Da quando si era accorto della sua somiglianza stupefacente con Ivan Turgenev, Fabio Picchi teneva bene in vista un’immagine dello scrittore russo. Riproporre dopo secoli i lineamenti, lo sguardo e la prestanza dell’autore di Padri e figli lo rendeva molto orgoglioso, almeno per quattro ragioni che aiutano a delineare la personalità monumentale e sfaccettata del fondatore del Cibrèo di Firenze, una galassia culturale e sociale, più che un ristorante.
La monumentalità metteva in risalto, prepotentemente, quasi tutte le sfaccettature, ma serviva pure a celarne alcune. Fra queste ultime, certe s’intuivano. Per esempio, rare manifestazioni di timidezza. Altre non le potrà scovare più nessuno ed è probabile che non le avesse trovate nemmeno lui, nato fiorentino (la formula con la quale si presentava) il 22 giugno 1954 e morto fiorentino il 25 febbraio 2022.
Infatti, una delle ragioni per le quali lo entusiasmava essere simile a Turgenev era la possibilità di addentrarsi in zone inesplorate della sua vita, chissà magari aveva sangue dell’Est. Il nome Fabio, per cominciare, gli sembrava modesto. Non avrebbe desiderato chiamarsi Ivan Sergeevič, ma quanti spunti gli sarebbero arrivati se davvero lo scrittore, vissuto anche a Parigi, fosse stato un suo avo.
Seconda ragione: oltre ai fondamentali amori familiari, alle amicizie, alla corte dei sudditi, con quella caterva di idee a braccarlo di continuo, gli era necessario un complice ormai incorporeo, qualcuno di immenso, ma perduto nel passato remoto.
Terza ragione: è di un’eleganza incredibile una somiglianza del genere. E Fabio Picchi adorava fare buona figura in una cerchia ristretta - non è che Turgenev lo puoi introdurre a chiunque - tanto la fama l’aveva già conquistata. In patria, all’estero, in televisione. L’amata moglie Maria Cassi, attrice applauditissima, osservava divertita e quasi sollevata come, camminando per la strada, la star fosse lui.
Quarta ragione: Turgenev era un intellettuale che si batté contro la servitù della gleba. E Fabio Picchi impiegava gli immigrati e i disabili valorizzandone le competenze.
Di mente brillante, di aspetto attraente, di irrequietezza mai domata, già inciampato in inappagamenti scolastici e vari, con un prestito del padre, che era sicuro di non rivedere un quattrino, nel 1979 inaugura il ristorante Cibrèo, puntando sul tocco felicissimo in cucina ereditato dalla madre, maestra di manicaretti.
“Ero giovane, presuntuoso, incosciente” diceva ricordando gli esordi.
Dopo il Cibrèo crea il Cibreino (trattoria), il Cibrèo caffè, il Ciblèo (tosco-orientale), la bottega di alimentari C.Bio (cibo buono, italiano, onesto), la scuola Accademia del Cibrèo. E, con la Cassi che ne è la direttrice artistica, il Teatro del Sale. Luoghi vicini fra loro, in via de’ Macci, via della Mattonaia, via Andrea del Verrocchio a pochi passi dalla chiesa di Sant’Ambrogio, documentata fin dal 988 e affrescata da Cosimo Rosselli. Distante solo il recente Cibrèo nell’albergo di lusso Helvetia & Bristol, in via dei Vecchietti, con Palazzo Strozzi a vigilare.
Il cibrèo è una pietanza antichissima di Firenze.
Il Cibrèo è un’invenzione di Fabio Picchi che negli anni plasma il quartiere di Sant’Ambrogio, poco promettente, lo mettevano in guardia agli albori dell’impresa, e lo rende un cosmo sul quale la città e i visitatori contano da decenni.
Il far da mangiare squisito, gli arredi ricercati, il lessico preciso nel racconto dei piatti, la formazione inflessibile dei collaboratori, l’educazione dei commensali ai sapori, la simbologia del nutrire, il legame con i contadini, i pescatori, i formaggiai. Il sofisticato e il popolare che perdono i contorni. Catherine Deneuve al Cibrèo ristorante, i venditori del mercato al caffè per una tazzina, ma insieme nella stessa atmosfera. Il principe del Galles e Camilla a chiacchiera con il macellaio.
Fabio Picchi ha un palato che non perdona, in questo è chef puro, uno sguardo senza distrazioni e, se un rametto di rosmarino è posato a caso, se un barattolo di marmellata di arance amare ha un’inclinazione che turba la bellezza dello scaffale, dà in escandescenze. Dal dettaglio al principio filosofico è tranchant per difendere la sua visione.
Gli sono carissimi i figli Giuditta, Giacomo, Giulio, Duccio avuti da Benedetta Vitali, e ne parla. I nipotini lo vedono nonno affettuoso.
Pubblica volumi di ricette e romanzi. Affascinante, ha delle trovate che lo innamorano. Poi, di tanto in tanto, si annoia anche delle trovate: non gli paiono più così geniali, con ironia dichiara di essere stato eccessivo o auto-referenziale e le elimina senza pietà anche se i clienti ci si erano già affezionati. Non tardano le successive e i clienti si affezionano ancora.
Due episodi fra i mille.
A una donna seduta al tavolo del Cibrèo che lo subissa di critiche: “Signora, io credo non sia il ristorante per lei, vada in un altro”. A una donna in piedi alla C.Bio che brandisce carciofi, o forse broccoletti: “L’ho comprati altre due volte e non mi sono piaciuti”, “Signora, e non li compri più”.
E a commento: “Dicono che sono stato antipatico io”.
“Irripetibile” ha scritto il giornalista Paolo Pellegrini nel dirgli addio su Facebook.
Irripetibile, l’aggettivo più Fabio Picchi di tutti.