Il primo concerto della nuova stagione cameristica del San Carlo di Napoli del 7 novembre ha avuto come eccellente protagonista un trio d’archi composto da Gabriele Pieranunzi, Luca Improta, e Luigi Sanarica, rispettivamente primo violino di spalla, prima viola e primo violoncello dell’Orchestra del Teatro di San Carlo.
Per l’occasione sono state messe a confronto due partiture poco eseguite ma di grande interesse, soprattutto la seconda. In programma c’erano infatti la Serenata in Re Maggiore per trio d’archi op. 8 n. 2 di Ludwig van Beethoven, e la Serenata in Do Maggiore op.10 di Ernő von Dohnányi.
Il trio sancarliano ha fornito una lettura che, mentre evidenziava le affinità strutturali tra le due pagine, mostrava come l’affiatamento tra i tre, quasi una “complicità”, riusciva ad esaltare i tratti più cameristici e intimi delle due partiture. C’è comunque da dire che, tra Beethoven e Dohnányi, è stato certamente il compositore magiaro a riscaldare maggiormente il cuore del pubblico.
La Serenata op. 8, pubblicata da Beethoven nel 1797, a ventisette anni, appartiene al novero della musica di intrattenimento ad uso della piccola nobiltà e della ricca borghesia viennese tra ’700 e ‘800. A differenza di altri compositori, Beethoven non scrisse molta musica d’occasione; nel periodo in questione furono pubblicate ed eseguite in serate conviviali, un gran numero di serenate, ma anche di cassazioni, divertimenti, ecc. Moltissima di questa musica è oggi poco conosciuta, se non dagli specialisti. A parte alcuni brani di Mozart (celebre la Piccola Serenata Notturna) entrati stabilmente in repertorio, la maggior parte sono composizioni gradevoli ma non memorabili.
La Serenata beethoveniana consta di cinque movimenti, con una Marcia che inizia e chiude il brano, ed è certamente godibile, anche se manca di quelle ardite idee musicali che rendono indimenticabile gran parte della sua musica. Vi si possono però già scorgere alcuni bagliori di quello che sarà il Beethoven successivo, come l'Andante quasi allegretto del movimento finale, che consta di variazioni su un tema che poi diventerà la canzone Sanft wie die Frühlingsonne; nella Marcia fa una prima apparizione anche la cellula motivica “breve-breve-breve-lunga” che Beethoven avrebbe poi utilizzato spesso nelle sue opere del "periodo medio", tra cui la più famosa è la Quinta Sinfonia.
I tre interpreti hanno poi proposto come secondo brano una “elettrizzante” Serenata in Do Maggiore op.10 di Ernő von Dohnányi, pianista, compositore, direttore d'orchestra e didatta ungherese vissuto tra il 1877 e il 1960.
Dohnányi fu una figura di spicco nella cultura musicale ungherese prima della Seconda guerra mondiale, e per decenni un pilastro della vita musicale a Budapest. Compose tra l’altro due notevoli sinfonie e numerosi concerti. Sebbene il suo stile fosse considerato alquanto conservatore, la musica di Dohnányi ha una sua originalità e i suoi lavori sono ora considerati ottimi esempi del tardo romanticismo.
Il compositore magiaro ha scritto moltissima musica da camera: quartetti, quintetti, sestetti, sonate per strumenti solisti (violino, violoncello) e anche molta musica pianistica. La Serenata per Trio d'Archi op. 10, fu composta nel 1902, quando l’autore aveva venticinque anni (circa l’età che aveva Beethoven quando scrisse la sua Serenata). Divisa in quattro movimenti pieni di eccitanti sorprese musicali, anche questa Serenata inizia con una Marcia vivace, poi subito introduce una melodia dal rustico gusto ungherese. Segue una Romanza tradizionale ma emozionante, in tempo lento; lo Scherzo del terzo movimento presenta tratti più moderni, con una complessa fuga e un trio che si ricongiungono nella ripresa.
Un tema malinconico fornisce poi la base per una serie di variazioni, mentre un altro movimento lento porta al Rondò conclusivo in cui si avverte l'influenza del trio di Beethoven. La Marcia iniziale riappare alla fine e chiude così la Serenata con una perfetta simmetria, proprio come fa il brano beethoveniano.