I ricordi comandano, sempre. Possono restare in quiescenza per anni, possono dare l'illusione di aver mollato la presa, ed è proprio allora che riemergono, prepotenti e beffardi, reclamando attenzione finché non la ottengono.
Scorrendo le stories di un'amica giornalista, ad esempio, mi è capitato di scoprire nuovamente sulla scena un personaggio che ormai credevo del tutto dimenticato: Fiona Apple, cantautrice dal timbro e dalla presenza inconfondibili, dopo otto anni di quasi silenzio nel 2020 ha pubblicato il suo quinto album, talmente apprezzato dalla critica da fruttarle il Grammy.
Vent'anni prima invece la Apple, con l'uscita della sua seconda fatica discografica, oltre a entrare nel Guinness dei primati per il più lungo titolo di album e consacrarsi definitivamente, aveva usato un set d'eccezione per le riprese di un suo video: Paper bag era interamente ambientato in una sontuosa caffetteria anni Trenta, uno spazio dall'atmosfera sospesa fra il modernista e l'etnico, le cui notevoli dimensioni lasciavano intuire la collocazione in un grande terminal ferroviario.
All'epoca mi sarebbe piaciuto tanto sapere qualcosa di più di quel sontuoso locale, ma le fonti latitavano e ogni volta che rivedevo quel videoclip su YouTube era forte il disappunto per non essere in grado di risolvere il mistero; in realtà era solo questione di tempo, infatti due anni fa, mentre stavo facendo ricerche su tutt'altro, mi riapparve davanti quel salone, fresco di restauri e, stavolta, pronto a raccontarmi la sua storia e con essa farmene conoscere altre due: l'epopea della Fred Harvey Company e la carriera di Mary Colter.
La seconda metà dell'Ottocento aveva visto anche negli Stati Uniti il boom delle ferrovie, il cui sviluppo aveva inseguito i coloni nella corsa verso l'ovest; si era nel pieno dell'età del vapore e, ogni tot chilometri, le locomotive necessitavano di un rifornimento d'acqua, ma i punti di sosta si trovavano in mezzo al nulla, anzi erano essi stessi a costituire spesso il primo nucleo di nuovi insediamenti. Si poneva quindi il problema di sfamare sia il personale delle ferrovie sia i viaggiatori: è in questo frangente che Frederick Henry Harvey (1835-1901), imprenditore nel ramo alimentare, riuscì a farsi finanziare l'attivazione di una rete di punti ristoro dalla Atchison, Topeka & Santa Fe Railway, società ferroviaria che gestiva tutta la rete del Sud-Ovest. Era il debutto della Fred Harvey Company, prima catena ristorativo-ricettiva fondata negli USA, che al momento della morte del fondatore poteva annoverare ben 47 ristoranti, 15 alberghi e 30 vetture-ristorante.
Le cosiddette Harvey House divennero presto sinonimo di ottimo menù, buone condizioni di lavoro e soprattutto “Harvey Girls”: il patron infatti, che meritatamente fu definito “civilizzatore del West”, per garantire alla clientela un servizio all'insegna della cortesia volle assoldare personale di sala solo femminile, tempestando di annunci economici i quotidiani del Midwest; il risultato fu un piccolo terremoto sociale che vide territori aspri, fino a poco tempo prima associati alla rude mitologia della frontiera, di colpo invasi da circa 5000 donne giovani e “di bella presenza” alle quali era stato dato un valido pretesto per andare a vivere fuori casa senza vedere la propria onorabilità messa in dubbio, stante il rigidissimo protocollo che per loro prevedeva, tra le altre cose, il coprifuoco alle 22.00. Stiamo pur sempre parlando della fine dell'Ottocento.
“Harvey House” però voleva dire donne non solo a servire ma anche a dirigere: dal 1910 al 1948 infatti a capo dell'ufficio progetti operò ininterrottamente Mary Elizabeth Jane Colter (1869-1958), forse la prima architetta statunitense di cui si abbia memoria, la quale, grazie agli innumerevoli incarichi di cui era investita (la catena raggiunse il picco di 84 punti ristoro disseminati fra Chicago e Los Angeles), ebbe modo di elaborare un personalissimo percorso professionale basato sulla progressiva assimilazione e rielaborazione delle culture native, del retaggio ispanico e di tutti quegli spunti che ogni luogo ha da suggerire, di volta in volta, a chi sia disposto a mettersi in ascolto.
È a Mary Colter che si deve, tra i 21 progetti per la compagnia a lei direttamente accreditati, quella che forse è l'ultima grande Harvey House realizzata presso una stazione ferroviaria: il lounge restaurant della Union Station di Los Angeles inaugurato nel 1939. Ecco finalmente svelato il mistero: la maestosa aula “Mission Revival” in cui i motivi delle coperte navajo emergono dai pavimenti mentre i pendagli delle squaw diventano lampadari è proprio quel sontuoso locale che mi aveva affascinato vent’anni fa.
Dopo aver regalato un po' di conforto alle migliaia di soldati in transito durante la guerra, questo ristorante ha accompagnato il crepuscolo del trasporto passeggeri ferroviario, chiudendo infine nel 1967, appena un anno prima della cessione di quel che restava della Harvey Company alla concorrente Amfac, ma restando fortunosamente preservato fino ai giorni nostri: fra un rinfresco di matrimonio e un tour per architetti, di tanto in tanto si è anche concesso qualche cameo cinematografico, come in The Island nel 2005.
A dire il vero, un po’ tutta la stazione, seppure iscritta al registro dei beni monumentali nazionali, era vissuta dalla comunità locale esclusivamente come luogo di transito; dal 2011 però, la Los Angeles County Metropolitan Transportation Authority, meglio nota come Metro, in qualità di ente proprietario dell’immobile, ne ha avviato il processo di valorizzazione, onde presentarsi nel miglior modo possibile all’appuntamento dell’ottantesimo dell’inaugurazione nel 2019. Tale operazione non poteva certo escludere l’Harvey Restaurant che, ottenuto in concessione dalla Pouring with Heart, società specializzata nel recupero di locali d’epoca abbandonati, nel 2018 ha finalmente riaperto i battenti come birreria e oyster bar col nome “Imperial Western” in omaggio a una storica locomotiva: a questo punto non resta che farci un salto di persona, magari in occasione di un concerto di Fiona Apple.