Nel marzo 1867, una grave notizia attristava l’Europa: Davide Livingstone, celebre esploratore dell’Africa centrale, era stato, dicevasi, assassinato dai selvaggi.
(da La ricerca di Livingstone di H.M. Stanley, Fratelli Treves, Editori 1888)
Alla notizia della scomparsa e non della morte dell’esploratore, nel 1869 il New York Herald incaricò Sir Henry Morton Stanley di mettersi sulle sue tracce per trovarlo e intervistarlo. Il 10 novembre 1871 il giornalista riesce finalmente a rintracciare Livingstone a Ujiji, nei pressi del lago Tanganica. L’incontro è rimasto famoso per le parole con le quali si dice che Stanley abbia la prima volta salutato Livingstone: "Dottor Livingstone, I presume". Fu anche l'inizio di un'avventurosa spedizione nel cuore dell'Africa, diventata celebre attraverso gli scritti di Stanley che documentò l'impresa.
La lettura dei racconti di Stanley, di Livingstone - raccolti da Orazio Waller ne L’Ultimo Giornale di Livingstone, Fratelli Treves, Editori 1876 - e Attraverso l’Africa di Cameron (Fratelli Treves, Editori 1879), scoperti nella libreria di mio nonno Alberto, mi ha fatto desiderare di conoscere l’Africa ed in particolare quella esplorata da Livingstone e, dopo aver visitato la Tanzania, quando mi è capitata l’occasione, sono partita per lo Zimbabwe.
La Repubblica dello Zimbabwe, situata tra il fiume Zambesi e il fiume Limpopo, è stata nota precedentemente come Rhodesia. Il nome derivava da Cecil J. Rhodes, uno dei principali artefici dell'espansionismo imperialistico britannico nell'Africa. Quello di Zimbabwe è stato attribuito al Paese dopo l'indipendenza dalla Gran Bretagna, avvenuta il’11 novembre 1965. Il nome è legato all’antico e potente regno Monomotapa che fiorì dall’XI al XV secolo d.C. e che abbracciava l’odierno Zimbabwe e parte del Mozambico.
Le grandiose costruzioni granitiche, Great Zimbabwe, testimoni della capitale dell’antico regno, sono state dichiarate sito Patrimonio Mondiale dell’UNESCO.
In data 23 marzo 1970, con l'uscita dal Commonwealth, fu proclamata la Repubblica, riconosciuta dall’ONU solo il 18 aprile 1980.
Esplorato dagli europei, dapprima dai portoghesi e successivamente dagli inglesi, il Paese ha molte culture diverse con proprie credenze e cerimonie. È abitato, sin da tempi remoti, da popolazioni Bantu (il cui significato è umanità), in particolare del gruppo Karanga, da cui discendono gli Shona e Ndebele odierni. Vi sono altre etnie minori come i Tonga o Batonga, che vivono lungo le rive dello Zambesi e del Lago Kariba, nonché anglosassoni in forte diminuzione.
Sedici sono le lingue ufficiali dello Zimbabwe, la maggioranza riguarda il gruppo Bantu, oltre all'inglese e ad alcuni dialetti della famiglia Khoisan.
A partire dagli ultimi anni del sec. XX il Paese attraversa una pesante crisi umanitaria derivante da un ventaglio di cause concomitanti: l'epidemia di AIDS, il declino economico, una successione di catastrofi naturali (siccità e inondazioni) e una situazione politica incerta.
Harare, la capitale dello Zimbabwe, fu fondata come forte nel 1890 dalla Pioner Column, una forza mercenaria al servizio di C. Rhodes, con il nome Fort Salisbury, poi cambiato nel 1982 con quello attuale in onore di un capo tribù Shona, Neharawa. Si trova a quasi 1.500 metri di altitudine su di un grande altopiano chiamato il Plateau dello Zimbabwe che dal fiume Zambesi a Nord si estende fino al massiccio di Lesotho.
Arrivata ad Harare ho dedicato le poche ore di permanenza alla visita alla National Gallery of Zimbabwe, dove ho ammirato una raccolta di opere d’arte contemporanea e tradizionale provenienti da tutte le regioni dello Zimbabwe e al Museum of Human Sciences. Uno dei reperti più suggestivi del museo è un manufatto ngoma lungundu che alcuni ritengono sia l’Arca dell’Alleanza dell’Antico Testamento che sarebbe stata portata lì direttamente da Gerusalemme.
Passeggiando nel giardino botanico di Harare ho potuto vedere alcune delle più particolari piante della regione e una incredibile varietà di fiori.
Lungo le strade mi sono imbattuta nell’artigianato locale che artisti realizzavano, con grande maestria, con pietra verde, malachite, legno morbido o con duro e nero ebano.
Impaziente di vedere le Cascate Vittoria dello Zambesi, sono partita per Victoria Falls Town.
Scoperte nel 1885 da David Livingstone che, mentre discendeva in canoa il fiume Chobe e poi lo Zambesi, si trovò di fronte al fenomeno naturale del quale aveva sentito molti racconti e dedicò le cascate, esercitando l’antico diritto d’ogni esploratore, all’allora Regina Victoria d’Inghilterra.
Le Cascate Vittoria (Victoria Falls) si trovano lungo il corso del fiume in un punto che demarca il confine geografico e politico tra lo Zambia e lo Zimbabwe. Con un’altezza pari a 128 metri, sono considerate le cascate più alte di tutta l’Africa. La loro particolarità è dovuta alla geografia del luogo nel quale sorgono, una gola profonda e stretta che permette di ammirare tutto il fronte della cascata dall’altra sponda.
Arrivata nella piccola cittadina, nel pomeriggio, sono andata al porto fluviale da dove, al tramonto, ho intrapreso la crociera lungo lo Zambesi che con i suoi 2574 chilometri di lunghezza è il quarto fiume più lungo dell’Africa.
Lungo il percorso il fiume cambia fisionomia, da un letto ampio, oltre un chilometro, con parecchie isole che formano più rami, diventa poi un ramo singolo con sponde ricche di lussureggiante vegetazione.
Navigarlo è stato per gli occhi un tripudio per il colore infuocato dell’orizzonte allo spegnersi del giorno e uno spettacolo indimenticabile l’osservare gli animali, come gli ippopotami e i coccodrilli, ad abbeverarsi. Ancora di più ho compreso l’amore profondo di Karen Blixen per l’Africa.
Al mattino presto mi sono diretta all’ingresso del Parco Nazionale delle Cascate Vittoria. Di piccola dimensione ospita però un numero considerevole di forme di vita, incluse popolazioni di animali di grossa taglia come elefanti, bufali, giraffe ed ippopotami e, al pari delle Cascate Vittoria, fa parte del patrimonio UNESCO.
Salutata la statua dell’esploratore, posta all’entrata del parco, mi sono addentrata nell’area. Piano piano il rombo delle cascate si faceva più forte e, mentre una pioggerellina mi lambiva, attraverso la cortina di vegetazione ho iniziato a intravvedere gli immensi burroni in cui si tuffavano le cascate. Arrivata al punto di osservazione principale, per l'altezza e loro imponenza ho provato un’emozione indescrivibile. Trovarsi completamente nel mezzo dell'Africa, davanti al più grande scenario d'acqua del Continente Nero, sui bordi di una depressione geologica di un centinaio di metri in cui si gettano milioni di litri d'acqua provenienti dallo Zambesi, mi ha fatto sentire un po’ una esploratrice.
Nel Missionary Travels and Researches Livingstone ha scritto: “La cortina bianca come la neve sembrava composta da miriadi di piccole comete lanciate in un'unica direzione, ognuna delle quali lasciava dietro una scia di schiuma”.
Per meglio vivere l’atmosfera del Mosi-oa-Tunya, il fumo che tuona, nome appropriato ed evocativo dato alle Cascate Vittoria dagli indigeni Makololo, per l’immane colonna di vapore acqueo e per il fragore prodotti dal precipitare del fiume, il giorno dopo, senza averne alcuna precedente esperienza, dopo un veloce briefing all’Hotel Victoria Falls ho affrontato, facendo il rafting, 23 rapide dello Zambesi che si generano ai piedi delle spettacolari cascate.
Alla seconda rapida mi sono ritrovata catapultata nel turbinio del fiume e le pareti scure di basalto del canyon incombevano su di me. Recuperata da un kayak, sono risalita a bordo del gommone e ho continuato la mia avventura.
Ricordo ancora l’accoglienza festosa, alla fine del percorso, dei ragazzi venuti a prendere i gommoni e qualche soldino.
Ho invece evitato di fare il bungee jumping dal Vittoria Falls Bridge che separa lo Zimbabwe dallo Zambia.
Ho salutato lo Zimbabwe dopo aver trascorso due giorni al Hwange National Park, un’area di 14.600 km2 confinante con il Botswana. Costituito prevalentemente da terreno asciutto e sabbioso del Kalahari, con foreste di teak e alberi di mopane, inframezzato da praterie erbose, ospita diverse varietà di fauna.
Ho vissuto immersa nella natura ancora padrona dell’area e, scortata da una guida non munita di armi ma di una semplice fionda, ho camminato al cospetto dei tanti animali, tra cui i rarissimi rinoceronti bianchi, e tantissimi tipi di uccelli.
Ho avuto la fortuna di godere dell’avvistamento dei Big Five, espressione che si riferisce a 5 animali che vivono in alcuni parchi nazionali e riserve protette dell’Africa: l’elefante africano, il leone, il leopardo, il rinoceronte e il bufalo nero.
Ancora una volta, l’Africa l’ho sentita mia.