Lo psicanalista britannico Bowlby (1907-1990) dedicò buona parte dei suoi lavori all’importanza del ruolo genitoriale per un sano sviluppo cognitivo, e non solo, dei figli. I genitori sono un porto sicuro a cui poter sempre approdare tra un’esperienza e l’altra di esplorazione del mondo, che sa essere tanto meraviglioso quanto terrificante. Tuttavia il fatto che il genitore sia un caregiver, ossia una figura di cura, spesso ci porta a trascurare la sua necessità di ricevere assistenza, sostegno e supporto a sua volta, in quello che è il mestiere più impegnativo in assoluto: l’essere una madre o un padre “sufficientemente buoni”, per citare Winnicott.
È ormai assodata la concezione aristotelica dell’uomo inteso come un animale sociale. L’esistenza umana è infatti una combinazione sinergica di natura e cultura. L’uomo, nel suo DNA, è programmato per l’interazione, ancor prima della nascita. Vari studi hanno dimostrato che il feto è già un essere istintivamente attivo e reattivo e che c’è una certa continuità comportamentale nel passaggio dalla vita intrauterina a quella extrauterina. Il neonato è equipaggiato per poter entrare in relazione, disponendo di un bel corredo di riflessi e capacità percettivo-sensoriali che gli permettono di interagire con i suoi caregiver. Si pensi al riflesso di suzione che rende possibile l’allattamento e che al tempo stesso suscita nella madre compiacimento e gratificazione, confermando il suo senso di maternità con il rilascio di buone dosi di ossitocina, l’ormone dell’amore. Anche in quest’ultima, a partire dalla fase finale della gravidanza fino ai primi mesi dalla nascita del bambino, compaiono degli atteggiamenti istintivi di accudimento. Si tratta di uno stato mentale fisiologico definito “preoccupazione materna primaria” caratterizzato dalla costante presenza di pensieri riguardanti solo ed esclusivamente il bambino, addirittura assimilabili ai sintomi patologici di un disturbo ossessivo-compulsivo.
Fu proprio Bowlby a formulare, negli anni ’50, la famosa teoria dell’attaccamento. Egli non si limitò a individuare nel bonding madre-figlio soltanto la pulsione libidica di autoconservazione volta al soddisfacimento del bisogno di nutrimento del bambino, come sostenevano filoni psicoanalitici a lui contemporanei. I suoi studi dimostrarono l’esistenza di un vero e proprio bisogno a sé stante di intimità e vicinanza interpersonale, soprattutto fisica, essendo il tatto uno dei sensi più sviluppati nel neonato, nonché suo principale veicolo di conoscenza della realtà.
Nello stesso periodo gli esperimenti di Harlow condotti sulle scimmie confermarono questa teoria: un cucciolo di macaco, posto in laboratorio in compagnia di due madri surrogate (fantocci di diverse consistenze), mostrava una netta preferenza per quella più morbida e calda alla quale rimaneva attaccato per la maggior parte del tempo nonostante non avesse di che nutrirlo, mentre si recava dall’altra, più dura e fredda, soltanto quando aveva fame perché era lei ad avere il biberon per allattarlo. I documentari di Spitz e Robertson, inoltre, scandalizzarono l’opinione pubblica del tempo mostrando i drammatici effetti dell’assenza di affetto materno sui bambini istituzionalizzati, i quali venivano senz’altro nutriti dalle infermiere degli orfanotrofi, ma non venivano toccati né accarezzati e questo comportava un progressivo declino psicofisico verso uno stato di depressione anaclitica, che talvolta degenerava inspiegabilmente nella morte dei neonati.
Fattori culturali di deprivazione sociale, politica ed economica possono assolutamente compromettere la naturale instaurazione del bonding tra madre e figlio e portare all’insorgenza di stili di attaccamento insicuri che condizionano la vita relazionale del bambino accompagnandolo, non senza traumi, fino all’età adulta.
A questo punto occorre ricordare che i genitori, prima ancora di essere educatori, sono regolatori neuro-fisiologici e psico-biologici della salute cerebrale del bambino. Dalla nascita fino ai due anni circa, il cervello del bambino è caratterizzato da una sovrabbondanza di neuroni e sinapsi. Più della metà è destinata a morire nella fase detta di “potatura sinaptica”: quei circuiti neurali che restano inutilizzati - la cui attivazione non è stata stimolata dall’esperienza - vengono disattivati, mentre restano attive quelle connessioni ritenute utili e pertinenti per la vita del bambino. Questo è il discorso alla base del concetto di plasticità cerebrale dell’essere umano in età infantile. Va da sé che genitori responsivi agli stimoli e a loro volta stimolatori sono di fondamentale importanza in questa fase delicatissima dello sviluppo cognitivo del figlio.
Un caregiver sensibile e sintonizzato con la mente del bambino, quando questi è in uno stato di stress o angoscia a cui non riesce a dare una spiegazione, opera una sorta di “marcatura espressiva” riflettendo empaticamente nel proprio volto l’espressione del piccolo e mostrando, anche attraverso altri linguaggi, di aver compreso il suo stato d’animo. Così il bambino si sentirà capito e rassicurato. Se ha mal di pancia, piange ed è spaventato perché non ha idea di cosa stia succedendo. Ecco che la madre, parlandogli in “parentese”, interviene per dare un significato a questa esperienza emotiva: “Cosa c’è? Ti fa male il pancino? Hai proprio fame!”. È ciò che nel 1962 Bion definì containment: dare un nome, definire, confinare, ridimensionare il malessere per renderlo meno spaventoso. Per utilizzare una sua similitudine, è come se il genitore debba masticare l’emozione del figlio per farla diventare più digeribile per il suo organismo.
Il pianto è uno dei più comuni meccanismi di coping infantile, ossia di tentativi fisiologici di fare ricorso alla regolazione emozionale da parte del caregiver. È quell’azione del bambino che presuppone la reazione consolatoria e confortante dell’adulto. Se l’adulto non è responsivo, allora il bambino tenderà a non piangere o a piangere di meno, dal momento che non c’è nessuno ad ascoltarlo. Non potendo attingere all’eteroregolazione da parte dei genitori per soddisfare i suoi bisogni emotivi, il bambino tenterà di autoregolarsi utilizzando le proprie risorse cognitive, che sono assai limitate per via del fatto che il suo cervello non è ancora ben sviluppato. È così che in situazioni di angoscia metterà in atto le cosiddette strategie di difesa permanente, che consistono in risposte di attacco, fuga o congelamento con rilascio di eccessive dosi di cortisolo (l’ormone dello stress) e che possono risultare in pattern comportamentali patologici.
L’esperienza precoce e reiterata con le figure di cura porta già nel neonato all’instaurazione di schemi relazionali che saranno riproposti e riapplicati anche alle esperienze future di interazione con altre persone. Bowlby li definisce modelli operativi interni. Questi vanno a depositarsi nella cosiddetta memoria implicita o procedurale, una dimensione inconscia e profonda che fa capo all’area subcorticale del cervello del neonato, una delle poche zone cerebrali già ben sviluppate alla nascita. Questa è la ragione per cui tali modelli sono in grado di influenzare in maniera determinante le nostre relazioni umane, basate sulla fiducia o sulla sfiducia nelle persone, memori - anche se inconsciamente - dello stile di accudimento delle nostre figure di cura.
Questa teoria potrebbe apparire troppo deterministica: persone insicure reduci da un attaccamento insicuro nei confronti dei propri genitori, sarebbero predestinate a trasmettere queste insicurezze anche ai propri figli. Effettivamente questo accade non di rado, ma per fortuna siamo esseri umani, resilienti e capaci di spezzare catene generazionali. Per quanto i nostri modelli operativi interni siano difficili da sradicare, esperienze positive e propositive possono aiutarci a portarli in superficie e plasmarli anche in età adulta. Come per ogni cambiamento, il primo passo nella risoluzione di una situazione è la presa di coscienza dell’esistenza di un problema e la volontà di superarlo. La chiave sta nell’acquisizione da parte dell’adulto di una capacità di mentalizzazione (mind mindedness), ossia di riflessione esplicita sui propri stati mentali, rielaborando i traumi attraverso l’uso del linguaggio, in primis quello verbale. In questo percorso la psicoterapia si rivela un’arma potente e, se vogliamo, in termini più utilitaristici, un investimento a lungo termine per la salute mentale propria e delle generazioni future. Sembrerà banale ma non lo è affatto: il modo migliore per prepararsi ad accogliere un’altra vita è quello di imparare a prendersi cura della propria, restituendo al bambino che c’è in noi tutte le attenzioni e la premura che gli sono state sottratte e di cui aveva tanto bisogno.