All’aprirsi del secolo scorso l’istituzione museale, ancora relativamente giovane, si trovava in una situazione quanto mai complessa. In primis riceveva aspre critiche dalle Avanguardie artistiche, che nei loro manifesti descrivevano il museo come un cimitero, un luogo elitario senza vita ancorato ai retaggi del passato, incapace di accettare e comprendere i cambiamenti che stavano sconvolgendo società e arte.
Allo stesso tempo era in atto un ripensamento generale sull’istituzione; critici e direttori si interrogavano su quale dovesse essere il ruolo del museo nella società e in che modo bisognasse rapportarsi con un pubblico sempre più ampio e desideroso di essere coinvolto.
Il modello classico del museo europeo, pur avendo ricevuto una forte spinta in temi di apertura al pubblico dalla Rivoluzione francese, era ancora legato ad un’impostazione elitaria; tendeva infatti a rivolgersi esclusivamente ad un pubblico colto ed era ancora restio ad una funzione pedagogica.
In America, contrariamente a quanto detto per l’Europa, i musei ebbero fin da subito una vocazione di “servizio pubblico”; il loro stretto legame con la produzione industriale gli permise di intraprendere un percorso fortemente didattico che coinvolse immediatamente i ceti più bassi.
Nel panorama dei musei europei, una figura in particolare risulta fondamentale per il rinnovamento concettuale e contenutistico dell’istituzione: Alexander Dorner.
Nel 1923 venne affidata la direzione del Landesmuseum di Hannover all’allora appena trentaduenne Alexander Dorner, con l’espresso compito di svecchiare un’istituzione che stava vivendo il suo maggior periodo di crisi. Il progetto portato avanti da Dorner è una risposta decisa alle critiche delle Avanguardie europee. Il suo nuovo museo non è più un luogo statico dove si assiste alla cosiddetta morte dell’arte; le opere non vengono allestite in spazi neutri per farne risaltare l’aurea, né tanto meno sono previste periods room organizzate secondo un ordine cronologico.
Ciò avviene perché Dorner non considera l’opera d’arte come qualcosa di assoluto e immobile, ma come un esempio del continuo mutamento estetico rapportato ad un determinato periodo. In questo modo l’arte diventa un “processo di sviluppo aperto e illimitato”, viene dunque spezzata la catena che legava l’opera alla storia degli stili, in particolare viene negata la controproducente rigidità, tipica di quest’ultima, nel concepire una supremazia dell’Essere statico sul Divenire.
Il ruolo del museo diventa quindi quello di mostrare lo sviluppo e la dinamicità della realtà, mai immobile e canonizzata, attraverso l’impatto delle opere d’arte presentate come esemplificazione del continuo stato di mutamento. Un museo, che per la prima volta, mette al centro del suo percorso narrativo le forze trasformatrici che hanno caratterizzato le realtà storiche, mettendo finalmente da parte le presunte categorie eterne dell’arte. Per far questo il museo necessita di un carattere di flessibilità sia nell’ambito architettonico, sia in quello allestitivo, in modo da poter trasformarsi anch’esso rapportandosi ai continui cambiamenti della contemporaneità.
È proprio in questo contesto di cambiamento radicale dell’istituzione museale che il direttore di museo, basandosi sulla sua propria capacità di immaginazione e sulla sua sensibilità, diventa imprescindibile. Il suo compito non si limita più alla semplice conservazione e all’arricchimento della collezione del museo, adesso ha il compito di mostrarne la sua insita dinamicità, in modo da poter catturare la sensibilità degli spettatori e renderli partecipanti attivi e consapevoli.
Secondo Dorner il museo ha, infatti, due funzioni preponderanti: la prima, con un implicito rimando alle innovative scelte museali americane, è quella di stabilire una connessione tra l’arte e il design industriale, sottolineando come esso non sia un elemento fine a stesso, ma “una componente attiva della nuova economia e della nuova società”. La seconda è quella di mostrare l’inseparabilità del movimento moderno con l’intera evoluzione dell’arte storica, sottolineando un processo autonomo di trasformazioni che si ripresenta dalla preistoria a oggi.
Un luogo dove gli oggetti d’arte non fossero esclusivamente portatori di memoria, ma avessero il fine di generare conoscenza, permettendo così ai visitatori di interrogarsi sull’evoluzione irreversibile che è avvenuta durante l’arco di tutta storia e di poter in questo modo dare un significato al presente.
Il museo viene da lui definito come una sorta di Kraftwerk, una fabbrica dinamica capace di cambiamenti spontanei, di improvvisazioni, dove lo spettatore è chiamato ad una riflessione attiva sulle diverse tematiche della contemporaneità attraverso una rivisitazione continua della collezione.
La sistemazione del Lande Museum di Hannover, dal 1925 fino al 1936 (anno in cui Dorner fu costretto a fuggire in America a causa delle persecuzioni naziste) è l’esempio tangibile delle riflessioni teoriche fin qui citate.
La collezione del museo era divisa in tre diverse sezioni: dal Medioevo al Rinascimento, dal Rinascimento al Romanticismo, dal Romanticismo a oggi. Quella che poteva sembrare una divisione prettamente cronologica, molto simile a quella presentata nelle periods rooms americane, aveva in realtà un carattere profondamente diverso. Le stanze del museo erano organizzate come atmosphere rooms, ovvero stanze dal carattere fortemente immersivo, dove il visitatore, attraverso un percorso narrativo, aveva la possibilità di cogliere tutte le sfaccettature e tutti i cambiamenti avvenuti nel linguaggio figurativo durante un determinato periodo storico.
Dorner utilizza questi ambienti per veicolare un messaggio ben preciso: i cambiamenti artistici sono lo specchio dei cambiamenti, culturalmente e storicamente determinati, della visione.
Ogni stanza prevedeva quindi ad un macro-tema generale collegato alle pratiche artistiche: la sezione “dal Medioevo fino al Rinascimento” corrispondeva ad una visione di tipo strettamente religioso, quella del “Rinascimento fino al Romanticismo” aveva come centro della narrazione la solidità della prospettiva geometrica, l’ultima sezione dal “Romanticismo a oggi” considerava la pluralità dei punti di vista e la dinamicità delle prospettive.
Le scelte del direttore, che in questa fase diventa anche “curatore”, ricadono anche sugli spazi, non più a servizio dell’opera, ma pensati per creare un’atmosfera dinamica che riconducesse ad una visione d’insieme.
Esemplare l’utilizzo del colore, differente per ogni sala e utilizzato come elemento plastico, la posizione delle luci, l’apposizione dei tendaggi come cesure tra le stanze tematiche, sono caratteri significativi della concezione nuova che propone Dorner. L’innovazione che salta subito all’occhio è l’accompagnamento didattico testuale previsto per ognuna delle sale; il visitatore non è semplicemente accompagnato dalle parole del curatore, viene per la prima volta chiamato a comprendere e vivere il contenuto della sala.
Alexander Dorner non si limitò a rivoluzionare la collezione permanente; aprì il museo a progetti espositivi dal forte contenuto avanguardistico, tra cui vale la pena ricordare il celebre Kabinett del 1926 realizzato dall’artista russo El Lissitzky. Nato da una collaborazione strettissima tra artista e direttore, il Kabinett fu un esempio delle possibilità espressive del nuovo museo; un luogo in continua metamorfosi, fortemente dinamico, dove la smaterializzazione dello spazio individuava, secondo Dorner, l’arte di primo Novecento.
Alexander Dorner fu una figura profetica per l’arte e soprattutto per la museologia di tutto il Novecento. Riuscì, con più di trent’anni di anticipo a capire che si sarebbe dovuta abbandonare la concezione di opera d’arte come qualcosa di sacro e inarrivabile, mettendo il museo e l’opera stessa a servizio dello spettatore.
La sua attenzione verso l’istruzione e soprattutto sulle dinamiche di partecipazione del visitatore saranno temi ampiamente trattati, non solo dai museologici, ma anche dagli artisti negli anni successivi.