La Basilicata è terra di contraddizione, di conflitti di interesse spesso individuali e a scapito della collettività che nel corso della storia hanno posto il territorio in secondo piano, sottraendo gran parte del suo valore.
Per fortuna è la bellezza ad avere l’ultima parola e da giovane lucana sono particolarmente fiera dell’opera di rivalorizzazione che le nuove generazioni stanno portando avanti in questa preziosa regione.
Si sta finalmente schiudendo il guscio di perle a lungo nascoste sotto un manto di pregiudizi e preconcetti.
Si pensi al paradosso dell’ormai ben nota città di Matera, che per l’arretratezza delle condizioni di vita di un passato non troppo remoto – denunciata anche da Carlo Levi nel romanzo Cristo si è fermato ad Eboli (1945) – fu definita dallo Stato italiano una «vergogna nazionale»; per poi essere insignita, nel 2019, del titolo di Capitale Europea della Cultura, di cui i “Sassi”, le misere abitazioni contadine di un tempo, rappresentano l’emblema della preziosità del luogo.
Proprio nella provincia materana e immerso nel paesaggio dei calanchi, sorge un suggestivo “villaggio fantasma”, abbandonato dai suoi abitanti e oggi ripopolato da turisti provenienti da ogni dove, curiosi di visitare uno spazio senza tempo, in cui le lancette dell’orologio della storia si sono fermate agli anni Settanta del Novecento.
Il suo nome è Craco e le sue origini sono molto antiche. Con molta probabilità vi erano insediamenti umani già nel VIII secolo a.C. Fu poi durante il fiorente regno di Federico II di Svevia che Craco acquisì la sua conformazione di villaggio arroccato sulle pendici di un colle, assumendo una posizione strategica dal punto di vista militare – come testimonia il torrione che lo sormonta – e divenne un centro culturale di notevole prestigio ospitando persino un’università. Nel tardo medioevo l’economia del paese era florida e interamente fondata sulla coltivazione del grano nei terreni dei latifondisti; non a caso il termine Graculum farebbe riferimento ad un ‘campo arato di piccole dimensioni’. Di qui la presenza di numerosi palazzi nobiliari appartenenti all’aristocrazia feudale dell’epoca; tra questi degno di nota è Palazzo Grossi in cui è ancora possibile apprezzare pareti affrescate con motivi floreali.
Com’è possibile che una realtà così prospera sia finita per così lungo tempo nei meandri dell’oblio?
Correva l’anno 1963 quando una catastrofe naturale sconvolse il destino del villaggio e dei suoi abitanti: una terribile frana portò al cedimento di svariate abitazioni e nel giro di soli undici anni l’intera popolazione fu costretta a sfollare il paese, abbandonando le proprie case e rinunciando a progetti e sogni. La geologia del luogo, un terreno argilloso attraversato da acque sotterranee, era alquanto fragile. A ciò si aggiunse la negligenza dell’azione umana, con lo scavo di cisterne e pozzi che indebolirono ulteriormente il suolo e con l’adozione di misure di contenimento assai superficiali.
Dopo l’evacuazione fu solo negli anni Duemila che venne riscoperto e rivalutato il potenziale della cittadina di Craco, che era stata a più riprese vittima di saccheggi e atti vandalici. È curioso pensare che un villaggio dimenticato dalle autorità locali sia potuto diventare il luogo d’elezione di registi di fama internazionale per potervi girare scene significative delle loro pellicole. Non si può non menzionare The Passion of the Christ (2004) diretto da Mel Gibson.
Ad oggi le strutture sono sottoposte a manutenzioni e restaurazioni periodiche e sono possibili visite guidate con caschetti protettivi, per godere in tutta sicurezza di un’esperienza di commovente desolazione.