È curioso come il pensiero dominante su cui si fonda ogni legittimazione del potere operi nel corso della storia mediante formule prevedibili che si ripetono con qualche variante. Ancora più curioso è che una simile prevedibilità venga chiamata con nomi contrastanti e per lo più “progresso”, quando si vuole infuocare il popolo con il futuro, e “tradizione” quando lo si vuol confortare con il passato. Ciò che sempre manca, però, è il presente che in questa sede intenderemo in senso ermetico come unione armonica di spirito (futuro) e corpo (passato).
Il potere, si sa, per salire sul proprio piedistallo “manifesto” deve costantemente scalciare al di sotto di sé il proprio opposto “nascosto” delegittimandolo agli occhi dei più. Il tutto avviene mediante un semplice artificio linguistico che gli antichi chiamavano più romanticamente “magia”: dichiarare qualcosa equivale a renderla reale, quindi definendo ciò che è nascosto come “occulto” esso magicamente diventa nemico. Oggi - l’agenda prescrive - il fantomatico futuro è al di là del corpo: esso non servirà infatti in una società digitale - o almeno - il corpo umano cederà il passo al suo avatar posticcio, robotico e senza l’intelligenza del corpo naturale. Ora, una certa fiducia “forte” nella mente artificiale, spacciata per intelletto (l’intelletto che gli antichi greci chiamavano noũs), ricalca perfettamente nel tempo presente i dualismi più oscurantisti della storia dell’umanità occidentale che, sulla scorta di rigidi commenti al magistero platonico ed evangelico, hanno di volta in volta esposto l’essere umano alla scelta drammatica e filosoficamente mal posta tra spirito e corpo.
Nel solco “nascosto” della storia, quello che insomma gli antichi politologi avrebbero chiamato il luminare minus, cioè il potere della Luna, crediamo di poter collocare gli straordinari testi della tradizione apocrifa e gnostica cristiana. Tra questi, gli Atti di Giovanni, scritti verisimilmente intorno al II secolo dopo Cristo, vengono esclusi dal canone neotestamentario intorno al IV secolo per motivi di opportunità dottrinale non difficile da capire alla luce della generale storia del Cristianesimo.
Uno dei testi più affascinanti contenuti all’interno degli Acta Joannis - questo il loro titolo latino - è quello che, in lingua italiana, viene chiamato la Caròla della Croce (o Inno di Gesù). In essa, Cristo, prima della crocifissione, impartisce ai suoi discepoli un comandamento che può apparire molto eccentrico ai più, ma che si rivela invece del tutto attiguo simbolicamente - per chi lo comprenda - alla più ecumenica e “solare” conversione del pane e del vino in corpo e sangue. Egli infatti, intonando un inno, fa disporre gli apostoli in cerchio e li invita a danzare. Il gesto dell’ispiratore del Cristianesimo, per chi volesse dare ancora una volta una lettura ingenua e “popolare” del muoversi in cerchio, non riguarda però solo un moto di convivialità tradizionale. Il testo della Caròla, scritto in greco ma probabilmente in origine siriaco, è molto chiaro al riguardo: “Tutto l’Universo si unisce al danzare” (AJ 95) dice Cristo, e “chi non danza è ignaro di ciò che realmente accade” (AJ 95) dal momento che “solo chi danza può comprendere (il verbo usato è il noéō coradicale del sopracitato noũs) ciò che io faccio” (AJ 96). Alla cháris, che ha dato poi il nome a ciò che sarà l’eu-carestia, e che viene tradotta abitualmente con “grazia”, Cristo inoltre accosta proprio il verbo choreúō: la grazia, quindi, con buona pace di chi le ha conferito nei secoli la perfezione algida di un’effusione asensoriale, non fa che danzare.
Di una simile esaltazione fisica non si stupirà chi sarà in grado di cogliere come, sulla medesima linea genealogica vantata da Cristo, il re Davide era già suonatore d’arpa, ritenuto da una certa tradizione detentore di segreti alchemici e “danzatore” eletto a fare la sua performance – alla lettera saltatio – di fronte all’arca dell’alleanza, così come si narra in Samuele (6: 14-16). Una concezione aulica del corpo che danza, sulla scorta di una visione ormai scomparsa della cosiddetta sapientia, non è sfuggita neanche al Dante della Commedia.
Se oggi, infatti, forti di molto progresso e avanzamento tecnologico, siamo per lo più portati a vedere lo studioso curvo sull’immobilità del leggere, non così immoti sono gli spiriti sapienti del Paradiso impegnati in un canto e in una danza vorticosa senza pari nel cielo del Sole. A quanti poi vogliano attribuire al Platone del Cratilo la responsabilità di aver introdotto nella filosofia occidentale il dualismo tra spirito e corpo e di aver tributato al corpo, orficamente, la funzione di “tomba”, bisogna pur ricordare come in quel testo difficilissimo e ancora da comprendere che è il Timeo, il filosofo dell’iperuranio e dell’ispirazione musaica abbia spiegato come l’unica salvezza al male del “non sapere” sia il movimento all’unisono del corpo e dell’anima e mai dell’uno senza l’altra (Timeo 88b). È pur vero, per chi voglia sollevare un’obiezione, che sia Dante che Platone si riferiscono ad una danza animata da una musica che non è solo di questo mondo, ed è infatti in questo solco che bisogna scrutare il discrimine tra il solare manifesto e il lunare occulto per comprendere a che tipo di conoscenza - o gnosis - invitava il Cristo della Caròla.
Ad una simile danza dovettero infatti pur ispirarsi i tanti filosofi della natura che attraverso le ripetute circolazioni e i movimenti dell’alto e del basso inseguivano negli alambicchi il momento mirabile in cui il corpo della materia si sarebbe spiritualizzato e lo spirito, per converso, avrebbe assunto finalmente la tangibilità fisica in una sintesi perfetta. Questa veniva definita, tra l’altro, presente. La metafora ci riguarda da vicino più di quanto riusciamo a immaginare. Attraverso la grande lezione di Jung, sappiamo che se si ignora la voce dell’inconscio lunare esso può mutarsi in malattia o, peggio, in follia. Per questo i filosofi cercavano mediante le operazioni di ottenere una mente non condizionata dal passato e dal futuro, ma viva e cosciente nell’hic et nunc di un unico tempo che non avrebbe più sofferto le offese di Chronos.
Ma oggi - si proclama euforicamente ancora una volta - il futuro delle più nobili attività umane è al di là del corpo. Dal canto suo la danza, gnosticamente intesa come nella Caròla della croce, rimane immota sulla sponda eretica dell’ineffabilità dove essa è stata confinata perché non ha parole per difendersi. Negli Acta Joannis (101) Cristo aveva raccomandato a Giovanni: “Voglio che la passione nel danzare venga chiamata mistero”. Ebbene, tutti oggi ricordano il mistero come forma, ma la passione, che ne è il contenuto, essa è stata dimenticata.