Patrizia Chieregati è consulente pedagogica e coordina una scuola a Verona. Gestisce inoltre una rubrica sul giornale InCassetta su temi inerenti l’educazione e la didattica. Molto attenta all’aspetto emotivo dello sviluppo dei bambini, Patrizia dà sempre risposte esaurienti e utili ai lettori che le scrivono. Io la leggo sempre con molta attenzione e, al di là dell’evidente competenza professionale, ciò che maggiormente mi colpisce nelle sue analisi e nei suoi consigli è la pacatezza, la dolcezza ma, parimenti, la chiarezza di pensiero e la profonda comprensione delle problematiche dell’infanzia nonché, più in generale, della famiglia.
Dott.ssa Chieregati, la parola educazione può essere “declinata” in infiniti modi, può assumere mille significati tutti diversi e alcuni persino contrari tra loro; le chiedo quindi come lei intenda questa parola, sia in senso teorico che, soprattutto tenuto conto della sua professione, in senso operativo, in cosa consista cioè il “fare educazione”?
Il fine dell’educazione è quello di portare l’essere umano da una condizione esistente ad una migliore, perché la persona possa trovare la sua forma migliore di vita possibile, sulla base delle sue proprie potenzialità. Il compito dell’educatore non è quello di riempire un vaso di nozioni, insegnamenti, regole, ma è quello soprattutto di vedere queste potenzialità fornendo gli strumenti, affinché ciascuno possa sviluppare le proprie capacità e raggiungere così il miglior “poter essere”. Non è un percorso facile: chi educa (sia esso genitore, insegnante o altro) deve innanzi tutto avere le idee chiare sul suo ruolo, deve sempre avere la consapevolezza di ciò che sta facendo, perché le azioni educative non si improvvisano, ma devono invece essere pensate e guidate sempre da uno scopo. Ho letto una bellissima definizione, che spesso passo anche ai genitori perché nella sua semplicità è illuminante: quando ci troviamo a dover scegliere come agire, se dire un “no”, ad esempio, a nostro figlio, o se lasciar correre, la domanda che potrebbe aiutarci non è tanto “cosa c’è di male?” bensì “cosa c’è di bene?”1. Ecco. Ricercare il bene nelle azioni che andiamo a compiere è fondamentale, perché la pedagogia è sempre eticamente orientata, cioè orientata al bene, alla ricerca e trasmissione di valori. Guidata da tale presupposto, attivo il pensiero perché, rispetto alla situazione che si presenta di volta in volta, si possa trovare una strategia adeguata a portare il cambiamento positivo nella vita di chi si rivolge a me.
Fare educazione, inoltre, è la risposta ad un bisogno di cura della persona. L’essere umano non può sopravvivere senza cura (non intesa come terapia, ma come prendersi cura): il neonato è totalmente indifeso e non vivrebbe un giorno senza cure adeguate. L’educabilità è la condizione imprescindibile dell’essere umano, e la cura è la base su cui poggia la vita presente e futura della persona. “Noi siamo i gesti di cura ricevuti e i gesti di cura mancati” scrive Luigina Mortari e, rifacendosi al pensiero di Heidegger, ricorda che ci sono diversi modi di prendersi cura: la cura autentica e la cura inautentica. La prima significa mettere l’altro nelle condizioni di “curarsi da solo”, di prendersi cura di sé, e implica che l’educatore si faccia da parte, ma dando un supporto alla persona, consentendo così il raggiungimento di quella autonomia che è il fine dell’educazione; la seconda invece presuppone un uso del potere, c’è un mettersi al posto dell’altro, c’è dominio, condizionamento, c’è intrusione2.
In termini pratici questo significa sapersi fare da parte per far spazio all’altro, sapersi astenere da qualsiasi giudizio, sapersi collegare in modo empatico all’altro perché si senta supportato senza sviluppare una condizione di dipendenza. La soluzione che posso trovare per me non necessariamente sarà quella giusta anche per la persona che mi sta di fronte. Educare significa accompagnare verso soluzioni che ognuno trova da sé. Per questo è importante che chi si pone in una relazione educativa conosca sé stesso, sappia distinguere ciò che è suo da ciò che è dell’altro, per non cadere in attribuzioni errate, giudizi e valutazioni, restando comunque in connessione empatica e senza mai perdere la fiducia nelle capacità dell’altro.
Potrebbe descrivere i tratti salienti del suo lavoro di consulente pedagogica?
La consulenza pedagogica si colloca nello scenario della relazione di aiuto, nell’ambito del prendersi cura come ho spiegato prima, ed è una professione riconosciuta dalla legge 205/2017 art.1, cc 594-601, e regolamentata dalla legge 4/2013. Il pedagogista è il professionista in possesso di laurea magistrale in Scienze Pedagogiche (o equipollenti), esperto dei processi educativi, formativi e dell’apprendimento. In tale ottica, utilizzando le parole del dott. Fabio Olivieri, docente universitario e presidente di Conped (l’associazione professionale di cui faccio parte): “L'intervento consulenziale non possiede mai finalità diagnostiche né cura direttamente alcuna forma di patologia. Esso è impegnato nel favorire l'acquisizione quotidiana di valori, saperi e abilità necessarie a far vivere, rinnovare e tutelare ogni forma di relazione umana, individuale e collettiva. Promuove stili di vita salutari ed eticamente orientati, modelli, politiche e prassi educative finalizzate a migliorare l'efficacia dei sistemi sociali e delle agenzie educative formali, non formali e informali. Facilita, incoraggia e realizza occasioni di apprendimento e di cura del cliente in ogni forma ed espressione”.
Questo significa che attraverso la consulenza pedagogica le persone (e intendo chiunque, non solo genitori, dal momento che l’educazione riguarda tutto l’arco dell’esistenza e ogni ambito della vita), possono trovare un sostegno per raggiungere quello stato di benessere che da soli faticano a realizzare. Come avviene questo processo? Bisogna tenere presente che non esistono ricette preconfezionate, che vadano bene per tutti nonché utilizzabili in qualsiasi momento. La pedagogia, intesa come scienza dell’educazione, suggerisce strumenti, la cosiddetta “cassetta degli attrezzi”, e aiuta ad utilizzare questi attrezzi correttamente, ma poi è la persona che deve prenderli in mano e farli propri, scegliendo quelli più adeguati ai propri bisogni.
Personalmente nel mio lavoro consulenziale cerco sempre di fornire spunti di riflessione, sia nel caso di interventi individuali che nel caso di interventi in gruppo. Stimolare la capacità di pensare e di vedere le cose da prospettive diverse aiuta moltissimo le persone a interrompere magari modalità ricorrenti con cui affrontano le situazioni, che a lungo andare si mostrano disfunzionali e inefficaci.
La pedagogia inoltre aiuta a costruire e mantenere relazioni positive, sia in famiglia che a scuola che in ambito professionale. Facciamo l’esempio di un posto di lavoro, in cui si trovano persone che devono lavorare fianco a fianco e che magari non si sentono in sintonia fra loro. Mi è capitato di predisporre progetti di pedagogia aziendale, attraverso la metodologia della “Appreciative Pedagogy”, che hanno portato a miglioramenti in tempi molto ristretti rispetto alla comunicazione e alla relazione nel team di lavoro. Si tratta di un tipo di consulenza ancora poco conosciuta, ma in realtà la pedagogia in azienda ha un potenziale elevatissimo e porta a risultati molto soddisfacenti.
Un altro aspetto poi da tenere presente è che spesso, dopo un periodo di crisi, si cerca di ripristinare situazioni esistenti precedentemente. Non è così che interviene la pedagogia. La pedagogia è proiettata verso il futuro. Lavora in prospettiva trasformativa e questo la colloca su un piano differente rispetto, ad esempio, a discipline che sono orientate alla clinica, alla diagnosi e alla terapia.
La pedagogia insegna a lavorare sulle risorse, a valorizzare e far crescere quello che c’è. Il risultato non potrà essere la situazione iniziale, ma una situazione diversa, che avrà caratteristiche diverse, che avrà preso dalla situazione precedente solo quello che ha funzionato, ma si sarà lasciata alle spalle ciò che non è stato efficace.
La pedagogia aiuta a vedere le risorse che possono emergere concentrandosi su ciò che si può fare, e con quelle risorse si lavora e si progredisce. Quando le persone se ne rendono conto si sentono fortemente sollevate. L'educazione inoltre è la migliore, se non addirittura l'unica, forma di prevenzione sociale possibile. È un dovere della società pensare e mettere in atto oggi interventi educativi che garantiscano ai giovani un futuro sano, e la consulenza pedagogica serve anche a questo.
Dott.ssa Chieregati, leggendo la sua rubrica in cui risponde alle mail dei lettori, ho notato che lei è sempre molto attenta all’aspetto emotivo dei bambini ma, cosa molto interessante, ha anche una grande empatia con i genitori. Ciò mi ha fatto riflettere su quanto sia importante integrare gli aspetti didattici con quelli emotivi del bambino e con le dinamiche familiari. Quali strumenti e/o azioni ritiene siano fondamentali per facilitare questa integrazione?
Le emozioni sono fondamentali nella vita dell’essere umano. Saperle accogliere significa saper accogliere la persona, significa coltivare e agire quella empatia che ci collega agli altri e al resto del mondo. Non a caso negli ultimi anni si è consolidata l’importanza dell’educazione emotiva, perché le emozioni possano essere conosciute e riconosciute fin da piccoli. La scuola ormai lavora moltissimo su progetti legati proprio al mondo emotivo perché il lavoro sulle emozioni consente di prevenire disagi e comportamenti devianti. Provare empatia serve a capire il mondo interiore degli altri, ma prima bisogna saper comprendere il proprio. Darwin3 ha sottolineato che attraverso le emozioni è possibile comunicare senza dover utilizzare il linguaggio verbale. Le emozioni costituiscono quindi un ponte fra gli esseri umani, a condizione di saperle appunto riconoscere, accettare e accogliere. Mi soffermo spesso su questi aspetti durante le consulenze: ci sono emozioni difficili da accettare da parte dei genitori. Per esempio, la rabbia è fra le più rifiutate, le esplosioni di rabbia mettono in difficoltà l’adulto che spesso non sa come contenerle. Bisogna invece tenere presente che anche i bambini si spaventano dei loro stati di agitazione, soprattutto se non sanno cosa sta succedendo. La calma del genitore deve quindi fare da contenitore per aiutare il bambino a elaborare ciò che prova, imparando con il tempo a incanalare la rabbia verso comportamenti che non siano distruttivi. La rielaborazione verbale, il racconto, aiutano moltissimo in queste situazioni.
Come scrive Daniel J. Siegal: “Quando i bambini provano sensazioni positive, come in momenti di gioia e di eccitazione, i genitori possono condividere questi stati emozionali e contribuire con entusiasmo ad amplificarli; nello stesso modo, di fronte a sensazioni negative e spiacevoli, come in momenti di delusione e sofferenza, i genitori possono offrire una presenza che è fonte di consolazione e conforto. Queste situazioni di empatia e unione permettono al bambino di ‘sentirsi sentito’, di sentire che lui esiste all’interno della mente del genitore. Quando un bambino prova una sensazione di sintonia con un adulto responsivo ed empatico si sente bene con se stesso, perché le sue emozioni sono state riconosciute e condivise in uno stato di risonanza”4. Questo è un passaggio fondamentale: sentirsi compresi è una condizione che favorisce nel bambino sia un armonico sviluppo cognitivo che un positivo sviluppo sociale.
Se questo presupposto è valido per i genitori, lo è anche per gli adulti di riferimento fra i quali gli insegnanti. Un bambino riesce ad apprendere meglio se si trova in un contesto emotivamente connotato da affettività e positività, se vive, in definitiva, una relazione positiva con chi si sta occupando della sua crescita. Per questo anche a scuola è importantissimo e fondamentale tenere presenti questi aspetti, e prendere in considerazione non solo il bambino nella sua singolarità, ma il bambino con la sua storia e con la sua famiglia, cioè considerarlo come facente parte di un sistema e non come una singola unità. Questo va oltre la didattica. Spesso ci sono genitori disorientati che cercano anche nella scuola un punto di riferimento e di supporto per l’educazione dei figli. E la scuola deve rispondere a questo bisogno, non può esimersi. Ovviamente deve essere adeguatamente preparata. Vorrei aggiungere un’ultima cosa: come scrive Dario Ianes: “Ciò che avviene, nel bene e nel male, nei processi di insegnamento-apprendimento è affettivamente carico. Possiamo lavorarci su con attenzione. Ed è proprio la nostra attenzione e il nostro ascolto la prima strategia indispensabile” 5. Un insegnante deve avere questa consapevolezza per poter svolgere il suo lavoro da professionista; altre posture risulterebbero inutili o, peggio, dannose.
Note
1 Casaschi C., Il limite. La condizione dell’educazione, Marcianum press, Venezia, 2019, pag. 51.
2 Cfr. Mortari L., La pratica dell’aver cura, Mondadori, Milano, 2006.
3 Darwin C., L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, Newton Compton, Roma 2008.
4 Siegel D, Hartzell M., Errori da non ripetere: come la conoscenza della propria storia aiuta a essere genitori, Raffaello Cortina, Milano 2005, pp. 63-64.
5 Ianes D., Educare all’affettività. A scuola di emozioni, stati d’animo e sentimenti, Edizioni Centro studi Erickson, Trento, 2007, pag. 65.