Ha illustrato i film dei registi più famosi del mondo, da Marco Bellocchio a Bernardo Bertolucci, da Luc Besson a Francis Ford Coppola, da Sergio Leone a Carlo Verdone e, in più di cinquant’anni di carriera, ha prodotto un numero sterminato di manifesti, custoditi con cura nella casa di famiglia, dalla moglie Gabriella. E oggi la sua città natale, Treviso, gli rende omaggio con una mostra grandiosa allestita in tre spazi prestigiosi, dal nuovo Museo Nazionale Collezione Salce, che per l’occasione apre nella ritrovata Chiesa di Santa Margherita, al Complesso di San Gaetano, l'altra sede del Museo, e ai Musei Civici di Santa Caterina. Hanno analizzato l’enorme archivio i curatori Roberto Festi e Eugenio Manzato, con la collaborazione di Maurizio Baroni, tre specialisti del settore, (più di mille i manifesti e le locandine da lui realizzate), selezionando le testimonianze di lungo percorso artistico.
Un omaggio a un conterraneo e finalmente una mostra che presenta la vastità di una produzione cinematografica senza pari.
La mostra è pronta e aspetta la data per aprire, appena il Covid lo permetterà. Sono tutti manifesti originali stampati, ma si potrà vedere anche il percorso di produzione, dall’idea, allo schizzo, all’esecutivo definitivo per poi passare alla stampa, e quindi una parte didattica esaustiva abbinata alle opere.
Quante opere saranno esposte?
Sono più di trecento le opere presentate nelle sale. Dagli esordi ad oggi.
Quando ha iniziato questa attività artistica?
Ho iniziato a lavorare per le sale cinematografiche a 17 anni con grandi sagome dipinte a mano e in uno studio grafico locale di pubblicità dove ho ottenuto le basi per capire i segreti del mestiere. È un lavoro che si apprende da soli e quindi da autodidatta si continua a studiare e ad approfondire. A Roma nel 1954 ho trovato lavoro nello studio di Augusto Favalli dove si ritrovavano molti artisti dell’epoca e in particolare cartellonisti di cinema.
Ma quali sono i principali trucchi di questo mestiere?
Io studiavo tutto. Prima il supporto su cartoncino e presto ho imparato a distinguere il genere diverso dei colori, i pennelli più adatti da utilizzare per le varie illustrazioni, poi avevo contatti con i maestri di allora ed era un continuo apprendimento. Era uno studio dove lavoravano anche altri colleghi e li seguivo con attenzione e passione. I miei maestri di riferimento sono stati Norman Rockwell o gli Impressionisti, studiavo l’arte del Cinquecento e la pittura di Rembrandt e mi affascinava molto il realismo degli illustratori giapponesi.
Ha sempre firmato i manifesti Renato Casaro?
Quando i miei cartelloni cominciarono ad avere successo, un produttore e regista osservò che firmavo i miei lavori con il nome René (come mi chiamava mia madre). ‘Ma sembra il nome di un coiffeur!’ Mi fece notare. Da quel momento la mia firma è diventata Renato Casaro.
Gli anni d’oro per questo genere di arte e per Renato Casaro sono stati gli anni Ottanta?
Sì. Nel 1984 mi sono trasferito a Monaco di Baviera, un po’ il centro delle produzioni internazionali. La Germania non era aggiornata nella cultura dell’illustrazione per il cinema e con l’intervento del mio genere, ho potuto esportare anche il mio, stile e il mio modo artistico di esprimermi. Ed è stata una grande avventura perché a Monaco c’era il fulcro delle produzioni sia tedesche che internazionali ma anche si lavorava a film italiani distribuiti in tutto il mondo. E qui il mio stile si rinnova e cambia. Dal genere impressionista e quasi fumettistico, ho cercato di togliere il superfluo e ho puntato più sull’espressione dei concetti e, dando un’idea simbolica del film, ho lasciato al pubblico una libera l’interpretazione del racconto.
E quali sono le innovazioni che ha portato nei suoi manifesti cinematografici?
Ho studiato i giapponesi che sono stati e sono maestri dell’aerografo, come Hajime Sorayama e tanti altri e ho capito che l’aerografo poteva essere un elemento importante per modificare l’illustrazione pittorica e tutto questo mi ha portato all’iperrealismo. È stata una svolta e sono stato il primo ad usare questa tecnica, più morbida e accattivante. Per esempio, il manifesto de Il tè nel deserto esemplifica questo concetto, un’immagine pura che attrae e incuriosisce il pubblico. Il cartellone diventa di fatto un simbolo del film.
Per molti film ha lavorato con le maggiori case di produzione tra Londra, Parigi e Los Angeles e con molti registi.
Spesso si decide il soggetto con il regista stesso, e così ho fatto, per esempio, per L’uomo delle stelle parlandone con Giuseppe Tornatore. Di solito si vedono i film in anteprima per avere un’idea di massima. Poi, per realizzare un cartellone ci vuole almeno una settimana.
Nel suo vasto archivio a Treviso conserva tutta la sua raccolta?
Ho una collezione privata che non si tocca ma ho altri lavori, anche temi liberi ispirati a tanti film che vendo attraverso mostre e gallerie. C’è una grande richiesta mondiale da parte dei collezionisti.
Nel 2019 è stato chiamato da Quentin Tarantino per collaborare al progetto dei “poster vintage” realizzati per il film C’era una volta a…Hollywood?
Quentin Tarantino è un collezionista dei miei manifesti e un mio estimatore. Ha preso un mio manifesto che ho fatto per un western negli anni Settanta e mi ha chiesto di mettere il volto di Leonardo Di Caprio (ne ho fatti quattro) e questo è diventato uno dei poster sul girato. E visto che Tarantino ha avuto l’Oscar per la scenografia, penso che anch’io dovrei avere una piccolissima parte del premio come autore di questi poster che appaiono nel film.
Renato Casaro. L’ultimo cartellonista del cinema (apertura rinviata al 12 giugno 2021) è una mostra che incanta diverse generazioni di pubblico e, come dice l’artista, sarà un’occasione per mostrare ai giovani creazioni che scatenano la fantasia e mantengono una modernità senza pari.