Quale destino attende i maestosi e spettacolari ghiacciai delle Alpi (più in generale questi preziosi patrimoni di risorse e conoscenza del passato diffusi su tutto il globo)?
Le ricerche, i dati che si raccolgono ormai da decenni ci parlano di una triste via del tramonto, di un neppure lento cammino verso il loro scioglimento o, nella migliore delle ipotesi, il loro drastico ridimensionamento con tutte le conseguenze ambientali, idriche, di stabilità dei territori e via dicendo in un interminabile elenco di danni probabili o assolutamente sicuri. La scienza avverte che la loro esistenza è minacciata direttamente dal riscaldamento del pianeta dovuto a una serie di concause e tra queste all’incredibile forza di impatto progressiva delle attività umane negli ultimi duecento anni. Un trend che in meno di un centinaio di anni ha assunto caratteristiche ed effetti parossistici. Certo, si aggiunge anche che le dinamiche stesse della terra, il lento variare dell’asse del pianeta e dell’insolazione degli emisferi, ad esempio, influiscano in modo importante, come l’attività tellurica e vulcanica che liberano in atmosfera sostanze gassose inquinanti o filtranti della luce solare.
Se, però, questi ultimi fattori non possono essere controllati dall’uomo, certamente l’umanità può influire sui propri comportamenti mitigando e rallentando per quanto possibile queste dinamiche. Sullo sfondo anche possibili brevi o meno periodi di glaciazione. Anche questo elemento è però per così dire fuori portata e risente di forze assolutamente incontrollabili.
La ricerca sempre più approfondita e con strumenti sempre più precisi sui ghiacci e su quello che i loro strati profondi raccontano, ci può permettere di comprendere tempi e modi dei cambiamenti avvenuti nel passato, in migliaia di anni, facendoci “guardare” nel clima del pianeta in tempi lontanissimi, anche in quelli nei quali l’impronta umana ancora non si poteva misurare. E ci può dare risposte tendenziali su che cosa accade in quella piccola fascia di atmosfera che garantisce la vita di tutte le specie, animali e vegetali. In un certo senso conoscere questo termometro planetario, le sue variazioni in salita e in discesa, i tempi delle variazioni, i fattori imprevisti, può permettere di assumere comportamenti equilibrati e saggi, al netto ovviamente degli elementi che non possiamo controllare. Sapendo però che il riscaldamento umano, lo sciogliersi dei ghiacci che contribuisce a provocare, rischiano di innescare ulteriori modificazioni e una vera spirale che si autoalimenta di fenomeno in fenomeno. È in questa ottica che si situa lo studio pubblicato sulla rivista scientifica internazionale Climate Dynamics nel quale si illustra l’evoluzione di tutti i circa 4.000 ghiacciai alpini su un arco temporale di 200 anni, a partire dal 1901 e sino al 2100. L’analisi è stata svolta da un team internazionale composto dall’Istituto di scienze polari del Cnr, da Aberystwyth University del Galles (UK), dall’International Center for Theoretical Physics (Ictp) e Dipartimento di Matematica e Geoscienze dell’Università di Trieste. Primo risultato capire come si sia modificata e come potrà modificarsi la ELA ovvero l’Equilibrium Line Altitude. In pratica quella linea immaginaria ma fisicamente rilevabile in altitudine nella quale lo stato delle montagne e in primis dei ghiacciaci si trova in equilibrio.
Secondo la ricerca che abbiamo citato, la Equilibrium-Line Altitude, dipende strettamente dai parametri climatici (temperature estive e precipitazioni invernali) e identifica la quota che separa la zona di accumulo di un ghiacciaio, quella cioè che alla fine dell’estate preserva parte della neve caduta nel corso dell’inverno precedente, e la zona di ablazione, dove invece la neve invernale sparisce completamente a causa del caldo estivo e riduce così anche il ghiaccio più antico.
Ben visibile anche dai dati da satellite, questa linea - osserva Renato R. Colucci, ricercatore del Cnr-Isp, a capo del team di ricerca e ideatore di questo lavoro assieme a Manja Žebre, Marie Curie alla Aberystwyth University e prima autrice – “è un termometro diretto dello stato di salute di un ghiacciaio in relazione al clima. Se il clima cambia, la ELA si modifica alzandosi o abbassandosi di quota. Meno neve durante l’inverno e più caldo in estate portano la ELA ad altitudini più elevate, se va a collocarsi sopra la quota più alta occupata da un ghiacciaio, questo è destinato a scomparire, in quanto non potrà più godere della sostituzione del vecchio ghiaccio con quello nuovo”. Una prima e non confortante risposta ai dubbi e ai pericoli che i ghiacciai stanno correndo.
“Le osservazioni eseguite sui dati del passato, sfruttando i dati presenti negli archivi climatici alpini, sono stati prima confrontati con i dati della ELA, archiviati al World Glacier Monitoring Service, e poi proiettati nel futuro, sfruttando gli scenari prodotti dai modelli regionali ad alta risoluzione Euro-Cordex”, prosegue il ricercatore. “Il gruppo si è servito delle tre proiezioni di emissioni di gas serra (Rcp) normalmente usati e che riproducono gli scenari di cambiamento climatico possibili in base alle scelte che saranno intraprese nell’immediato futuro, ossia i cosiddetti Rcp 2.6, 4.5 e 8.5 (protezione del clima con fine delle emissioni di gas serra entro 20 anni, entro 50 anni e nessuna protezione del clima con emissioni che proseguono incontrollate”. Proiezioni realizzate grazie al lavoro dell’Ictp con Filippo Giorgi, coautore di questa ricerca e membro dell’Ipcc, Premio Nobel per la Pace nel 2007”.
I modelli di riferimento, sottolinea la ricerca indicano che a seconda dello scenario che si verificherà, la ELA salirà in misura diversa, con una forte e drastica riduzione del volume e della copertura di ghiaccio sulle Alpi. Previsioni non incoraggianti: nel più ottimistico degli scenari di circa 100 m, nello scenario intermedio di 300 m e in quello più estremo di 700 m. Conseguenza di questi dati: da qui al 2100 potrebbe rispettivamente scomparire il 69%, l’81% o il 92% dei ghiacciai alpini”.
“In ogni caso - la drammatica conclusione - il totale disequilibrio con il clima dei ghiacciai attualmente localizzati al di sotto dei 3500 m di quota sulle Alpi, porterà comunque alla loro quasi totale scomparsa nel giro dei prossimi 20-30 anni”. Un destino che sembra segnato a meno di una inversione di tendenza che attualmente non si intravede del tutto.
Accanto a questa evoluzione, il progressivo diminuire del peso dei ghiacciai, avrà un ruolo anche su un altro fenomeno: il crescere tuttora in atto della catena alpina, dovuto ai fenomeni geologici da sempre in atto e che ne segnarono la nascita: la spinta della piattaforma continentale africana contro quella euroasiatica. Le Alpi sono infatti una catena montuosa ancora giovane, essendosi formate circa 65 milioni di anni fa. Per avere un’idea, secondo recenti ricerche, il Monte Bianco potrebbe essere cresciuto di 750 metri nell'ultimo milione di anni, se non fosse per l'effetto dell'erosione in superficie. Le Alpi crescono di circa 0,75 mm all'anno. Ma non è una crescita netta: l'erosione in superficie, infatti, limita fortemente questo movimento. Con sempre meno ghiacci la dinamica potrebbe incrementarsi.
Se il futuro dei ghiacciai alpini e nel mondo è dunque a rischio, esso è anche legato ad un altro fenomeno sul quale sono in corso studi e ricerche. Ovvero l’influenza sul clima delle particelle, delle polveri, di quello che si indica come particolato. E l’ecosistema di alta montagna costituisce lo scenario più importante e al tempo stesso più in pericolo. In pratica la formazione di particelle da processi biologici nella troposfera, lo strato dell’atmosfera più vicino alla Terra, può influenzare il cambiamento climatico locale. Questi dati vengono da un altro studio compiuto sulle alte vette dell’Himalaya in Nepal, pubblicato sulla rivista Nature Geoscience, condotto dall’Istituto di scienze dell'atmosfera e del clima (Cnr-Isac) di Bologna per un decennio presso il Nepal Climate Observatory at Pyramid, a 5.079 m di quota, nei pressi del campo base per la salita sul Monte Everest, dove è possibile studiare la formazione del particolato lontano dalle sorgenti antropiche.
I risultati dimostrano che grandi quantità di particelle si formano nelle valli himalayane a partire da precursori gassosi di origine naturale e possono essere trasportate in quota grazie ai sistemi dei venti di valle, fino in alta atmosfera, e possono influenzare il clima agendo come nuclei di condensazione delle nuvole.
“La formazione di nuove particelle è un fenomeno comune, ma i meccanismi che regolano questo processo sono ancora in parte sconosciuti. Per la prima volta siamo riusciti a provare che in questa valle, con molta probabilità, i gas precursori di particelle sono composti organici emessi dalla vegetazione a quote più basse”, afferma Angela Marinoni del Cnr-Isac. Durante il trasporto lungo la valle, questi gas sono convertiti da reazioni fotochimiche in composti a volatilità molto bassa, che mutano rapidamente in un numero elevatissimo di nuove particelle. Queste sono poi trasportate nella troposfera libera. Possiamo quindi pensare alla catena himalayana come a una grande fabbrica che produce continuamente nuove particelle e le trasporta nell’atmosfera sopra l’Everest, aumentandone il numero anche più del doppio”, prosegue dal canto suo Paolo Bonasoni anche lui ricercatore del Cnr-Isac.
La particolarità del fenomeno però, e questo consente di analizzare i fenomeni anche da un altro punto di vista, è che le particelle appena formate hanno un’origine naturale con evidenze di coinvolgimento di inquinanti antropici (presenza di anidride solforosa) trascurabili. Dunque il processo è quindi probabilmente immutato dal periodo preindustriale a oggi e può rappresentare una delle principali fonti che hanno contribuito all’aerosol in alta atmosfera da sempre. Queste osservazioni sono quindi importanti per stimare meglio la concentrazione di base nel periodo preindustriale per gli aerosol in tutta la regione. L’inclusione di tali processi in modelli climatici può migliorare la comprensione del cambiamento delle condizioni atmosferiche e la previsione del clima futuro. Ulteriori ricerche dovranno essere condotte per quantificare meglio questo fenomeno e per indagarlo anche in altre regioni di alta montagna, la conclusione del rapporto sulla ricerca.