Mi trovo nel soggiorno di casa. Davanti alla mia libreria personale. Come mi capita non di rado nel corso della giornata osservo in silenzio i libri allineati in verticale sugli scaffali. Ci sono anche libri impilati in orizzontale, sopra i libri disposti in verticale. I tascabili messi in verticale essendo quasi tutti della Sperling&Kupfer o degli Oscar Mondadori arrivano alla stessa altezza, pertanto i volumi inseriti negli scaffali in orizzontale si appoggiano ordinatamente sulle superficie costituita dai libri messi in verticale. Coprono tutto lo spazio disponibile dando l’impressione di ordine sì, ma dando anche l’impressione di esplodere dalle scaffalature. A volte mi chiedo se non dovrei metterli tutti quanti in orizzontale, anziché in verticale. Se in questo modo non farei una migliore economia degli spazi. Mi domando quando comincerò la doppia fila rendendomi conto che per me questo è un pensiero quasi sacrilego. Non potrei mai coprire un libro con un altro libro. Che senso avrebbe?
Io voglio poterli vedere, i miei libri. Voglio averli sottocchio, continuamente. Sono così in amore con i miei libri da arrivare a perdermi, molto più spesso di quanto creda, in questi pensieri. Poi, mentre vago con la mente su queste questioni, sento qualcosa. Un vocio. Come una risata di voci bianche, molto veloce, che mi solletica la pelle facendola rizzare leggermente. Getto un’occhiata al mosaico sul pavimento sotto i miei piedi e mi accorgo che sta cambiando configurazione ogni momento. Mi dà quasi l’idea che sia il pavimento di una saletta da discoteca se non fosse per il fatto che la stanza è luminosa e non ci sono luci stroboscopiche appese al soffitto. No. Non è per un gioco di luci e ombre che il mosaico sul pavimento cambia configurazione ogni momento assumendo le forme più fantasiose. È un’allucinazione, un’allucinazione bella e buona; e non è nemmeno tutto, anzi è solo l’inizio.
Un libro di quelli messi di costa in verticale si sfila lentamente dagli altri. Ci mette un po’, perché i volumi sono pressati per bene uno contro l’altro, ma alla fine pochi millimetri alla volta il libro esce dalla fila e casca in orizzontale sul piano liscio dello scaffale. Si tratta di un voluminoso tascabile della Bompiani (uno dei pochi essendo quasi tutti gli altri, come ho detto, della Sperling&Kupfer o degli Oscar Mondadori) in un’edizione che forse adesso non circola nemmeno più se non nelle bancarelle dei remainders: Exodus di Leon Uris. Sulla copertina sta scritto come sottotitolo “L’epica saga del popolo ebreo”. Ho ancora sulle labbra il sapore dolceamaro del finale di questo splendido libro: un vero colpo da maestro da parte di Leon Uris. Karen viene uccisa in un’imboscata dagli arabi poco prima della proclamazione dello Stato d’Israele. Un finale che lascia l’amaro in bocca perché Karen al pari di Kitty e di Giordana è un personaggio indimenticabile all’interno della grande epopea narrata da Uris. Ho persino il sospetto che a Karen sia stata tolta la vita in un’imboscata organizzata da Dov, il fidanzato, il quale avendo ricevuto il rifiuto da parte di Karen di seguirlo negli Stati Uniti abbandonando i kibbutz di Gerusalemme per permettere a lui di lavorare all’Istituto Tecnologico del Massachussets e non potendo il giovane sopportare l’idea di stare lontano dalla sua amata per due anni (e in due anni tutto può cambiare nonostante le promesse)… ebbene, il mio sospetto, anche se nel romanzo non vi è nulla che lo lasci supporre, è che Dov, uomo barbaro e selvaggio da pochissimo tempo imborghesitosi, abbia riscoperto il lato sopito della sua personalità e pur di non venire a patti con l’idea di perdere Karen, l’abbia fatta uccidere.
Fatto questo pensiero, il volume di ottocento e passa pagine di Leon Uris si stacca dallo scaffale e mi colpisce la fronte. È uno sbalzo improvviso, mai avrei potuto aspettarmelo. Forse è stato a causa di uno smottamento del terreno. Una piccola scossa di terremoto. Capita, a volte, dalle mie parti. Barcollando compio due passi indietro portandomi una mano alla fronte. Il libro non è a terra. Sta svolazzando per la sala. Utilizza le pagine come ali muovendole su e giù come un uccello, ma tendendole anche aperte a ventaglio, facendole scorrere e avvalendosi così dei piccoli spostamenti d’aria per muoversi meglio. Anche altri libri si staccano dagli scaffali.
Mentre sto ancora scuotendo la testa stordito per il colpo ricevuto, Una storia di amore e di tenebra di Amos Oz si stacca dalla seconda libreria in sala (quella in legno massello, dall’aspetto più maestoso, dove tengo i libri meno commerciali) e a seguire La tamburina di John Le Carré. I due libri planano verso Exodus e paiono affrontarsi sbattendo le pagine e beccandosi come corvacci. Sono nelle condizioni di vedere bene cosa accade. Il tascabile di Amos Oz e l’edizione rilegata di John Le Carré fronteggiano l’edizione in brossura di Leon Uris. Sembrano alleati e la lotta sembra impari. Infatti, i due libri sono anch’essi voluminosi senza contare che quello di Le Carré è cartonato. Tuttavia, il volume di Leon Uris vira improvviso verso quello di Amos Oz allargando in modo inverosimile l’apertura delle sue pagine. Per un istante riesco anche a scorgere sul bordo delle pagine delle sporgenze acuminate. Denti. Quelli che vedo sono denti.
È un istante, ma giurerei su questa immagine. Il volume di Leon Uris si tramuta per un istante o poco più in un’enorme bocca. Exodus spalanca le fauci e si mangia Una storia di amore e di tenebra di Amos Oz. Lo fa fuori in un boccone. Quando Exodus si richiude, casca di colpo a terra. Io lo osservo con una O di stupore disegnata sul viso.
Sono totalmente incredulo. Non posso credere a ciò che ho appena visto: libri volanti che si mangiano uno con l’altro. Exodus sul pavimento si sta ancora muovendo. Si creano delle sporgenze, come dei bozzi, sulla copertina e la costa. Il libro si gonfia e si restringe ed emette anche dei piccoli grugniti di soddisfazione… Sono quei grugniti più del resto a farmi capire. Il libro sta masticando. Sta masticando Una storia di amore e di tenebra del povero Amos Oz e probabilmente sta anche cercando di digerirlo. A pasto finito Exodus emette anche un ruttino. Dopodiché, il capolavoro di Leon Uris deve vedersela con La tamburina di John Le Carré.
Il libro di Le Carré atterra sul pavimento (appavimenta?!) della sala di casa mia e con una velocità innaturale striscia verso quello di Leon Uris. È atterrato con le pagine sul davanti e il titolo di costa dietro e mentre striscia velocissimamente alza e abbassa le pagine, aprendole come le labbra di una grande bocca: sembra uno di quei giocattoli a molla di una volta tipo i denti chiacchierini. Le fauci del libro di Le Carré sono grosse e acuminate, anche se sembrano arabescate dalle carie. In realtà, le macchie nere sui denti non sono carie né tartaro: sono parole e i denti, per quanto aguzzi e taglienti, sono fatti di carta. La tamburina e Exodus si affrontano ed essendo La tamburina in un’edizione più voluminosa Exodus sembra avere i minuti contati, tanto più che Le Carré è Le Carré e ci sono poche cose a questo mondo sicure, ma una di queste è senz’altro che con Le Carré non si può realmente competere o avere la meglio. Non in uno scontro diretto, almeno.
Ma c’è una novità. Exodus mangiando Una storia di amore e di tenebra si è ingrandito. Adesso non ha più le dimensioni di un tascabile. Si è ingrandito; e più della grandezza di un libro rilegato. È grande quanto un albo di fotografie – almeno quelle che si usavano fino a prima della rivoluzione del digitale. Così quando La tamburina si presenta all’appello, Exodus spalanca le fauci di carta punteggiate di parole e si muove in modo altrettanto veloce e innaturale in direzione dell’avversario in pratica pappandoselo all’istante. Il libro di Le Carré, insomma, lanciato nella sua folle corsa, non riesce a frenarsi finendo dritto nelle fauci del libro-mostro e scomparendo nel suo enorme ventre narrativo. Mentre Exodus mastica il suo nuovo pasto e s’ingrandisce ulteriormente, mi chiedo che cosa accadrà adesso. Quel libro gigante andrà in giro per casa a cibarsi del resto dei miei libri? Mangerà tavoli e sedie? In fondo, essendo fatto di cellulosa, potrebbe trovare appetitosi il legno succulento di oggetti come sedie e tavolini…
Ora Exodus sembra molto più grosso di un albo di fotografie. Non è più un libro. È un baule. Un baule di ottocento e passa pagine. Certo, il numero di pagine è lo stesso perché le parole di quel libro contenevano già al loro interno i libri di Amos Oz e di John Le Carré. Non ha avuto bisogno Exodus di altre parole e di sicuro non le ha trovate in quei due esemplari, per quanto pregevoli.
Poi, sotto il mio sguardo sempre più stupefatto, accade altro. Da uno degli scaffali rotola a terra un volume della Bibbia. È una Bibbia tascabile che ho tenuto per qualche tempo sul comodino. Non è né un’edizione pregiata né un’edizione particolarmente vistosa. L’ho comprata per due euro in una rivendita di libri usati e in pratica ho dovuto leggerla con la lente d’ingrandimento per quanto piccoli sono i caratteri. Esattamente come gli altri due libri in precedenza, il volume tascabile della Bibbia si avvicina a Exodus di Leon Uris. Non si muove velocissimamente e il suo modo di strisciare sul pavimento è leggero e quasi aggraziato. Non mi fa accapponare la pelle come è successo poco fa, benché ormai non riesca più a cancellarmi il disegno della O di stupore dalla faccia. Poco per volta la Bibbia si avvicina al mega-libro di Leon Uris e quando è lì a poche decine di centimetri… Exodus di Leon Uris le si avventa addosso e se la spazzola in un batter d’occhio. Io non ho mai visto in vita mia un libro mangiarsi un altro libro (se non in qualche film fantasy, del quale peraltro non ho il benché minimo ricordo), ma anche se non c’è spargimento di sangue né niente, la scena di quell’enorme bocca che prima si spalanca e poi si richiude su un altro tascabile a velocità supersonica mi sconvolge. Il Libro di Dio spazzato via in un istante. Mi aggrappo al bordo di una scrivania per non crollare a terra. Ho le vertigini. Non posso crederci. La parola di Mosé, la parola dei Profeti… Sento la fronte pulsare dolorosamente. Il colpo che ho dianzi subito fa ancora male.
Mentre osservo il libro-mostro impegnato nell’opera di digestione della Bibbia, emettendo nel mentre rantoli di godimento e ruttini, ed osservandolo ingrossarsi ancora, noto all’improvviso succedere qualcos’altro, qualcosa che a questo punto non mi sarei mai aspettato. Il libro pare accartocciarsi su sé stesso. Sembra che una mano invisibile lo voglia piegare riducendolo a un cilindretto come si farebbe con una rivista qualsiasi. I rantoli di godimento sembrano trasformarsi ora in grida di sofferenza. Poi, il libro si ferma di colpo. Rimane immobile per qualche momento, ma sembra non avere più vita. Sembra morto. Fino a quando la copertina comincia a sbiadire e a cambiare colore e le lettere del titolo e del sottotitolo si scambiano di posto dando vita a nuove parole oppure sparendo all’interno del libro come risucchiate e venendo sostituite da altre.
L’immagine sul dorso si scolora via via e prima si scompone (il popolo urlante degli immigrati si disgrega ogni componente con in braccio armi, forconi, coltelli allontanandosi uno dall’altro; la nave sembra salpare, navigando sempre più lontana, sempre di più, fino a tramutarsi in un punticino e poi più nulla), poi svanisce. Nel frattempo, nuovi colori riempiono la copertina e nuove scritte. Una nuova copertina. La copertina della Bibbia in edizione tascabile. Proprio lei, sissignori. Sembrava essere stata inghiottita ed invece, evidentemente, è stata la Bibbia alla fine, come Giona nel ventre della balena, a divorare dall’interno Exodus di Leon Uris. Del resto, la Bibbia non fa sempre così con tutti i libri? Ogni volta che ti sembra di avere per le mani il nuovo vangelo scritto dal nuovo messia, presto o tardi ti rendi conto che quello che hai per le mani altri non è, a ben guardare, se non la cara vecchia Bibbia. Ogni libro degno di questo nome, in fin dei conti, è la Bibbia. Ogni libro.
Forse per questo dopo un po’ che è ferma immobile sul mio pavimento, grande quanto una maxi-valigia da viaggio, la Bibbia risputa misericordiosamente sia Exodus di Leon Uris che La tamburina di John Le Carré che Una storia di amore e di tenebra di Amos Oz. Solleva la copertina e trecento pagine all’incirca e da una siffatta bocca saltano fuori i libri come se un folletto dall’interno li lanciasse fuori. I tre libri finiscono sul pavimento in perfette condizioni, come nuovi. Dopodiché la Bibbia si rimpicciolisce progressivamente tornando alle dimensioni alle quali l’ho acquistata per pochi spicci in una bancarella permettendomi di raccoglierla assieme agli altri tre libri e di riporli nella mia libreria di casa.
Esausto per tutte queste emozioni mi siedo sulla poltrona sistemata davanti alla portafinestra della sala e afferro macchinalmente un libro dalla libreria alla mia destra. Forse non dovrei, ma è un’abitudine talmente inveterata da non riuscire a frenarmi. Apro il libro e subito un braccio salta fuori dalle pagine aperte. Una mano mi artiglia la gola. La stretta è ferrea e mi farà perdere i sensi in fretta se non faccio subito qualcosa. Il braccio è uscito fuori dal libro fino al gomito. L’avambraccio è senza peli e guizza di fasci muscolari.
È leggermente sporco di fango e terriccio. Allontano da me il libro tenendolo con entrambe le mani. In realtà, è una mossa poco astuta. Il braccio esce fuori ancora di più mostrando bicipiti e deltoidi molto sviluppati e con le vene in evidenza per lo sforzo impiegato nel cercare di strangolarmi. Per un po’ lotto con il braccio, inarcando la schiena e cercando invano di sottrarmi a quella presa ferrea. Emetto anche rantoli di dolore e smorfie di disperazione mi attraversano il volto disegnandomi sulla faccia una sorta di parodia di sorriso. “Isss! Uz! Iiiirck!” gemo. Poi mi ricordo che cosa bisogna fare in questi casi, quando leggo un libro di Sandokan o uno di Tarzan e rischio di venire strozzato da una liana o colpito a morte dalla lancia di una tribù indigena nel cuore della Malesia e chiudo di colpo il libro. Il braccio si ritira velocissimamente e io tra rantoli e colpi di tosse mi massaggio le parti lese cercando di riprendere fiato. Non appena sto meglio, guardo di che libro si tratta.
È un libro della saga di Conan di Robert E. Howard. Da non crederci… Quello stronzo di un guerriero barbaro doveva avermi scambiato per un nemico da abbattere… Ah, una cosa è certa. Leggere per me sta diventando ogni giorno che passa un’attività sempre più rischiosa! Un giorno aprirò un vecchio romanzo western di Louis L’Amour o di Elmore Leonard e una freccia mi infilzerà il cranio come uno spiedo inchiodandolo alla poltrona. Mi troveranno con una freccia degli indiani piantata sulla fronte e tutti si domanderanno come sia stato possibile.
Se non smetto di leggere, tuttavia, è perché non ci sono solo cose spiacevoli che possono capitare leggendo. Ad esempio, stavo riguardando una fiaba letta da piccino su un ragazzetto a cui vengono regalati un paio di pantaloni magici. Ogni volta che il ragazzo mette la mano in tasca tira fuori monete, soldi. Sì, nella storia tira fuori monete da cento lire (le vecchie lire prima dell’euro) e il lettore può scegliere tre finali, uno dei quali prevede che l’eroe della storia possa cavarsi di tasca mazzette da un milione di vecchie lire alla volta. Di solito, quando leggevo questa storia, questo era il finale che sceglievo. Ebbene, stavo rileggendo questa fiaba (giacché come ho raccontato sono dedito ai piaceri della rilettura) quando dal libro hanno cominciato a sprizzare fuori soldi come da una fontana: monete, banconote, un carnevale di denari. Con il solo problema che fossero lire e non euro. Ma immagino che ci dovrà pur essere ancora una banca o un collezionista che accetti di fare il cambio…
A volte, mi capita di aprire un libro e sentire un buon profumo di rose levarsi dalle pagine, anzi, dalla storia che le pagine del libro raccontano. Stavo leggendo un Segretissimo di Stephen Gunn. A un certo punto è accaduta una di quelle cose che meriterebbe un capitolo a parte nel grande libro sulla bellezza di leggere e scrivere per essere raccontate e decantate: mi sono assopito. Una delle grandi ragioni per cui si legge un libro è arrivare a quello stato di torpore che ci consenta di scivolare nel sonno e se il libro è un buon libro la nostra fantasia sarà abbastanza stimolata da farci fare pure un bel sogno vivido, tutto da vivere e da ricordare.
Dunque, mentre leggevo il Segretissimo di Stephen Gunn, mi sono assopito. Ero seduto sulla poltrona in sala e nell’addormentarmi mi sono portato il tascabile che tenevo in mano sul basso ventre. A volte mi addormento tenendo il libro ancora aperto con entrambe le mani sulla pagina che sto leggendo, ma in questo caso il libro era chiuso e schiacciavo la copertina sul bassoventre. Ancora in stato di dormiveglia ho scorto un piccolo braccio di donna allungarsi dalla copertina e tirarmi giù la cerniera della patta. Il braccio della donna era liscio, burroso, ma era molto piccolo, come quello di una lillipuziana in una ipotetica versione sexy dei Viaggi di Gulliver di Jonathan Swift. Dopo avermi tirato giù la cerniera, quel piccolo braccio di donna, un braccio dalla circonferenza non più grande di quella di un mignolo e non molto più lungo di un’intera mano, mi si è messo a frugare dentro la patta. Mezzo intontito ho sollevato il romanzo di Stephen Gunn e ho guardato la donna nella copertina.
“Cosa vorresti fare?”.
“Lo sai”.
Mi sono messo a ridere. “Lascia perdere… Lascia perdere, davvero. Non credo riusciresti… Per via del braccio, capisci… è troppo…”.
La donna nella copertina, procace, e vestita ultrasexy è a questo punto arrossita e ha assunto un’aria stizzita ritirando il braccio e tornando immobile e silenziosa. Io ho fatto crollare le braccia e mi sono rimesso a sonnecchiare.
Ecco è per questo, per questo non smetto di leggere e scrivere.
Inoltre, se parliamo di libri che traghettano verso il mondo dei sogni, non possiamo non menzionare i libri che si leggono seduti sulla tavoletta del cesso. Le proprietà lassative di alcuni libri di narrativa o pagine di giornale sono innegabili e dimostrano che distrarsi leggendo un buon libro può, almeno in una circostanza specifica della giornata, servire a qualcosa.
Una volta stavo leggendo La Certosa di Parma di Stendhal ed ero alle prese con la superba descrizione che Stendhal fa in questo romanzo della Battaglia di Waterloo. Nulla di più appropriato. Era un periodo che mangiavo troppa carne, consumavo pochissime verdure e bevevo poca acqua e in bagno era un inferno. Così mentre davanti a me si dispiegava la Battaglia di Waterloo, sotto di me stava avendo luogo, invece, la più modesta Battaglia di Water. Scoppi di mortaio, assalti con le baionette, zolle di terreno sradicate dal terreno, nitrire di cavalli, urla di disperazione e il tutto accompagnato dai miei lamenti e dalle mie budella e dagli intestini che si contorcevano dagli spasmi nel cercare di espellere ciò che avevo poco saggiamente trangugiato in gran quantità nel corso dei due o tre giorni precedenti. Un po’ di sofferenza e lieto fine: andare in bagno assomiglia molto, in effetti, a un buon libro di narrativa.
Leggere può servire.
Leggere può servire. Anche se a volte può essere pericoloso. Sì, credetemi quando lo dico, leggere e scrivere può essere pericoloso. Molto pericoloso.
A parte tutto quello a cui abbiamo alluso nelle righe precedenti, ora più direttamente, pensiamo anche solo quando diciamo: “Questo libro mi ha cambiato la vita”. La nostra vita avrebbe potuto essere diversa e invece un libro, un semplice scartafaccio di diverse centinaia di pagine, ce l’ha cambiata. Non basta questo a far venire i brividi? Il fatto è che noi temiamo molto poco le cose di cui dovremmo avere realmente paura. Molto poco.
In The Terminal di Steven Spielberg c’è una scena da questo punto di vista parecchio interessante. Viktor Navorsky è a colloquio con il direttore dell’aeroporto che gli fa questa proposta: Viktor può ricevere il visto per gli Stati Uniti se firmerà una dichiarazione dove afferma di avere paura del suo Paese di provenienza – dove peraltro è in corso una sanguinosissima guerra. E che cosa fa Viktor? Rifiuta la proposta. Certo. Per senso patriottico. Perché non firmerebbe mai una carta dove afferma di avere paura del Paese dove è nato e cresciuto. E poi dice Viktor: “Io ha paura Dracula. Ha paura Uomo Lupo. Di questo ha paura. Ma non ha paura Mio Paese. No… Ha paura Squalo! Quello ha paura!”. Insomma, cosa fa Viktor? Elenca di che cosa ha paura… e sono tutte paure irrazionali, stupide.
Noi ci terrorizziamo se al cinema vediamo un mostro obbrobrioso saltare fuori da una stanza buia e mangiarsi una cheerleader. Saltiamo sulla sedia. Ci spaventiamo. Dormiamo con la luce accesa per giorni e magari non tocchiamo cibo per settimane. Ma… ma difronte a un dramma vero non abbiamo la stessa reazione. Al termine di un film di guerra siamo scossi, sì, ma non dormiamo con la luce accesa per paura che dall’armadio esca un marine armato fino ai denti e che cominci a sparare su tutto. No, dall’armadio ci aspettiamo esca il babau o ci aspettiamo di sentire la voce sibilante di un fantasma. In tutto questo, c’è qualcosa di semplicemente assurdo.
Abbiamo paura dell’invisibile e dell’irrazionale e siamo insensibili o quantomeno non proviamo lo stesso tipo di paura (quella che ti fa battere forte il cuore nel petto, che ti inzuppa i vestiti da notte di sudore, che ti fa svegliare di soprassalto con un urlo strozzato in gola) difronte a ciò che possiamo vedere, fronteggiare. Diciamo mille volte che siamo una società insensibile – nei temi a scuola era il mio pezzo forte e con quella roba mi ci guadagnavo anche dei bei voti.
Ma se siamo così insensibili difronte ai bollettini dei telegiornali, perché saltiamo sulla sedia al cinema difronte a un film dove un cadavere si solleva dalla tomba e va in giro a fare a pezzi studenti e studentesse? Quando mai si è vista una scemenza più stupida? Vuol dire che tanto insensibili non siamo. Vuol dire che una qualche forma di sensibilità ancora l’abbiamo nonostante tutto quello che andiamo predicando in proposito.
“Questo libro ti cambierà la vita” e noi non vediamo alcun rischio in questo, alcun pericolo. Invece dovremmo. Dovremmo. Mentre ci spaventiamo per l’Uomo Lupo, Dracula e Godzilla, la guerra là fuori impazza sul serio e lascia sul campo vittime su vittime e ci prepara una vita d’inferno se non la fermeremo – e una guerra, qualsiasi guerra, figurata e non, non va vinta, va fermata.
Ci lasciamo distrarre. Distrarre dall’immaginazione. Il potere colpisce la nostra immaginazione attraverso sogni e incubi, promesse e minacce, concetti che hanno in comune tutti quanti di non esistere… semplicemente di non esserci. Il potere nutre l’immaginazione, la cosiddetta parte emotiva, non la razionalità, mai la razionalità. La razionalità è concreta. L’immaginazione è aleatoria, volatile, umbratile. Persino gli organi d’informazione hanno ormai abbracciato questo piano strategico di dominio delle menti. L’informazione non si occupa quasi più dei soli fatti, ma dei fatti piuttosto che dovranno avvenire. Gli approfondimenti, i commenti avvengono su eventi che devono ancora accadere o che sono in corso di svolgimento – anche perché parlarne crea pubblicità, che è la quintessenza del mondo idealizzato, dove si può usare immaginazione a gogò e nessuna razionalità vera. A volte questi annunci si risolvono in un nulla di fatto. Quindi ecco che gli organi d’informazione riescono, e ci riescono per davvero, a tradire la regola fondamentale del loro mandato: parlare di fatti, concentrarsi sui fatti.
Gli organi d’informazione parlano sempre meno di fatti. I padri del giornalismo tireranno ormai capocciate ai coperchi delle bare a ogni nuova trasmissione di approfondimento giornalistico o a ogni nuovo editoriale sulla carta stampata. Forse, non all’estero, ma qui in Italia sicuramente. Non bisogna, pertanto, lasciarsi distrarre. Leggere e scrivere, come tutto quello che facciamo, ha un prezzo molto più alto di quello che si legge in basso a sinistra sul retro di copertina, di fianco di solito al codice a barre. Molto, molto più alto.
Questo prezzo è il prezzo della conoscenza. È il prezzo dell’immaginazione. È il prezzo che si paga per capire. Perché questo accade quando leggiamo un libro, se facciamo attenzione a ciò che leggiamo, se usiamo gli occhi e le connessioni neurali nel nostro cervello; e questo loro lo sanno. La democrazia è un diluvio di prodotti di consumo per la stessa ragione per cui il New York Times è pieno di notizie e la Pravda, invece, al tempo dell’Ex Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche operava severe censure. Un diluvio di informazioni è una forma di censura. Quantomeno, ha gli stessi effetti di una censura e far finta che non sia così è un’espediente atto solo a mostrare ormai che c’è del marcio in Danimarca. In più, quelli che ci piovono addosso sono prodotti “di consumo”. I prodotti “di consumo” sono un po’ come la letteratura “di consumo”.
La letteratura “di consumo” ti dà emozioni facili, servendosi di parole difficili ma mai troppo difficili (basta un buon dizionario) o semplici ma mai troppo semplici e così è pure per le riflessioni o le rivelazioni contenute al suo interno. I romanzi “di consumo” hanno dorsi come gli altri libri e la forma rettangolare degli altri libri. Solo che non sono letteratura: ci assomigliano, forse, in alcuni casi sono più gustosi della letteratura vera, ti soddisfano di più, sono sazianti, ti affogano nel piacere… ma tutto quanto finisce in poco tempo ed eccoti alla ricerca spasmodica, con tanto di bava alla bocca, di qualche altro romanzo “di consumo” da far fuori in poche ore. Ecco, lo stesso è per i prodotti di consumo. Un panino take-way è un panino vero? Sì, ha l’aspetto, il sapore è anche migliore del sapore del panino della nonna, anche se sembra impossibile… ma è un panino vero? O è fatto apposta per essere consumato e desiderarne subito un altro? Chissenefrega di quello che c’è dentro, se è buono e non ti fa schiattare nel giro di tre ore? Se un panino bellissimo fosse fatto di polistirolo commestibile e avesse un sapore buonissimo, lo mangeremmo lo stesso? Probabilmente sì, con un’adeguata campagna promozionale; e tuttavia, che razza di valori nutrizionali ricaveremmo da un panino del genere? Ecco, il consumismo.
Questa serie di articoli che ho scritto è letteratura “di consumo”. Sono belli e tutto quanto, ma… sono “consumo”. Sono stati scritti con questo intento. Perché? Perché sta accadendo, in questi ultimi due anni, qualcosa di singolare. La letteratura “di consumo” per eccellenza ovverosia il giornalismo sta subendo una mutazione. Sta diventando qualcosa di diverso. Alle parole sempre di più vanno sostituendosi numeri. Ormai i giornali non sono altro che bollettini e gli articoli di fondo stessi sono sorretti da freddi dati, da numeri. Una volta se volevi scrivere un buon tema a scuola ti bastava leggere un articolo di fondo su La Stampa o sul Corriere della Sera. Magari su Tuttosport. Ma oggi ornare i discorsi è una pratica caduta in disuso. Ornare i discorsi suona falso. Ornare i discorsi suona “di consumo”. Numeri, rapidità, dire pane al pane e vino al vino, invece.
Ma il problema vero è che anche questo pensiero diffuso dà luogo a retorica, sta diventando retorica. Il problema vero è capire che un discorso ornato o scarno deve parlare e descrivere qualcosa di concreto e reale, avere a oggetto entità palpabili e non sogni, illusioni, disillusioni, incubi, minacce, promesse, previsioni, annunci; la verità di un discorso promana dal suo oggetto. La scelta del soggetto è la prima e fondamentale operazione da compiersi.
Se sbagli la scelta del soggetto puoi essere concreto quanto ti pare e dire pane al pane e vino al vino quanto vuoi. Sarà questione di mera retorica. Discorsi inutili. Vuoti. Ecco allora perché nei presenti scritti, oltre a un omaggio alla letteratura “di consumo”, si fa uso di uno stile ornato e per un certo grado ampolloso. Per riaffermare una necessità: la necessità di parlare di un argomento preciso e possibilmente tangibile. Dopodiché, giudicherà il lettore se il discorso è pieno di svolazzi di fantasia o se per caso questi svolazzi servano ad alludere a verità profonde.
Altro pregio di questa serie di articoli (perché non autoincensarsi? perché non descrivere le caratteristiche del proprio prodotto esattamente come si fa nelle pubblicità? perché non usare le armi del nemico, se l’obiettivo è combattere il nemico stesso?) è che sono fatti con pochissimo. Si parla di libri, ma non si racconta mai o quasi mai una trama. Si usano invece gli elementi più palpabili e di superficie possibile: dorsi dei libri, colori, scritte. O si usa l’immaginazione, sperando di far scaturire nella mente del lettore qualche significato profondo in una sorta di critica letteraria un po’ più creativa della media.
Sì. La trama. La trama in questi scritti è stata accuratamente evitata. Tutti i grandi scrittori odiano le trame. Dunque, perché, anche dalla posizione di semplici lettori, ostinarsi a fissarsi sulle trame? Su quello che accade nei libri? Raccontami piuttosto quello che ti ha suggerito, un libro. Che cosa ti ha fatto venire in mente. Qual è la scena che ti ha colpito di più, al limite. Chi se ne importa se mi parlerai di un libro che ti stai inventando sul momento di sana pianta se lo farai con passione, bene? Avete mai ascoltato uno scrittore raccontare il libro di un altro? Un delirio dall’inizio alla fine. Scempiaggini dall’inizio alla fine. D’altra parte, proprio questo fa un buon libro: stimola, istiga.
Un buon romanzo non vuole farsi conoscere. Finire sui giornali. Far intervistare il suo autore e fargli fare il firmacopie. Vuole solo portarti a sognare e dal crinale di quel sogno farti affacciare giù in basso sulla tua vita e decidere il da farsi. Vuoi viverla, questa storia, o vuoi proseguire con la tua? Un libro è una tentazione. Deve scatenare la fantasia. Un libro deve far spiccare il volo. Deve togliere i tappi ai tubetti di colore dentro la tua testa e inondarla di tempera. Ecco, che cosa deve fare un buon libro. Farti immaginare mille altri libri, mille altre storie… Romeo e Giulietta è la storia di un ragazzo e una ragazza che si amano alla follia e il loro amore rinfocola una guerra tra famiglie: solo Romeo e Giulietta morranno, e grazie al loro sacrificio, Capuleti e Montecchi si riavvicineranno. Un uomo e una donna si amano e si scatena una guerra. Sembra il rovesciamento dell’Iliade di Omero dove una donna rifiuta l’amore di un uomo ed è guerra. Dall’odio nasce la guerra, ma il sacrificio d’amore, ci dice Shakespeare, una guerra la può anche far cessare. Chissà, forse da Omero Shakespeare ha tratto l’idea per Romeo (anagramma di Omero!) e Giulietta. Ecco cosa bisogna fare, quando si legge. Invece, ci fossilizziamo sulle storie, sulle ossa nude della trama. Nel conoscere le vicende così come si sono svolte, schematicamente, semplificando. Come se non fossimo già oberati di storie e come se le storie non si assomigliassero tutte le une alle altre.
Perché va così? Cosa c’è di così attraente in una storia? È una domanda già presente nell’articolo Il gusto di saltare le pagine, a cui qui cerchiamo di dare ora una risposta definitiva. Cerchiamo così spasmodicamente storie perché è la storia a decidere il valore dei suoi protagonisti. Nella vita di tutti i giorni non sono le storie delle nostre vite che ci danno un valore. Sì, ci sono storie di valore in sé: vincere la medaglia d’oro alle Olimpiadi, guadagnarsi una medaglia al valore per aver compiuto un gesto eroico. Ma a nessuno frega niente, tutto sommato, delle storie: anche le più valorose.
Le medaglie sono solo pezzi di latta (come fa notare Jack Higgins nel suo superbo thriller Il volo delle aquile edito da Sperling&Kupfer) e le varie vicende legate ai reduci dal Vietnam stanno lì a testimoniarlo. Una storia è solo una storia e non ti risolve la vita. La vita ti si risolve quando hai modo di guadagnarti il pane quotidiano.
Alla vincitrice di svariate medaglie d’oro, Federica Pellegrini, subito dopo aver stabilito un nuovo record, con tutti gli onori del caso, una giornalista ha chiesto: “E adesso cosa farai?”. Una domanda semplice, ma terribile. E adesso? Sei sul tetto del mondo, ma adesso? Cosa combinerai da adesso in avanti? Pezzi di latta. Le medaglie sono solo pezzi di latta. Dopo un po’ le storie legate a quelle medaglie si appanneranno e le medaglie torneranno a essere, come dice Jack Higgins, pezzi di latta. Se non ti darai da fare, finirai sotto un ponte, la tua vita andrà a rotoli ugualmente – come è successo a tanti reduci dal Vietnam.
Nella vita reale le storie sono all’ultimo posto. Contano le persone. Anzi, contano i titoli delle persone e quello che fanno. Medici. Avvocati. Ingegneri. Architetti. Ecco la corsa affannosa alla laurea e alle specializzazioni. Un tempo c’era un commercio di titoli nobiliari: baronetti, visconti, duchi. Adesso i titoli sono le lauree. Per contare. Per essere qualcuno. Per essere rispettati. Lasciati stare.
Ma nei romanzi non è così. Nei romanzi, nelle storie di finzione, il protagonista può essere chiunque. Questo lo si capisce bene nelle storie al cinema. Il protagonista, il figo della situazione ha la faccia di Mel Gibson o di Tom Cruise o di Al Pacino, Leonardo Di Caprio, Brad Pitt. Sì, lavora in una tavola calda a un dollaro e cinquanta l’ora, ma è… Al Pacino. Il direttore della tavola calda, invece, non è Al Pacino. Magari è un bravo attore, un ottimo attore. Di sicuro, però, non è un mito del cinema. Non è Al Pacino. Eppure, è il direttore della tavola calda! Ecco, sta tutto qui, in fondo. In una storia non conta chi sei, conta la storia: la storia è la vera protagonista, la storia muove le pedine. La storia decide chi è il suo protagonista. In tutto questo c’è un consolante senso di rivincita e di speranza.
Forse anch’io, in fondo, sono Al Pacino, Tom Cruise, Marlon Brando: anch’io sono l’eroe di questo schifo dannato di vita che ho. Nei momenti di sconforto penso che sia uno schifo dannato e invece è una grande storia. Ecco perché siamo così ostinatamente interessati alle storie sia da ascoltare che da raccontare. Anche se si assomigliano. Anche se ce ne sono a milioni così come a milioni ci piovono addosso informazioni, musiche, prodotti “di consumo”.
L’unico modo per uscirne, da questo diluvio universale che imperversa da anni sulle nostre menti, è usare gli occhi e la testa. Imparare a vederci chiaro. A valutare da sé e ad autovalutarsi senza bisogno di nessuno. Autonomia. Per far questo è necessario elevarsi: alzarsi in cielo e osservare le cose dall’alto o da molto in basso, con distacco. Considerare ciò che appare bene e ciò che appare male sullo stesso piano e soppesare da sé le parti in causa. Sempre. Ma tutto ciò, questa chiaroveggenza del pensiero, ha un prezzo da pagare. Un prezzo alto, di cui qui non parliamo. Diciamo solo che c’è. Stolto è chi crede che l’uomo mediocre queste cose non le sappia. Un uomo solo, per quanto forte, per quanto intelligente, non può nulla difronte a una massa sterminata di uomini in marcia verso un obiettivo specifico, fosse anche precipitare nel baratro.
Immaginare, conoscere, capire… questa è la bellezza di leggere e scrivere. Immaginare tutto ciò che abbiamo detto. Conoscere avendo esperienze indirette che servano a distinguere l’utile dal dannoso, il piacevole dal pericolo, il bene dal male. Infine, la cosa più miracolosa, capire. Trovare una chiave di lettura che regali momenti di rivelazione: accedere a regole fondamentali che fanno muovere società, mondo, universo, carpire segreti che ci consentano di arrivare a risultati all’apparenza impossibili. Capire. Capire. E tutto questo avviene tramite le parole. In principio era la Parola, dice il Vangelo di Giovanni. Magari tutto è nato da una Parola. Un solo, singolo afflato: un soffio. Tutto quanto. Ma qual è, questa Parola? Dove è finita? Qualcuno la custodisce gelosamente da qualche parte? Esiste ancora, questa Parola? Forse leggendole tutte, le parole, incapperemo prima o poi nella Parola, la Parola a cui allude Giovanni nell’incipit del suo Vangelo… La pronunceremo ad alta voce e daremo vita a un nuovo ciclo migliore, più buono.
Poscritto
Stavo rileggendo questo scritto da cima a fondo, quando ho sentito un tonfo provenire dal soggiorno. Mi sono alzato e ho visto un libro grande come una valigia stracolma di vestiti e oggetti da viaggio fermo al centro del pavimento del soggiorno. La copertina è cartonata e marrone scuro. C’è una lamina di metallo che raffigura l’effigie di Dante Alighieri. Ho lanciato un’occhiata agli scaffali e ho individuato la posizione da dove il libro è cascato. L’edizione pregiata con illustrazioni di Gustave Doré di Inferno, Purgatorio e Paradiso è cascata per intero dagli scaffali e deve essersi fusa in quell’unico, enorme esemplare. Mentre lo osservo costernato, il librone si mette come a vibrare e poi si sposta lentamente, molto lentamente. Vibra e ondeggia a destra e a sinistra e si sposta in avanti, poco per volta, poco per volta. Emette anche dei piccoli grugniti, rumori che paiono segnalare uno sforzo. Rimango un paio di minuti fermo immobile, lo sguardo attonito, la bocca asciutta, il cuore che sembra volermi saltare fuori dal petto e in quei due minuti il librone di Dante avrà macinato trenta, quaranta centimetri al massimo.
Poi, accade qualcosa. Dalla costa alta almeno mezzo metro del libro gigante vedo spuntare un oggetto. Il libro vibra e produce molti più grugniti. Sta uscendo un oggetto dalla costa del libro, prima lentamente e poi viene espulso tutto di colpo producendo un rumore di risucchio e un botto. Il libro di Dante ha espulso un altro libro. È un libro di dimensioni normali e prima che riesca a leggere il titolo il librone di Dante espelle un altro libro e poi un altro ancora. Muovo un passo di lato e osservo come sia possibile che dalla costa del libro escano altri libri. C’è un taglio al centro della costa, come un orifizio, lungo almeno una ventina di centimetri e da lì i libri passano ammonticchiandosi uno sopra l’altro. Capisco perfettamente, per quanto folle possa essere, che cosa sta facendo il libro dantesco: sta cacciando fuori da sé tutti i libri che nel corso dei secoli si sono a esso ispirato, sta producendo letteratura. Ne ha già buttati fuori una dozzina e se va vanti così mi riempirà la casa di una montagna di libri sfondandomi il pavimento. Così mi faccio coraggio mi avvicino e lo minaccio dicendogli che se non la pianta, gli faccio ingoiare la mia edizione tascabile della Bibbia e vedrà quello che gli succede. “Perché tu, Dante, sarai anche Dante, ma se ti faccio ingoiare la Bibbia, quella ti divora esattamente come farebbe con tutti gli altri libri. E magari, potrebbe funzionare anche se ti faccio ingoiare l’Eneide di Virgilio o Teocrito”.
La minaccia sembra sortire i suoi effetti. La maxi edizione della Divina Commedia di Dante Alighieri smette di depositare libri nel mio soggiorno e dopo un po’ si rimpicciolisce tornando alle dimensioni normali e scomponendosi nei tre volumi originari. Faccio su le decine di libri che sono uscite dall’orifizio del libro dantesco, e ce ne sono alcuni di insospettabili, e cerco di collocarli da qualche parte nella mia libreria di casa.
Dopodiché, torno qui davanti al computer e mi metto a scrivere le parole che avete appena lette.