Il tragitto con la jeep scalcagnata era un viaggio nel viaggio. L’autunno inoltrato aveva già lasciato cadere neve a sufficienza perché i passi fossero chiusi al traffico degli autobus. Pertanto, per la prima volta in trent’anni, abbiamo dovuto noleggiare una macchina con autista. Partiti la mattina presto da Almora con il ghiaccio sui finestrini della macchina, dentro non fuori, affrontiamo il lungo tragitto con non poca paura. Gli indiani al volante non sono rassicuranti, soprattutto su una strada sterrata, con salite dove si è costretti, a volte, a scendere per non affaticare troppo il motore già in affanno per gli anni, su di una strada scavata sul fianco delle montagne con a destra la parete rocciosa e a sinistra il vuoto. Con l’autista che sta tutto a sinistra e io, che sono seduto su quel lato della jeep, vedo le ruote che sfiorano il baratro. Quando gli chiedo perché non sta più sulla destra mi risponde che a destra la strada è piena di buche. Gli domando se ha fatto caso all’enorme buco profondo centinaia di metri che c’è sulla sinistra, ma non mi risponde nemmeno. Fortunatamente, di tanto in tanto, abbiamo la possibilità di riprendere la nostra vita tra le mani grazie alle interruzioni dovute a piccole frane che bloccano la strada, all’incrocio di altri mezzi, di solito camion, o alla foratura di una gomma. In quelle occasioni scendiamo dal mezzo e tiriamo un sospiro di sollievo, dopo aver ringraziato Bagwan per averci preservato da una morte terribile, almeno fino a quel momento.
Malgrado il terrore occupi gran spazio della mia mente c’è ancora un briciolo di consapevolezza dello splendore che ci circonda. Montagne variopinte, ocra, rosso mattone, azzurro, verde che, data la loro giovane età, continuano a sgretolarsi fino ad essere ghiaia che scende nei letti di fiumi dai colori inesprimibili. L’Himalaya, la dimora delle nevi.
Nonostante i vari autobus e camion che vediamo in fondo a scarpate profonde centinaia di metri arriviamo incredibilmente sani e salvi a Munsyari quasi con il buio. Da lì, il giorno dopo, io e mia moglie partiremo per il viaggio a piedi verso Martoli, distretto di Pithogarh nello Stato dell’Uttarakhand, accompagnati da uno yak e Kumar, il suo padrone. La simpatica bestia ci porterà i viveri necessari per sei giorni di viaggio tra andata e ritorno.
In passato la popolazione di Martoli si sosteneva tramite il commercio con la Cina, con la quale confina, scambiando con le popolazioni tibetane, grano, cotone e zucchero con sale, lana e oro.
I primi a capire l’importanza di questa via di comunicazione furono, ovviamente, gli inglesi che con George William Trade, Commissario del Kumaon nel 1815, migliorarono il tracciato viario, dando così una grossa spinta ai commerci che si svolgevano in quest’area.
Con il conflitto tra Cina e India del 1962 questi commerci si sono bruscamente interrotti, spingendo gli abitanti di questi luoghi verso valle e, di conseguenza, verso la speranza di nuovi guadagni. Da allora il Governo indiano li ha riconosciuti come gruppo tribale e, tramite la Reservation Policy, ha garantito la loro educazione, il supporto sanitario e il lavoro in ambienti statali e nell’esercito. Questo aiuto da parte dello Stato accelerò il processo di migrazione verso valle e le città.
Oggi Martoli, durante i mesi estivi, è popolata da una ventina di abitanti, quasi esclusivamente uomini, che lasciano le loro famiglie a Munsyari e paesi limitrofi e si dedicano prevalentemente all’accoglienza dei rari viaggiatori di passaggio.
L’SDM (Sub Divisional Magistrate) di Munsyari, al quale ci siamo dovuti rivolgere per avere un visto particolare per addentrarci in quell’area, visto che confina con la Cina, uno Stato non proprio amico dell’India, ci ha avvertiti della pericolosità del percorso, informandoci che pochi giorni prima un americano era caduto nel vuoto per centinaia di metri. Ringraziamo il magistrato per la buona energia che ha sentito di doverci trasmettere e ci mettiamo in marcia.
Kumar e il suo fedele yak fanno strada, mia moglie davanti a me e io per ultimo. La strada è talmente stretta che non capisco per quale magia riesca a passarci il grosso mammifero con il suo carico e ripenso al fatto che gli inglesi hanno migliorato questo percorso. Com’era prima? Man mano che procediamo la strada sale e la distanza con il Gori Gar, il torrente che scorre in fondo alla gola, aumenta e così la mia paura di scivolare, ma soprattutto aumenta il terrore che a scivolare possa essere mia moglie. Passo questo primo giorno con in testa pensieri di morte e a chiedermi perché mi caccio sempre in queste situazioni assurde, perché non sono a casa mia, tranquillo, crogiolandomi nelle mie abitudini. Pensieri che mi rendono irritabile e che mi dà fastidio pensare. Un cerchio senza fine. Kali Yuga.
Ci fermiamo a dormire in un antro nel fianco della montagna che un paio di indiani hanno cercato di rendere ospitale stendendo sul terreno alcune stuoie sulle quali dormire e cucinando riso e chapati con l’ausilio del classico fornellino a kerosene, elemento costante in ogni chai shop. Lo spettacolo del cielo stellato e la maestosità delle vette che ci circondano mi aiutano a liberarmi dei brutti pensieri che mi hanno assillato per tutto il giorno. La stanchezza fa il resto e dormo meravigliosamente fino al mattino seguente.
Al mattino presto, dopo una specie di colazione, ripartiamo di buon passo. Ogni tanto incrociamo alcuni portatori che tornano a valle dopo aver trasportato in alta quota carichi di jeera (cumino), jimbu un cereale che viene venduto a caro prezzo e, nel loro viaggio di ritorno, portano la yarsa gambu, una pianta che cresce spontanea ad alta quota e trova il suo utilizzo nella medicina ayurvedica e viene venduta al mercato a prezzi stratosferici.
Abbiamo preso un buon ritmo, il respiro è affannoso, ma riesco a cadenzarlo con il passo e questa sintonia ha una sua musicalità. Mi fa tornare alla mente quando praticavo sport e, anche allora, entravo nel ritmo del respiro legato all’andatura; la sua ripetitività mi faceva entrare in uno stato dove il resto scompariva, una condizione come quella che potrebbe essere provocata dalla ripetitività dei mantra, come lo è anche il rosario. So che questa condizione è sperimentata da diversi sportivi. Un mio amico nuotatore di altissimo livello mi diceva che anche lui provava uno stato mentale simile, nel quale non pensava a nulla. Questa stessa sensazione la stavo provando anche durante il tragitto per Martoli. Poi la paura di cadere mi riportava alla realtà, perlomeno, a questa realtà.
La paura del vuoto mi terrorizza e affascina allo stesso tempo e penso d’aver capito che non sia paura di cadere, ma voglia di volare, come dice un cantautore che non mi piace affatto. Però penso sia vero, almeno nel mio caso. Volare mi piace tantissimo, ma quando arrivano le turbolenze vorrei poter scendere. Allo stesso modo mi piace arrampicare, lo faccio da amatore, ma mi entusiasma poter scalare una piccola parete. Ma camminare costantemente, per giorni e giorni, su una stradina di un metro o poco più con di fianco l’abisso non mi diverte affatto.
Dopo alcune ore di cammino il sentiero spiana lievemente e, dopo una curva a sinistra, si apre un paesaggio maestoso; in basso la gola dove scorre il fiume si apre in una valle molto ampia, le montagne si distanziano e lo sguardo può spaziare sino a raggiungere le vette del massiccio del Chiring We (6559 m) da cui nasce il ghiacciaio Kalabaland. Lo stato di coscienza generato dalla cadenza del mio respiro sincronizzato con i passi, unito alla calma possente della natura, mi procura un’emozione talmente forte che tutto il mio corpo viene percorso da brividi e piango. Mi capita spesso, anche senza percorrere sentieri per giorni lungo le catene himalayane. Magari ascoltando una musica o il canto di un merlo. Mi sembra, in qualche modo, che siano stati di coscienza che mi permettono di essere in contatto con qualcosa di essenziale, in tutti i sensi: ciò che conta davvero, come anche l’esatto opposto di superfluo. L’essenzialità. Una condizione dell’essere e della vita che ritengo imprescindibile per l’evoluzione interiore. Lì, nel mezzo del nulla, in un paesaggio ricoperto per la maggior parte dell’anno dalla neve, dove gli unici suoni sono quelli del vento e del torrente, dove non passa anima viva se non i rari portatori, tutto quello che di solito ci sembra importante perde immediatamente di significato. Ci sei solo tu e l’universo.
Verso sera arriviamo in uno di quei luoghi che lasciano un segno nell’anima. Sul pendio della montagna è stato ricavato un terrazzino non più lungo di cinque metri e largo tre, dove marito e moglie di chiara origine tibetana, hanno eretto dei muriccioli di pietra a secco non più alti di un metro e mezzo. Questi muretti dividono il piccolo terrazzino in tre spazi coperti con alcuni teli di plastica e altri in juta, vecchi sacchi che contenevano mercanzie. Una di queste “camerette” ospita la cucina consistente in un fuoco acceso sulla nuda terra, qualche padellino e una piccola scorta di riso, te e farina. Gli altri due spazi sono la loro camera da letto e quella per i viandanti, che questa sera saremo noi.
Kumar unisce, al poco che hanno da offrirci i due coniugi senza età, un po' del nostro dal (lenticchie) e qualche patata, così rari da queste parti. Dopo che tutti e quattro abbiamo consumato la nostra cena pantagruelica, io e Cristina, mia moglie, ci accovacciamo all’ingresso della nostra cameretta rivolta verso il profondo canalone dove scorre il Gori Gar, che non vediamo, ma sentiamo in lontananza. Mentre il cibo ci ha saziato, la vista delle imponenti montagne innevate non ci basta mai. Con il sopraggiungere dell’oscurità si accende un cielo stellato favoloso e restiamo a guardarlo fin quando i nostri ospiti non si ritirano per dormire. Facciamo così anche noi. Lo spazio a disposizione è davvero misero, noi due e i nostri bagagli lo occupiamo completamente. Sdraiati sulla nuda terra ci sentiamo talmente bene che dormire sembra quasi un peccato. Nel silenzio assoluto sentiamo la coppia tibetana parlare tra di loro a bassa voce e mi tornano alla memoria momenti simili vissuti con i miei genitori che, prima di addormentarsi, parlavano tra di loro a bassa voce. Non capivo cosa dicessero, ma il fatto di sentirli mi rassicurava e mi addormentavo tranquillo. Qui la situazione era la stessa, ma in un contesto completamente diverso. Pensare che marito e moglie vivono la maggior parte della loro vita su questo terrazzino rubato alla montagna sotto questi teli di plastica malconci e che, a fine giornata, si parlino come facevano i miei genitori lo trovo meraviglioso.
La mattina veniamo svegliati dalla musica proveniente da una radiolina che marito e moglie, evidentemente, accendono tutte le mattine al loro risveglio. Come la maggior parte dei popoli asiatici anche loro, pur vivendo in condizioni per un occidentale impensabili, trasudano una serenità disarmante.
Dopo aver bevuto il chai e ringraziato i nostri bellissimi ospiti riprendiamo il nostro cammino verso Martoli, che dovremmo raggiungere nel pomeriggio.
Il mio stato d’animo ripercorre quello del sentiero che a volte è “leggero” e a volte estremamente preoccupante. Mi torna alla mente il racconto del magistrato di Munsyari, riguardo l’americano caduto nel dirupo, soprattutto perché oggi il vento è molto forte tanto che, a volte, ci dobbiamo inginocchiare per non perdere l’equilibrio. E la mia mente oscilla tra l’estasi provocata dalla Natura e la domanda senza risposta che si poneva anche Chatwin: perché non so stare fermo a casa mia?
È più forte di me, viaggiare è la mia scuola di vita, nulla e nessuno mi hanno insegnato tanto quanto le persone e le situazioni che ho trovato durante i miei viaggi. Non sempre belle esperienze, anzi, molto spesso difficili con persone che cercano di portarti via il poco che hai, sempre attento a tutto, da quello che mangi e bevi a non dimenticarti nulla durante i tragitti, perché sarà perso per sempre. Per non parlare dei problemi fisici: in anni di viaggi lungo il continente asiatico non mi sono fatto mancare nulla, dalla malaria all’ameba, dal tifo a malattie che non so cosa fossero perché ero in posti sperduti senza un medico che le potesse diagnosticare né tantomeno curare. Ma sono proprio questi momenti di difficoltà che mi hanno dato la possibilità di intravedere un senso possibile della Vita.
Quando penso alla mia idea di scuola ideale non riesco a vederla confinata tra delle pareti. Penso sempre agli studenti in mezzo alla natura, che apprendono tutto quello che serve osservando ciò che li circonda, scoprendo il mondo attorno e dentro di loro e la naturale, intima relazione che ogni essere vivente ha con l’universo. L’istruzione verrà dopo, in un secondo momento. Prima si deve porre attenzione a cosa già c’è in ognuno di loro e a far sì che cresca spontaneamente. Come quando si entra in un orto con le piantine appena germinate e si fa attenzione a non calpestarle, si cerca di metterle nelle condizioni migliori perché seguano il loro corso naturale. Non avrebbe senso accelerarne la crescita cercando di allungarle o non aiuteremo di certo un fiore a sbocciare aprendone i boccioli con le mani. Invece ai nostri figli riserviamo un trattamento analogo cercando di formarli, dandogli, appunto, la forma che più si adatta alla società, di conformarli a ciò che gli altri si aspettano da loro. E ci consideriamo evoluti, la specie che domina il pianeta.
Mettendo un passo dopo l’altro, un pensiero dopo l’altro, arriviamo su di un’altura dalla quale godiamo della vista di uno sperone di roccia poco più in basso, ricoperto di erba secca e sterpaglie, sulla cui estremità si trovano una manciata di casupole in pietra; oltre lo sperone la montagna degrada bruscamente fino ad arrivare al torrente e di fronte si ergono le montagne a confine con la Cina. Questa è Martoli, la meta fisica del nostro viaggio.
Le case in pietra sono quasi tutte diroccate e le strutture lignee dei tetti sono state utilizzate per accendere i fuochi necessari a scaldarsi la sera e a preparare il cibo. Ogni tanto i portatori arrivano con qualche tanica di kerosene per poter accendere i fornellini. Una di queste case non completamente distrutta viene utilizzata come dormitorio ed è dove passeremo la notte. Una volta sistemati i bagagli usciamo dalla stanza e restiamo, ancora una volta, abbagliati dalla vista che si para davanti ai nostri occhi: il Nanda Dev, letteralmente la Dea dispensatrice di beatitudine e capisco il perché di questo nome. Con i suoi 7816 metri è la seconda cima più alta dell’India, ma a noi era rimasta nascosta perché al nostro arrivo le davamo le spalle.
A volte la Natura ti sbatte in faccia la tua miseria. Non perché siamo piccoli e insignificanti nei suoi confronti, ma perché siamo piccoli e insignificanti nei nostri confronti. Quanto tempo perdiamo in cose inutili, che a noi paiono fondamentali. Quanta energia dissipiamo durante la nostra vita per cose che, il più delle volte, non ci interessano nemmeno. Quanto dedichiamo a capirci, a sentirci, a viverci a evolverci? Quanto sono veramente importanti le attività dell’uomo di oggi?
Siamo solo due anime perse che nuotano nella boccia dei pesci, anno dopo anno, correndo in cerchio nello stesso cortile. E cosa abbiamo trovato? Sempre le stesse paure.
(da Wish You Were Here dei Pink Floyd)
Conosco persone molto importanti e impegnate, persone che non hanno un attimo di tempo per fare altro che lavorare, spendere tutte le loro energie nelle loro attività, alcuni di loro sono anche più che benestanti. Non uno di loro è felice. Al contrario sono stato in posti che non dovrebbero esistere sulla terra, dove gli esseri umani forse non si possono definire nemmeno tali, secondo la nostra concezione. Ho conosciuto, per esempio, marito e moglie che vivevano nel bel mezzo di una strada percorsa costantemente, giorno e notte, da qualsiasi mezzo di locomozione in grado di inquinare tantissimo e di fare un rumore assordante, vicino a sedi di banche prestigiose e di compagnie assicurative internazionali. Loro vivevano tra i due guard-rail che dividevano le corsie di marcia e che usavano come sostegno per il telo di plastica che fungeva da tetto. Quella era casa loro. Avevano due sorrisi che mi porto dentro ancora oggi e che difficilmente ho ritrovato sui volti delle persone socialmente affermate.
Cosa conta nella nostra vita, cos’è veramente importante?
Nel caso vi interessasse, cosa di cui dubito, per me la vita è come per Michelangelo il blocco di marmo: la statua è già lì, bisogna togliere ciò che c’è di superfluo per vederla.