta il suo nome se ne sono aggiunti centinaia. Da Padova a Bologna, da Milano a Venezia, da Teheran a Sarajevo, dall'Europa all'America, fino all'Australia. E poi ci sono stati autobus e finestre, tende e gadgets, fino ad arrivare alla pittura su tela e alla scultura. Così lui, Christian Bovo, classe 1974, nato di nuovo negli anni Novanta come Joys, ha scalato la montagna dell'arte con il suo diploma di perito elettrotecnico in tasca. Come dire che artisti non si nasce, ma si può diventare. Anzi, si diventa. D'altronde a lui le montagne non hanno mai fatto paura. Fin da piccolo ha scalato le cime dolomitiche accompagnato dai genitori e ora insegna ai due figli Pedro e Iacopo - 15 e 18 anni - come si fa a raggiungere la vetta. Intanto lui sale sempre più in alto nel panorama dell'arte pubblica.
L'ultima impresa è stata a Pisa dove, all'interno di un progetto curato da Gianguido Grassi e dedicato a Graffiti writing, Street Art e Neo Muralismo, ha dipinto con una live performance di tre giorni l'intera parete di una biblioteca, andando a far parte di un percorso espositivo dedicato a Keith Haring. Adesso è a Londra dove si prepara a lasciare il suo segno sulla parete esterna di un agglomerato urbano.
Christian, perché è nato Joys?
Joys nasce alla fine delle scuole superiori, ma non saprei dire perché. Semplicemente vidi alcuni graffiti murali e dissi a me stesso: “Voglio farli anch'io”. Così comprai colori e pennelli e in una settimana successe tutto: pim, pum, pam! In realtà quando ho iniziato non sapevo che cosa volevo fare, né immaginavo neanche lontanamente che quello sarebbe diventato il mio lavoro.
Il suo idolo era Keith Haring?
No, assolutamente no. Ero molto ignorante e non conoscevo nessuno. Comunque, anche adesso non sento alcuna vicinanza con Haring. Lui è un altro artista che ha usato i muri per esprimersi, ma con una vena diversa rispetto ai writers. Che poi ci siamo incrociati è sicuramente vero, ma la linea è diversa. Semmai Haring è più assimilabile alla Street Art, nata con l'arrivo del fenomeno Banksy e l'uso delle bombolette spray. Noi siamo una nicchia molto piccola che lega la competizione alla scrittura del proprio nome.
Però lei adesso non scrive più il suo nome... allora non fa più parte dei writers?
Non sempre scrivo il mio nome, però mi sento sempre un writer. Mi sento anche molto artista, ma senza l'etichetta della Street Art.
Ma davvero non c'è nessuno artista precedente che lo ha influenzato? All'inizio sicuramente Escher è stato uno dei segni che mi ha interessato di più. Soprattutto sono stato influenzato dal suo studio sulle figure impossibili. Capire quelle forme è stato importante per arrivare a qualcosa di nuovo e inequivocabilmente personale.
Ma nel Grafitismo o nella Street Art c'è un messaggio che si vuol lanciare?
Non tutto deve avere un senso o un obiettivo. A volte ce lo ha, ma spesso si tratta solo di segni trasportati su un muro. Per la verità oggi come oggi vedo un mondo di illustratori che attacca figurine sui muri...
Questo riguarda anche lei?
La mia è un'arte autocelebrativa. Afferma il mio essere e in questo c'è una sorta di battaglia cavalleresca con gli altri writers. Ma una battaglia dove nessuno si fa male.
Come avviene il suo processo creativo?
È cambiato nel corso degli anni. A volte nasce da uno schizzo a matita che poi riporto su un muro. La cosa migliore è sempre avere un progetto determinato con precisione. Però adesso ho molta più padronanza e qualche volta improvviso. Ma nei miei disegni non c'è mai nulla di forzato o di illogico. In realtà tutto è calcolato perché sia armonioso e bilanciato. L'idea è comunque quella di arrivare ad un corpo compatto e intrecciatissimo, dove il nome sia sempre in primo piano. Ovviamente le lettere devono adattarsi al muro e con questo devono fondersi.
Perché predilige le forme geometriche?
Non è stata una scelta. È capitato sviluppando lo stile. Ora lavoro sulle forme e sulla cifra stilistica. A volte uso ancora il mio nome, ma non è fondamentale.
Lei ha in programma l'apertura di uno store per vendere i suoi gadget? Pensa che l'arte possa essere commercializzata?
Non ho in mente negozi, né fisici, né virtuali, ma credo che arte e commercio possano andare d'accordo, ovviamente con dei compromessi, perché non si deve scendere troppo in basso nella vendita della propria creatività.
Il successo l'ha resa migliore?
Non direi, sono rimasto lo stesso. Magari mi ha dato più sicurezza. E soprattutto mi ha fatto incontrare persone come me, che dipingono, e che sono belle. Ecco, sono proprio le persone il lato magico di questa avventura.
Quali sono gli ostacoli maggiori per un writer?
I preconcetti. Ma ora tutto è cambiato e la nostra arte è accettata. Trenta anni fa era tutto più difficile.
C'è qualcosa che non ha ancora fatto e che vorrebbe fare? Qual è l'obiettivo della sua vita?
Quello che vorrei fare lo faccio già. Certo vorrei farlo sempre meglio. Ad esempio, vorrei che le mie forme diventassero cose, che venissero applicate alle tende, alle tovaglie, alle mattonelle, al tetto. Ho già trasferito queste forme in sculture e mi piacerebbe che queste fossero alte 20 metri e si trasformassero in case dove poter abitare. Poi mi piacerebbe anche costruire un ponte con quelle forme.
Sogni nel cassetto.
Perché? Tutto è possibile. Per ora è andata bene e sono contento, anche se so che niente cade dal cielo. Ma volere è potere. Bisogna crederci, lavorare e magari avere un po' di fortuna. Quella serve sempre.