È un anno che siamo sotto scacco per questo Coronavirus, il diciannovesimo fra quelli conosciuti e classificati dall’uomo, un virus cui, nei miei studi di microbiologia, 50 anni fa, nessuno dava il valore di una cicca fumata. “Giusto un raffreddore” dicevano. Anche qualcuno oggi, lo diceva. Forse hanno studiato sugli stessi miei libri. Anche il concetto di pandemia, del resto, aveva avuto pochi estimatori fra i professori delle mie tre specializzazioni. Una volta sola qualcuno vi aveva accennato nel corso di studi di igiene e medicina preventiva, 40 anni fa, come fosse una cosa lontanissima nel tempo, impossibile a verificarsi. Invece non era così. Dopo un anno di stravolgimenti mi sembra di aver capito delle cose, ma non ne sono sicuro. Stiamo vivendo un problema di relazioni fra esseri più o meno viventi. Non è un problema solo del virus o di noi umani. È un problema del virus e di noi umani, insieme. È un problema, soprattutto, di come trattiamo la vita sul Pianeta.
Un pipistrello tiene al calduccio da generazioni il suo bel virus, ci convive, se lo porta dietro serenamente. Succede che nel giro di pochi anni il suo habitat viene sconvolto, invaso dall'uomo. Non accade solo a una specie di pipistrello, ma a topi, scimmie, zecche, altri esseri viventi disturbati dalla crescita esponenziale della popolazione umana, dalla perdita di biodiversità. È casuale, oggi, che sia proprio un pipistrello la pietra dello scandalo. In futuro potrebbe essere qualsiasi altro animale.
Ormai noi bipedi nudi, voraci e invasivi, siamo 7,8 miliardi. Nel 1951, quando sono nato io, eravamo 2,5 miliardi.
Il pipistrello, il topo, la scimmia non lo fanno apposta, ma, disturbati, mollano il loro virus più vicino all’uomo di “prima” dell’invasione del loro habitat, attraverso varie vie - può essere la saliva, può essere la loro cacca - nel loro ambiente che noi abbiamo invaso e inquinato.
Il virus ci mette un po' per passare dall’animale all’uomo, deve adattarsi, andando incontro a diverse mutazioni, ma prima o poi imbrocca quella giusta e finisce sulle nostre mucose, penetra nelle nostre cellule che gli consentono di riprodursi. Fa il salto di specie.
Gli scienziati continuano a discutere se il virus sia un essere vivente o no. All’Università ho appreso, allora, che non lo era. La sua identità fra vivente e non vivente si descriveva con metafore, criteri, ragionamenti. A me ora sembra sempre più che sia una forma di vita, anche se mancano delle caratteristiche che lo renderebbero, secondo gli uomini, un essere vivente, ad esempio, quella di riprodursi in autonomia. Ma forse sono gli uomini a dover modificare il loro sapere. La loro idea di “vita” è ancora legata a parole e pensieri religiosi di libri antichi o di scienziati di 2-300 anni fa: Cartesio (corpo e mente separati), il polveroso e maniacale Linneo, il buon Darwin. Gli scritti di quest’ultimo sono stati interpretati dai contemporanei e dai posteri in vario modo. Tutti leggiamo e porgiamo attenzione più a quello che assomiglia alle nostre credenze precedenti. L’idea di lotta selettiva per la sopravvivenza - fight for survival - colpì molto i suprematisti di allora e giustificò il colonialismo.
Quello che nella realtà succede alle specie viventi sono adattamenti progressivi ai cambiamenti dell’ambiente, studiati dall’epigenetica. Ci sono attorno al DNA delle cellule viventi delle molecole complesse che gli trasmettono i cambiamenti dell’ambiente circostante, e ne inducono delle reazioni adattative.
La vita è anche co-generazione di sempre nuovi cicli ecologici di fornitura di cibo, che se vengono interrotti dal decadimento di una sola specie mettono in pericolo molte altre specie. Ecco perché, se l’industria chimica priva di etica avvelena le api mette in pericolo tutti, anche se stessa. Queste discussioni continuano e la visione sistemica della vita sta modificando la nostra percezione.
Un virus, per riprodursi, ha bisogno delle cellule di un ospite vivente. Se è un uomo, si riproduce su di noi. Sembra quindi la pulsione riproduttiva a fa penetrare il virus, protetto dalle goccioline di saliva, nelle nostre cellule, fornite di un apparato adatto a favorirne la replica. Entra, e la cellula in cui il virus si riproduce ammala e muore o si modifica. Nel caso dell’infezione da Covid-19 delle cellule dei nostri alveoli polmonari diventa “sincizio”, cellule grandi grandi con più nuclei, che perdono la loro meravigliosa attitudine a far passare l’ossigeno e l’anidride carbonica dentro e fuori dai polmoni. E non respiriamo più.
Ho capito che il virus può entrare in tutte le cellule dell'uomo. In alcune si replica meglio, in altre peggio. La specie umana ha le sue difese, costituite dal sistema immunitario, fatto da cellule che riconoscono il virus come “altro da sé”, e, attraverso vari meccanismi, abbastanza, ma non ancora completamente noti, riesce, nel giro al massimo di 15 giorni, a distruggere il virus. In alcune persone purtroppo, dopo una settimana circa di malattia, si determina una reazione infiammatoria molto pesante, che colpisce prevalentemente gli endoteli dei vasi (i loro rivestimenti interni), provocando un fenomeno già noto detto “coagulazione intravascolare disseminata” o “CID”, che coagula il sangue nei piccoli vasi. Se succede nei polmoni, con gli alveoli già sofferenti per le modifiche delle loro cellule indotte dal virus, sono guai. È il secondo motivo per cui si finisce col non respirare più. La simil-CID può avvenire in altri organi, come, ad esempio, i reni, provocando una insufficienza renale che ci può portare alla dialisi. Se il virus passa nel cervello attraverso il naso, mozzandogli l’odorato, e lo infetta direttamente, provoca una encefalite... che non è proprio bello. Insomma, sto virus, se ci invade, passa dappertutto e fa danni.
Noi lo riconosciamo con il sistema immunitario e quasi in tutti i casi, sorpresa! Non ci ammazza. Provoca sintomi in circa metà di quelli che sono venuti a contatto con lui, nell’altra metà no. Ma tutti, con o senza sintomi, possiamo trasmetterlo ad altre persone con le goccioline di saliva che si emettono tossendo, starnutendo, sputacchiando quando parliamo, parlando ad alta voce, cantando. Queste goccioline vanno, in media statistica, anche a due metri di distanza. Ma anche a un metro o a quattro metri, dipende. È una lotteria. Se stiamo al chiuso è peggio. Finestre aperte sempre se si può, e mascherina e distanza se non sappiamo chi frequentano i nostri interlocutori. Quindi quasi sempre, se stai al chiuso e in compagnia, metti la mascherina. Se tocchi una cosa che non conosci, lavati le mani.
Dieci persone su cento contattate dal virus, stanno veramente male, circa 2-4 su 100 muoiono. Forse star male e morire dipende dalle malattie vere che già ci affliggono. Si sta peggio se siamo poveri, ignoranti, viviamo in ambienti promiscui, affollati. Si sta peggio se siamo gravemente ipertesi, se si hanno già delle malattie di cuore, o un diabete conclamato, se siamo troppo grassi, se abbiamo un tumore in trattamento e la nostra immunità è depressa dai farmaci, se abbiamo una malattia degenerativa autoimmune.
La gravità della malattia dipende anche dalla carica virale che ci assale. Se respiriamo due goccioline di saliva con dentro il virus di un altro che ci passa accanto, magari correndo, senza mascherina, non ce ne accorgiamo neppure. Se stiamo in luoghi affollati non siamo diversi dai polli in allevamento intensivo: basta un unico portatore perché tutti si prendano l’influenza aviaria o la diarrea da salmonella. Se stiamo accatastati in un autobus, allo stadio, in palestra, in chiesa, in treno, in fabbrica, in ufficio al chiuso siamo in pericolo. Se stiamo con i nostri amici al bar per ore a bere sprizzetti e parlare ad alta voce facendo a gara a chi le spara più grosse, a chi urla di più (esercizio antropologicamente noto come “lotta per la supremazia”), è molto più facile che la carica virale che ci becchiamo (noi stupidi) dal nostro amico portatore del virus (che vero amico non è) sia alta, molto alta, e ci faccia venire la malattia o che, anche senza sintomi, possiamo passare ad altri. Che forse si ammaleranno. Oggi anche i bambini e i giovani, oltre che ai soliti nonni, più che lo scorso anno con le varianti emerse in questi mesi.
Chi sta veramente male o muore soffocato entro qualche settimana di terapia intensiva e a prezzo di grosse sofferenze (anche di tutti gli “altri”: medici e infermieri che ci curano, i parenti, gli amici), oppure riesce a tirarsi fuori, ma qualcuno sta male per qualche mese, e non si sa quanto durerà. Alcuni, fra i primi contagiati, stanno ancora male da un anno. La chiamano sindrome post Covid. Con l'Asiatica nel '56, dovuta ad un virus diverso, mio babbo stette male per qualche settimana, una volta passata la febbre. Soprattutto sentiva fiacca, mal di testa, spossatezza, tanto bisogno di recuperare. Questi sintomi si curavano con il brodo di pollo.
Anche ai malati di adesso succede così. Dolori dappertutto, fiato corto a far le scale, e anche sul piano, gambe molli, si sentono diversi da prima, più fragili. Diventano tristi, ma non è solo una sindrome psicopatologica, come affermano molti interessati a vendere antidepressivi e psicoterapie. È un problema organico misconosciuto di cui (lo dice l’OMS) non si conosce la portata, e che viene purtroppo non compreso dalle tribù degli insegnanti efficientisti, degli spietati capi del personale, dai medici di fabbrica pagati per negare l’evidenza in nome della produttività. Per un malessere di questo genere esiste, da qualche centinaio di migliaia di anni, la "convalescenza", diventata incompatibile con i ritmi fast ed i miti del lavoro, dello studio, dei consumi, della produzione del divertimento compulsivo. La mancanza di tempo per la convalescenza accompagna e guida il logorio della vita moderna.
Il virus inoltre, direbbe un triestino come me ad un amico, "no xe mona". Lui "vuole" riprodursi nelle nostre cellule. Succede che, se le nostre cellule si difendono molto e bene, lui fa in modo di cambiarsi d'abito, quel tanto che basta per non farsi riconoscere, mettersi un costume diverso. Mette così in crisi il sistema immunitario che lo riconosce, ma in ritardo, e si può sviluppare ancora. Nascono così, come vere e proprie “proprietà emergenti” descritte dai biologi sistemici, le varianti, inglese, brasiliana, scozzese, forme del virus che, a forza di farci fare anticorpi "scelgono" di cambiarsi d’abito, per continuare a riprodursi nelle nostre cellule senza essere riconosciuti e disturbati. È forse per questo motivo che si verificano e sono state descritte, in tempi passati, ma anche adesso, le diverse ondate delle pandemie.
La nostra prima ondata cui abbiamo assistito è stata con il virus originale, appena uscito da un pipistrello innocente, la seconda ancora con il virus originale perchè il branco di bipedi non ha capito nulla su come difendersi. Addirittura alcuni suoi rappresentanti si mostrano indomiti e inattaccabili da qualsiasi virus, ponendo i loro tatuaggi a difesa della loro libertà di birretta al bar intanto che il branco sta comunque apprendendo a forza di malati e di morti. La curva di apprendimento è lenta, l’uomo è un animale mediamente lento nell’apprendere. Quando poi si fa governare con un sistema elettivo - lo si vede ovunque nel mondo - tende a votare i più prepotenti, i corrotti, i rappresentanti di chi li lancia sul mercato della politica e li finanzia, quelli per cui non conviene fermare tutto, come dovrebbe essere normale per evitare la trasmissione da uomo a uomo di un virus potenzialmente letale. Per non far perdere quote di mercato ai finanziatori della politica si tiene aperto il più possibile tutto, e quelli che detengono il potere, cioè detengono la proprietà dei mezzi di produzione e di comunicazione, li usano per gestire a loro favore le disgrazie di tutti, come succede, approfittarne per guadagnare di più.
Intanto il virus è mutato e colpisce prevalentemente quelli che non hanno capito che è bene indossare la mascherina, porsi in distanziamento fisico dagli altri bipedi, lavarsi le mani, isolarsi, evitare contatti, agire con prudenza. Ma c'è l’economia del guadagno immediato, il lavoro, cui siamo legati, il mutuo da pagare, le tasse, la scuola, le relazioni famigliari cui non sappiamo fare a meno, le cene ai ristoranti, lo struscio per farsi vedere con la fidanzata, le relazioni di amicizia, il carnevale e il cenone di capodanno, lo shopping compulsivo, il bisogno di cocaina, alcool, sensazioni forti, stordimento, dipendenze sociali ancor più tossiche in corso di pandemia, per cui arriva la terza fase, quella con i virus mutati, e colpisce peggio, e così sarà una quarta e una quinta. Finché non l'avremo presa tutti 7,8 miliardi e avremo tutti una qualche immunità. Con o senza vaccinazione. La vaccinazione, a proposito, facendoci generare anticorpi contro un pezzo del virus, quello che riveste l’RNA, ci permette di riconoscere in tempo un attacco virale e di fare anticorpi prima che faccia danni. Forse - tutti speriamo vivamente di no - non riuscirà a prevenire infezioni da virus molto mutato, ma per ora non lo sappiamo. Ripeto per gli amici: “el virus no xe mona”... di fronte ad anticorpi comunque fatti, muta, perché si vuole riprodurre. Non si possono staccare due adolescenti che vogliono riprodursi, “impossibile, se lo vogliono proprio” diceva un mio maestro di pediatria citando Romeo e Giulietta. “Se glielo impedisci, rischiano di morire”, è "la forza dell'amore", diceva Enzo Jannacci.
Vaccinarsi è giusto, senza se e senza ma, riduce la gran massa di infetti, protegge la gran massa di infettati e riduce soprattutto le infezioni gravi che danno le cascate infiammatorie che soffocano le persone. Gli effetti collaterali sono minimi, irrilevanti. Così almeno spero.
Io appena posso, mi vaccino.
Amici che leggete, ho capito bene? Sarà interessante vedere che cosa avrò capito ancora fra un anno, se ci arrivo.