Il Giappone degli anni Venti e Trenta fu attraversato da un’ondata di malcontento generale, di agitazioni da parte dei movimenti operai e dei fittavoli, che la magistratura, tuttavia, riuscì in qualche modo a contenere. In questo clima di tensione Kita Ikki (1883–1937), filosofo e politico di stampo socialista, riuscì con i suoi discorsi a infiammare gli animi di piccoli gruppi ultranazionalisti che indirizzarono tutta una serie di attentati ai vertici dello stato giapponese. Il 26 febbraio del 1936 ci fu l’ultimo di questi episodi. Tokyo venne assediata da quasi 1500 ribelli, i quali assassinarono ben tre esponenti politici: Makoto Saitō, ex primo ministro giapponese, Korekiyo Takahashi, ministro delle finanze, e Watanabe Jōtarō, ispettore generale per l’addestramento militare.
L’imperatore Hirohito comandò di sedare la sommossa. Il portavoce dei soldati rivoltosi, il tenente Kurihara, inviò un messaggio al sovrano affinché concedesse l’autorizzazione al suicidio rituale degli ufficiali. Hirohito non solo non acconsentì alla morte d’onore degli insorti, ma ordinò persino la loro esecuzione. 13 ufficiali e 6 civili, tra cui lo stesso Kita Ikki, furono condannati a morte. Tale avvenimento ebbe un’eco assai diffusa nel Paese, tanto che anche dopo la Seconda guerra mondiale il ricordo rimase vivido nelle menti dei giapponesi.
È proprio dall’incidente di quel 26 febbraio, meglio noto come Niniroku jiken (二・二六事件), che Mishima Yukio, trent’anni dopo l’accaduto, trasse ispirazione per la stesura del suo racconto Yūkoku (憂国, Patriottismo). Nel 1966 l’opera fu poi trasposta in un cortometraggio in celluloide della durata di circa trenta minuti (cfr. Meloni 2019: 46-49). Secondo Garcin (2015 o.l.: 229) il soggetto sarebbe ispirato a un fatto di cronaca risalente al 28 febbraio del 1936, due giorni dopo il Niniroku jiken: un certo Kenkichi Aoshima, ufficiale dei Corpi di Trasporto della divisione delle guardie imperiali e complice dell’attentato, pur non avendo preso parte al tumulto, si suicidò assieme alla giovane moglie nella sua casa di Setagaya.
Il racconto fu pubblicato per la prima volta nel gennaio del 1961 all’interno della rivista letteraria Shōsetsu chūō kōron. Sulla scia delle vicende storiche sopra menzionate, la narrazione è ambientata a Tokyo, città diventata scenario di un tentato colpo di stato rivelatosi fallimentare. Il protagonista, il luogotenente Takeyama Shinji, condivideva gli stessi ideali politici dei ribelli, con i quali aveva, per altro, uno stretto legame di amicizia. Ciononostante, non era stato coinvolto nella ribellione, poiché aveva da poco contratto matrimonio con la splendida Reiko e l’intenzione dei suoi compagni era proprio quella di far loro godere le nozze, preservando il giovane amore.
Quando il colpo di stato fallì, il nome di Takeyama non comparve nell’elenco dei rivoltosi e, per un crudele spirito di vendetta, fu ordinato proprio a lui di reprimere la rivolta nel sangue. Così, per non disobbedire al comando e al tempo stesso restare fedele ai suoi amici, il luogotenente scelse la via del suicidio mediante seppuku, e in questa decisione non poté che essere seguito dalla moglie Reiko, a sua volta tenuta a mostrare fedeltà al marito (cfr. Rosati o.l.).
Mettendo in scena la morte di due amanti, Mishima rielaborò anche un tema senz’altro caro alla letteratura giapponese, quello del suicidio d’amore tipico del genere drammaturgico shinjūmono. L’autore più famoso di shinjūmono fu Chikamatsu Monzameon (1653-1725), il quale scrisse la maggior parte delle sue opere per il bunraku, il teatro di marionette. Da queste opere Mishima prese in prestito il patetismo di alcune scene strazianti, topos codificato sotto il nome di shūtanba: l’ultimo sguardo, l’ultimo abbraccio, le ultime promesse d’amore.
Il tono patetico dev’essere di norma sostenuto da un’estetica del chiaroscuro, che Mishima provvederà a rendere in maniera impeccabile nella versione cinematografica di Yūkoku, grazie alla scelta un po’ rétro di fotogrammi in bianco e nero. I personaggi emanano una tale luminosità da creare un forte contrasto con il buio in cui operano; d’altronde è notte e la luce in casa è soffusa. Questo conferisce loro un aspetto rarefatto e vaporoso, di creature spettrali che si muovono in un’ambientazione minimalista tipica del mugen-nō, il teatro nō del ‘sogno’, in cui il personaggio principale, lo shite, appare nel secondo atto nelle sembianze di un fantasma o di uno spirito. Dato che il lettore di Yūkoku è stato già informato della morte dei personaggi, non sarebbe un azzardo considerare il testo come un michiyuki, ossia lungo lamento, una preghiera che fa risvegliare i protagonisti dal sonno della morte per far loro recitare ancora una volta, nel tempio domestico, la scena dell’ultima notte (Garcin 2015 o.l.: 234-235).
Come per una sorta di tanatoprassi, i due curano il loro aspetto prima di morire, lui si rade la barba, lei si rifà il trucco, perché sarà quello il volto che avranno da morti, giovani e belli. A metà del capitolo quarto c’è però un colpo di scena. La morte irrompe nello scenario idilliaco e non è poi così ideale come quella a cui i personaggi si erano preparati. Quando il luogotenente Takeyama comincia il lungo processo di eviscerazione deve far fronte all’orrore della realtà, della sua realtà organica. Si passa da una morte statuaria a una morte incarnata e sofferta, e la transizione è simbolicamente segnata dalla sottile distinzione tra l’espressione “shinigao” (死顔, ‘faccia di morte’) usata nel capitolo terzo e “shi no kao” (死の顔, ‘faccia della morte’) impiegata nel quarto.
Un’immagine poetica e altrettanto simbolica di questo passaggio è rappresentata dalle lacrime di Reiko che, a differenza di quelle versate all’inizio del racconto senza lasciare il segno, questa volta le sciolgono il trucco. Le secrezioni corporee si spargono per la stanza suggerendo la liquefazione del corpo eroico presentato nella prima parte del racconto e il tutto raggiunge un climax con la fuoriuscita delle budella dell’eroe (cfr. Garcin 2015 o.l.: 236-238).
Date le premesse solenni del racconto mai ci si sarebbe aspettati un finale così impressionante e grottesco. Ma l’autore è Mishima e non sorprenderà certo una scelta così audace da parte sua. Yūkoku è l’emblema della sua concezione artistica, di quell’ultimo tassello che l’autore poggia sulla cima della struttura che egli stesso aveva accuratamente costruito e che decide di far crollare sotto i suoi occhi per godersi lo spettacolo.
Il cortometraggio di Yūkoku, realizzato nel 1966, cinque anni dopo la pubblicazione del racconto, si presenta come perfettamente aderente alla sua fonte letteraria. La cinepresa è posizionata su un piano ribassato, trucco di stile preso in prestito da Ozu Yasujirō, grande maestro del cinema giapponese, nonché idolo dell’autore. Pur non eccellendo nella recitazione, Mishima fu all’altezza del ruolo di attore protagonista. Interpretò il suo personaggio in maniera appassionata, immedesimandosi profondamente in quella che di lì a poco sarebbe stata la sua drammatica fine. Anche la talentuosa attrice coprotagonista, Tsuruoka Yoshiko, recitò in maniera egregia.
Lo spettatore si ritrova di fronte a un’opera intimistica rivelatrice dell’unione di due coniugi che vivono persino la morte come un momento di complicità. Al di fuori delle mura domestiche c’è il caos di un paese vittima di un colpo di stato; tuttavia, Mishima intese trasporre la vicenda rimanendo fedele al silenzioso linguaggio del nō, con una diegesi che rispetta il più possibile le unità aristoteliche di tempo, spazio e azione. La scenografia è priva di ornamenti cinematografici, sullo sfondo vi è sempre appeso un kakemono, ossia un grande rotolo con su scritti i caratteri di ‘devozione, sincerità’, 至誠 (shisei). Ogni scena, inoltre, è introdotta da didascalie scritte a mano e srotolate dallo stesso autore.
Pur essendo ormai giunta l’era del sonoro a colori, Mishima, in qualità di regista, fece ancora una volta una scelta sui generis optando per il muto e, per giunta, in bianco e nero. Questi due colori non colori, più che attenuare, esasperano i contrasti dell’opera, intensificandone il pathos. Ad essi si interpongono degli accenni cromatici al rosso del sangue, che alludono al sincretismo tra Eros e Thanatos, amore e morte (cfr. Rosati o.l.). Se si ascolta attentamente, però, la scelta del non sonoro parrebbe più che giustificata dall’importante presenza del sottofondo musicale dell’opera. Si tratta della Sintesi Sinfonica di Stokowski di Tristan und Isolde, celeberrimo dramma musicale composto da Richard Wagner nella seconda metà dell’Ottocento, divenuto l’emblema del Romanticismo tedesco. Secondo Salazar (2020 o.l.) non c’è alcun dubbio sul fatto che la colonna sonora compensi di gran lunga all’assenza di parole. Le scene di maggiore intensità sono enfatizzate da un andamento della musica più sostenuto. Nell’intesa degli sguardi dopo l’amplesso – delegato alle didascalie – si possono leggere le famose invocazioni: “Tu Tristano, io Isolda, non più Tristano. Tu Isolda, io Tristano, non più Isolda!” (Manacorda 1922: 44).
Indossata nuovamente la divisa militare, il luogotenente Takeyama si appresta a commettere seppuku. A differenza della scena d’amore in cui il tutto è lasciato all’implicito, Mishima in questo caso non risparmia nulla alla vista dell’osservatore, tanto che le immagini, essendo così esplicite, potrebbero urtare la sensibilità del pubblico. Una volta ricomposto il corpo del marito, anche Reiko commette seppuku nel solo modo che le è concesso, pugnalandosi alla gola. La camera, però, viene spostata fuori campo e non riprende la sua morte. Il film finisce con un fotogramma dall’alto dei due amanti distesi per terra l’una sull’altro.