Se ti capita di incontrarla dietro le quinte avverti un’immediata sensazione di familiarità e calore, quando invece si esibisce sul palco cattura immediatamente l'attenzione, per la molteplicità di atmosfere che riesce a creare con i suoi partner artistici. Lei è Eleonora Bianchini, nata in Umbria e proiettata in una dimensione internazionale che da qualche tempo l'ha riabbracciata nuovamente in Italia. Un emblema di quanto appena detto è racchiuso in Andar Live, palpitante album dal vivo inciso per la Fonè di Giulio Cesare Ricci, vero antesignano e strenuo difensore del concetto di “alta fedeltà” condiviso assieme a Luciano Biondini ed Enzo Pietropaoli, con il quale aveva già inciso per la label toscana, con unanime consenso di pubblico e critica. E se questo periodo ha colpito duramente anche il settore artistico, Eleonora ha risposto affilando la lama preparandosi a un tempo migliore: “Il lockdown – ribadisce - è stato un periodo di grande riflessione e di contatto interno, non si poteva scappare da nessuna parte così che siamo stati costretti a fare i conti con noi stessi, con i nostri istinti, le insofferenze, la gestione del tempo, la gestione dello spazio. Con la pandemia ho riscoperto la preziosità della lentezza ritagliandomi momenti di calma appena possibile. Penso che l’interazione con le persone, lo scambio di idee e racconti di vita sia la cosa più preziosa al mondo, e in questi ultimi anni mi è mancata moltissimo; adesso ogni volta che interagisco con qualcuno cerco di farlo per davvero e con tutta la cura possibile e rispetto a prima do molto meno le cose per scontato.”
Andar Live è un disco molto profondo e coinvolgente, non solo per il mood in cui è calato, ma anche per la scelta del repertorio, che va ancora una volta ad allungare le traiettorie scelte e condivise con Pietropaoli ed il “SignoRicci”: vogliamo approfondire questo doppio sodalizio?
Un incontro che è scaturito alla vecchia maniera; conobbi Enzo alla fine di un suo concerto ad Umbria Jazz, me lo presentò il mio caro amico trombettista Fulvio Sigurtà, e dopo una breve saluto, mi venne d’istinto regalargli un mio disco. Nel ritorno a Roma, Enzo lo ascoltò e due giorni dopo mi contattò per fare una prova con lui l’eventuale possibilità di registrare un disco voce e contrabbasso per l’etichetta Fonè di Giulio Cesare Ricci, un nome autorevole e rispettato per la sua capacità di riportare sui vinili ed i super audio Cd il suono naturale degli strumenti. Un luminare che lavora su ogni possibile dettaglio: dai luoghi che diventano contenitori musicali di eccellenza, selezionati da lui con estrema attenzione, alle voci degli strumenti sul palcoscenico di cui cattura l'essenza della loro anima. Con Fonè abbiamo registrato tre dischi, Dos nel 2014, In Sight nel 2016, e poi questo Andar nell'ambito del Music Festival di Pontedera, avvalendoci anche della presenza di un musicista meraviglioso come Luciano Biondini. Registrare questi dischi a cui sono molto affezionata è stata una delle esperienze più belle della mia vita, una delle più emozionanti, ma anche una delle più complesse; penso di poter parlare per tutti nel dire che ci sentivamo dei veri e propri funamboli attenti alle più profonde sfumature del suono, respirare insieme diventava il collante di ogni brano, il contatto profondo era quindi essenziale.
Come e quando ti sei scoperta musicista? Quali sono state le tue principali ispirazioni?
La musica è stata protagonista nella mia vita sin da piccolina, da quando all’età di 8 anni me ne andavo a lezione di chitarra da mia zia che vedevo suonare in chiesa, la domenica a messa; poco a poco presi il suo posto, fu lei a darmi la spinta iniziale per spiccare il mio primo volo. Da qual momento mi iscrissi presso la scuola di musica di Gualdo Tadino, vicino al mio paesino in Umbria, ed iniziai a studiare pianoforte e canto, poi l’Università della Musica a Roma, poi le Clinics di Umbria Jazz, dove ricevetti una borsa di studio per il Berklee College of Music di Boston: il sogno americano si avverò e rimasi negli Stati Uniti per quasi sette anni. Sono cresciuta ascoltando pop alla radio, si ascoltava quello in casa; mi ricordo che la cosa che mi colpiva di più e che mi rimaneva più in testa erano gli arrangiamenti, quelli di certi brani me li ricordo tuttora, erano in grado di arrivare a uno strato più in fondo. Il jazz entrò nella mia vita quando avevo 18 anni più o meno, mi ci avvicinai grazie alla mia passione mista a curiosità: sicuramente era un genere di complessità musicale elevata rispetto al pop che ero abituata ad ascoltare. La musica che però mi prese più il cuore fu quella brasiliana, latino-americana, la musica andina e caraibica, per le melodie e soprattutto il messaggio di forza e radice che riecheggiava nelle ritmiche.
Mantieni una tua curiosità realmente versatile: come arrivi a scegliere ciò che ti rappresenta artisticamente e come arrivi al passo successivo, ovvero ad un repertorio funzionale per un disco-concerto?
La versatilità è per me fonte di ricchezza, mantiene la mente e le orecchie aperte a diversi modi di espressione, ho profondo rispetto per tutto, con la condizione che si faccia con onestà. Ho avuto modo di sperimentare questo soprattutto nell’esperienza relativa a DOS, il duo insieme ad Enzo Pietropaoli, musicista di grande cultura, sensibilità e generosità. Abbiamo scelto i vari brani da reinterpretare ed arrangiare con un pensiero che potesse rispettare e omaggiare la composizione originale dell’autore e allo stesso tempo, in maniera minuziosa ed essenziale, dargli una veste diversa attraverso il nostro filtro personale ed esperenziale. Siamo esseri che risuonano, ed aguzzando le antenne si riesce a percepire cosa può essere prolungamento del nostro sentire e della voce più intima che non conosce sforzo o obiettivo, semplicemente scorre libera nella sua natura.
Nella musica che ascolti, che interpreti, che ti piace cosa conta di più? La complessità o la semplicità, l'espressione o la tecnica, il feeling o la precisione?
Sicuramente la cosa che per me è più importante è l’onestà che trapela immediatamente nella voce, senza ostentare l’uscita di ciò che non c’è e al contrario, dare risalto al flusso che scorre naturale nel canto, che il nostro corpo ed il nostro respiro vogliono veicolare al mondo. Ovviamente, come in un buon piatto o in un cocktail minuziosamente preparato, l’equilibrio degli ingredienti è fondamentale, e quindi nel nostro caso la giusta combinazione tra feeling, buona tecnica, espressione e precisione rappresenta la cosa più deliziosa che le nostre orecchie possano ascoltare; sicuramente, almeno secondo il mio parere, non si può prescindere dal feeling e dall’espressione, senza dimenticare una buona tecnica, che ne determina il mestiere.
Hai passato dei periodi significativi all'estero, adesso sei tornata in Italia: come ci vedevi da fuori, intendo proprio come nazione rispetto al quotidiano che vivevi con altre consuetudini ed usanze?
Ho vissuto quasi nove anni all’estero, tra Stati Uniti e Sud America, mi sono sempre aperta alle rispettive culture accogliendone le diversità e rivalutando le cose sotto altri punti di vista, è stato un percorso che mi ha cambiato la vita, una grande opportunità di crescita. All’inizio ero entusiasta di andarmene dall’Italia, trasferirmi a Boston, studiare in una delle scuole più belle del mondo, per me ha rappresentato un vero e proprio sogno che si realizza, e tutt’ora penso che sia stata la cosa più preziosa che abbia fatto nella vita, ma le mie radici nelle cose essenziali quali il rapportarmi con gli altri, l’alimentazione e la qualità della vita, me le sono tenute strette come retaggio culturale. Mi sono sempre sentita un’italiana nel mondo, e incuriosita ho cercato d’imparare quello che sentivo essere più carente in Italia, ossia la capacità di organizzazione, l’essere efficiente, l’avere un atteggiamento di problem solving invece che il contrario come spesso succede qui. Dopo nove anni, ho fatto una scelta di vita e sono tornata in Italia, mi sono riappropriata della qualità di vita che da tempo non avevo più, e posso stare più vicino alla mia famiglia, cosa che negli ultimi anni mi iniziava a pesare un po’. Ho il privilegio ed il profondo piacere di collaborare con grandi musicisti qui, e da un anno insegno anche in Conservatorio, cosa a cui tenevo moltissimo.
Una domanda difficilissima nella sua semplicità: qual è il tuo standard preferito e quale traguardo ha rappresentato la maggiore soddisfazione per la carriera che hai compiuto sino a qui?
Non penso che abbia uno standard preferito, esistono delle melodie meravigliose ed è difficile fare una classifica, ma sicuramente ne ho uno che custodisco in un posto speciale dentro di me, ed è Skylark di Hoagy Carmichael. Ho sempre adorato cantarlo, mi veniva facile farlo dal profondo del cuore, sia per il testo che per la melodia, è diventato speciale per me perché grazie a lui mi è stata assegnata quella borsa di studio per gli Stati Uniti che mi ha cambiato la vita.
In quale formazione invece ti senti maggiormente a tuo agio e qual è il sogno ancora da cogliere nel futuro?
Non è facile rispondere a questa domanda, sentendomi versatile nei generi, così altrettanto mi sento versatile nelle collaborazioni musicali; ognuna tira fuori delle cose diverse da me. Una che ho molto a cuore è quella con Enzo Pietropaoli, in duo, perché nel tempo abbiamo imparato ad ascoltarci, rispettarci ed ispirarci a vicenda. Un’altra è quella con Marco Siniscalco, Alessandro Marzi ed Enrico Zanisi che con attenzione ed affetto suonano i brani scritti da me. Mi diverto molto nel duo Entre Cuerdas che ho con Giulia Salsone, eccellente chitarrista di origini libanesi e di adozione romana, con cui omaggiamo la musica brasiliana. Da pochi anni collaboro inoltre con due musicisti, nonché autori che stimo molto, Enrico Cresci e Paolo Iurich con cui è nato il Meldoco Trio. “Last but not least” la collaborazione che ho con Grazia di Michele, che ammiro moltissimo. Il mio sogno assoluto? Avere il coraggio di superare i miei limiti e vedere a quali sorprese questo mio percorso può portare.