Il destino è quell’insieme complesso di condizioni, di storie e di desideri che si incrociano e si intrecciano determinando una singolarità, una persona. È costituito dai legami che creiamo e sviluppiamo liberamente. Per questo la libertà non consiste nella scelta tra il dominio (di sé, degli altri e del destino) mediante la forza e la sottomissione, la debolezza. La libertà, conciliata con il destino, ci installa in una dimensione di fragilità. Questa fragilità non è né una forza né una debolezza, ma rappresenta una molteplicità complessa e contradditoria da assumere nel suo insieme. Entrare nella fragilità significa vivere in un rapporto di interdipendenza, in una rete di legami con altri. Legami che non devono essere visti come fallimenti o successi, ma come possibilità di una vita condivisa. (…) I legami non sono i limiti dell’io, ma ciò che conferisce potenza alla mia libertà e al mio essere. La mia libertà, dunque, non è ciò che finisce laddove comincia quella dell’altro, ma anzi comincia dalla liberazione dell’altro, attraverso l’altro. In questo senso si potrebbe dire che la libertà individuale non esiste: esistono soltanto atti di liberazione che ci connettono agli altri.
(Miguel Benasayag, Gérard Schmit, L’epoca delle passioni tristi)
Aristotele ci ricorda che lo schiavo è colui che non ha legami, che è e rimane un individuo singolo e di cui si può, pertanto, disporre a piacimento; l’uomo libero è colui che ha invece obblighi verso gli altri, verso il luogo in cui vive, verso la sua città. L’uomo libero sente di essere parte di una rete di legami e si mette a disposizione affinché questi legami possano generare socialità e senso di comunità. Una prospettiva inversa rispetto alla nostra idea contemporanea di libertà.
Come ci invitano a riflettere Miguel Benasayag e Gérard Schmit:
‘Lavorare per l’autonomia delle persone’: questo potrebbe essere il motto dell’attuale ideologia dominante nell’ambito del lavoro terapeutico e medico-sociale. Cercare di ‘aiutare le persone a diventare autonome’: nessuno vi trova niente da ridire, anzi. In una società in cui i legami sono vissuti come costrizioni o come contratti, l’essere autonomi è percepito come una qualità sociale altamente desiderabile.
(Miguel Benasayag, Gérard Schmit, L’epoca delle passioni tristi)
La nostra libertà finisce dove inizia quella dell’altro
“La nostra libertà finisce dove inizia quella dell’altro” è un principio che consideriamo essenziale per il rispetto di sé e dell’altro, e che mettiamo a fondamento della nostra convivenza civile. Eppure, il presupposto che porta con sé è quello di possedere sfere di autonomia che preesistono all’altro, e che pretendiamo vengano riconosciute e rispettate, così come, ugualmente, siamo chiamati a fare noi. Siamo quindi individui separati, che spesso però si sfiorano, rischiando a volte di scontrarsi e di confliggere. I regolamenti, le leggi, i contratti sono gli strumenti principe per garantire il buon funzionamento del sistema e regolarne le modalità.
In questa prospettiva, il termine più corretto da utilizzare è proprio ‘individuo’, parola che sottolinea la separazione di un essere umano dagli altri: la sua libertà e autonomia, la sua indipendenza dai legami che potrebbero limitarlo. Ma questa parola sottolinea anche la sua possibile sofferenza, la sua ansia, la sua rincorsa al dominio sulla propria vita, sulla vita degli altri. O, in alternativa, il suo desiderio di sottomissione, di uniformità.
Tuttavia, se vogliamo cambiare approccio paradigmatico, culturale, è solo con l’altro, nella relazione con l’altro, che possono emergere nuove possibilità.
Vincoli e possibilità dell’interdipendenza
Noi siamo sempre interdipendenti, non potremmo vivere se non fossimo perennemente in connessione e in interazione uno con l’altro. L’interdipendenza porta, è vero, dei vincoli, ma porta anche delle possibilità. Ogni vincolo è un innesco per evolvere, per cambiare strategia, per tentare nuove strade. Ogni vincolo genera nuove possibilità, in un gioco circolare. È per questo che l’interdipendenza può diventare generativa: solo con dei vincoli noi possiamo generare; senza vincoli, vi sarebbe una situazione senza confini, ovvero non vi sarebbe più neanche una situazione. La complessità porta a creare nuovi sistemi multidimensionali, che si generano proprio grazie ai vincoli che consentono nuove possibilità, nuove situazioni che si manifestano e di cui siamo parte costitutiva. È un processo generativo quel processo che ci permette di comprendere, e di apprezzare, che in una relazione è emerso qualcosa di nuovo che non apparteneva prima a nessuno degli elementi della relazione stessa. L’esempio più semplice, ma anche il più complesso, della generatività è l’amore tra le persone, che trascende ciascuno consentendo di accedere a qualcosa che è oltre sé stessi.
Da individuo a persona
Ogni relazione, ogni legame, ha delle sue specificità, ed è l’innesco necessario perché vi siano nuove possibilità, nuove idee. Occorre avere ogni volta la capacità di relazionarsi nello specifico, e il comportamento cambia al cambiare della situazione relazionale che si viene a definire.
Così, non ha più senso parlare di individuo, slegato dagli altri e dal contesto in cui vive: il termine corretto diviene ‘persona’. Etimologicamente, persona significa ‘maschera’, ovvero molteplici volti che ognuno di noi ha, e può avere, nella molteplicità delle relazioni e delle situazioni che vive. Persona è un concetto intersoggettivo: una persona non può sentirsi, né considerarsi, separatamente dagli altri. Questo è il destino di cui parlano Benasayag e Schmit: non una fatalità, quanto un tessuto di legami e di condizioni intrecciati tra loro, che determinano le diverse situazioni che viviamo durante la nostra vita, e a cui prendiamo parte come in un gioco di specchi che rimandano a noi, e che siamo chiamati ad affrontare responsabilmente. La persona diviene così una singolarità: nulla di scontato e di predefinito a priori, ma una trasformazione continua di sé grazie alla relazione.
La relazione al centro
Se le relazioni, i legami, sono costitutivi della persona e se ‘persona’ è un concetto intersoggettivo e non più individuale, la vera questione che si pone è se vogliamo continuare a rimanere concentrati sulla singola persona, o sulla singola organizzazione di cui si è parte, o se siamo pronti a cambiare la nostra prospettiva, ponendo il focus sulla centralità della relazione anziché sulla centralità della persona.
Fino a quando continueremo a mettere “la persona al centro”, seguiteremo a considerarla separata dal contesto relazionale di cui è parte. È necessario fare un passaggio essenziale: incominciare ad andare oltre la propria persona o la propria organizzazione e riconoscere che il centro delle nostre potenzialità sta nel modo in cui ognuno di noi è in grado di comprendere e gestire in maniera efficace le relazioni di cui è parte costitutiva. Una consapevolezza situazionale, di contesto, non può che passare dall’accettare e dal dare valore ai legami di interdipendenza come forieri di possibilità.