Conoscere l’opera di Arthur Penn significa conoscere meglio anche il cinema. Una retrospettiva di tredici film del regista americano, un esempio per le successive generazioni di cineasti con una particolare attenzione all’estetica, al linguaggio e alle tecniche, è stata presentata alla sedicesima edizione della Festa del Cinema di Roma 2021. Uno degli autori più amati e rappresentativi della storia cinematografica della fine degli anni ’50, che nel corso dei decenni, ha saputo portare sul grande schermo, in televisione e al teatro le contraddizioni della società contemporanea.
Intellettuale appassionato, Arthur Penn, classe ‘22, così acuto nel mettere in luce le ingiustizie del mondo, era capace di disinnescare e rendere trasparente, qualsiasi stile: quello del noir (Bersaglio di notte), quello del western (Furia selvaggia, Il piccolo grande uomo, Missouri), quello del gangster film (Gangster Story).
Già dal suo primo film, The left-handed gun (1958; Furia selvaggia ‒ Billy Kid) il suo tocco personale viene immediatamente amato dai critici dei Cahiers du cinéma (Rivista francese fondata nel 1951 da André Bazin, Jacques Doniol-Valcroze e Jean-Marie Lo Duca).
Passione e sentimento tra gli ingredienti principali del cinema di Penn, nonostante sia caratterizzato da tensione e spietata denuncia della società americana: convenzionalità, inettitudine e indifferenza.
Nei suoi lungometraggi, riesce a far emergere vicende profonde e drammatiche da un’angolazione particolare, che non è soltanto una mera descrizione ma una vera e propria critica.
Dopo cinque anni di assenza dal grande schermo, reduce dal grande successo di Piccolo grande uomo (Little Big Man), Arthur Penn ritorna nel 1975 dietro la macchina da presa con Bersaglio di notte (Night Moves). Una pellicola che racconta la storia dell’America di un preciso periodo storico (l’omicidio Kennedy e lo scandalo Watergate) che si trova in una posizione fragile e insicura, di inquietudini e paure. Il regista della New Hollywood (periodo di rinnovamento del cinema statunitense degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta), attraverso il “noir” fa il ritratto del protagonista, figura fragile, pessimista e perdente, descrivendo così il disfacimento culturale e sentimentale di un’intera popolazione. I personaggi sono gli elementi simbolici per descrivere incertezze e illusioni di un pretesto narrativo, che il sagace cineasta di Philadelphia esprime magistralmente attraverso gli attori e le immagini, divenendo così uno dei più importanti e innovativi di quei decenni.
Il protagonista, Harry Moseby, (Gene Hackman) è l'emblema cinematografico di una generazione di deboli e sconfitti, tipica di quell’epoca (gli anni ’70). Harry, giovane promessa del football, è un investigatore privato. Dopo la scoperta del tradimento della moglie (Susan Clark), di cui reagisce passivamente e con indifferenza, cerca di dare un senso alla sua vita e si butta totalmente sul nuovo incarico, ricevuto da una ex attrice: ritrovare la giovane figlia (Melanie Griffith) scappata di casa.
Privo di particolare talento, consapevole della sua debolezza del fallimento affettivo e professionale, Harry Moseby, incapace di reagire si scontra con un inevitabile destino e una serie di tragiche conseguenze. Harry è un personaggio in piena crisi di identità, che rispecchia quello degli States, da una parte il fallimento dello spettro del Vietnam e dall'altro lo scandalo tutto americano del Watergate e l'incertezza del dopo Nixon.
Gene Hackman è l'America del caos degli anni Settanta, vista dall’obiettivo di Penn che mescola settima arte e politica, analisi della società e diversi spunti cinematografici. Uno dei padri della New Hollywood, torna così a raccontare la storia dell’America attraverso i suoi personaggi di ineccepibile bravura e interpretazione da Gene Hackman a quella dei due giovanissimi interpreti, James Woods e la debuttante Melanie Griffith che sembrano da sempre abituati ai riflettori.