Con Nelson Mandela scompare un combattente per la libertà e per la dignità del popolo africano; la sua morte non deve diventare il preludio alla santificazione di un eroe, alla venerazione di un idolo o alla riduzione a gadget di un’icona pop. È doveroso porre l’accento su quest’aspetto, innanzitutto per il rispetto dovuto a chi ha sempre rifiutato di essere trasformato nel mito vivente di se stesso e fino alla fine ha anteposto il bene comune del popolo sudafricano al culto della propria personalità, nonostante già in vita gli fossero stati tributati i crismi della “santità”.
Ma lo è anche perché i fasti commemorativi che ne stanno accompagnando il lungo congedo da questo mondo rischiano di diventare il lavacro della cattiva coscienza dell’Occidente; di stendere un agiografico velo di oblio sulla storia tragica del Sudafrica e sulla stessa biografia del suo primo Presidente nero, liquidando troppo rapidamente il passato di violenze e la memoria delle rivolte represse nel sangue da cui soltanto traggono senso la Verità e la Riconciliazione assunte da Madiba come valori guida della sua azione politica negli anni della Presidenza (1994-1999), coincisi con la fondazione su basi multirazziali della Rainbow Nation.
Quella di Mandela è una biografia che prima dell’incoronazione a statista e dei riconoscimenti internazionali ha patito l’ingiustizia della segregazione razziale, la militanza clandestina contro il regime dell’apartheid e la deprivazione di ventisette anni di carcere, vissuti in solitudine e perlopiù nell’indifferenza, o addirittura con l’esplicito sostegno di molte potenze occidentali, a cominciare dagli Usa e dal Regno Unito, che con l’alibi della necessità di arginare il diffondersi del comunismo in Africa hanno protetto, fino alla caduta del Muro di Berlino, il regime razzista di Pretoria, accreditando di fatto la tesi ufficiale secondo la quale Mandela era un pericoloso terrorista.
La sua storia politica comincia a metà degli anni Quaranta, quando, giovane avvocato, fonda la Youth League, la lega giovanile dell’African National Congress (ANC), il partito del nazionalismo africano cui aveva aderito qualche anno prima. Si rende conto, infatti, che è necessario imprimere una radicalizzazione alle campagne di sensibilizzazione del partito e s’impegna a organizzare azioni di disobbedienza civile, boicottaggi e scioperi, che nel 1952 gli valgono il primo processo con l’accusa e la condanna a nove mesi per «comunismo». Contemporaneamente, insieme con il compagno di partito Oliver Tambo, apre lo studio Mandela & Tambo, che offre assistenza legale ai neri che non possono permettersela.
Dopo un altro processo per alto tradimento nel 1956 (Mandela sarà assolto cinque anni dopo), il 21 marzo 1960 giunge la strage di Sharpeville: sessantanove africani inermi vengono massacrati dalla polizia, molti con colpi di arma da fuoco alla schiena, durante una manifestazione anti-apartheid. È proclamato lo stato d’assedio, l’ANC è messa al bando e Mandela entra in clandestinità; si rende conto che la resistenza armata è una scelta resa obbligatoria dalla pervicacia con cui il regime razzista nega ogni spazio di agibilità politica ai neri che lottano contro la discriminazione razziale e per l’emancipazione dalla povertà. È una fase drammatica, ricostruita da Mandela nella deposizione al processo di Rivonia (1963-1964), al termine del quale sarà condannato all’ergastolo per sabotaggio e insurrezione contro i poteri dello Stato.
Nel 1961, in clandestinità, contribuisce a creare l’Umkhonto we Sizwe (Lancia della Nazione), il braccio armato dell’ANC. L’organizzazione adotta una strategia precisa basata su azioni di sabotaggio contro obiettivi legati al regime, ma anche sulla possibilità della guerriglia, mentre rifiuta la violenza terroristica. Con realismo, la struttura armata si prepara all’eventualità di una futura «guerra civile» e per questo tra il 1961 e il 1962 Mandela compie varie missioni all’estero, in particolare in alcuni Stati africani, in cerca di armi e di mezzi per addestrare i combattenti di Umkhonto. Nel frattempo, si rafforza la collaborazione con il Partito comunista sudafricano, già messo al bando dal regime. Su questo punto Mandela è molto chiaro nella sua deposizione, affermando che, pur non essendo mai stato comunista, si deve riconoscere «che per molti decenni i comunisti sono stati l’unico partito politico in Sudafrica che si è detto pronto a trattare i sudafricani come esseri umani e come eguali; i comunisti erano disposti a mangiare con noi, parlare con noi, vivere e lavorare con noi, ed erano l’unico gruppo politico disposto a collaborare con gli africani nella battaglia per i diritti politici e per un ruolo nella società».
È altrettanto esplicito riguardo ai rapporti internazionali del movimento anti-apartheid quando dichiara che «in campo internazionale ci sono Paesi comunisti che sono sempre venuti in nostro aiuto. In seno alle Nazioni Unite e in altri consessi internazionali, il blocco comunista ha sempre sostenuto la lotta afroasiatica contro il colonialismo e spesso sembra essere più favorevole alle nostre istanze di alcune potenze occidentali» (Dichiarazione all’apertura del processo alla Suprema Corte Sudafricana, Pretoria, 20 aprile 1964). Al suo rientro dalla missione all’estero (nell’autunno del 1962), Mandela è arrestato, condannato a cinque anni e rinchiuso a Robben Island. Nel 1976 scoppia la rivolta degli studenti di Soweto contro l’imposizione della lingua afrikaans (seicento morti in otto mesi); negli anni Ottanta insorgono a più riprese le township, con la polizia che ha mano libera nelle violente repressioni, culminate nel 1986 con la proclamazione dello stato d’emergenza. Intanto cambia la strategia della guerriglia, che ora comincia a colpire i simboli umani del potere razzista e i collaboratori del regime. Il presidente P.W. Botha, eletto nel 1979, offre a Mandela la libertà in cambio della rinuncia alla violenza, ma lui rifiuta, mentre l’arcivescovo Desmond Tutu si schiera apertamente a fianco della lotta anti-apartheid e in tutto il mondo, a partire dalla metà degli anni Ottanta, cresce la mobilitazione per la liberazione di Mandela.
In questo clima incominciano i colloqui segreti tra Mandela e il regime, criticati da alcuni settori dell’ANC, che accusano il leader di svendere gli ideali e le aspirazioni dei neri africani. Dal carcere di Pollsmore, dove era stato trasferito nel 1980, Mandela è ora rinchiuso in quello di Victor Verster, vicino a Città del Capo, dove a partire dal 1989 i negoziati continuano con F.W. De Klerk, il nuovo Presidente sudafricano. Nel frattempo è caduto il Muro di Berlino e vacilla l’Impero sovietico; il regime si rende progressivamente conto dell’anacronismo della segregazione razziale e delle odiose pass laws in un Paese che ha sempre più bisogno di manodopera nera ed è destinato a inserirsi a pieno titolo nella globalizzazione. Così, l’11 febbraio 1990, Mandela è liberato.
Cominciano allora gli anni più difficili, in cui il National Party (NP) e l’ANC avviano le trattative per la formazione di un governo multirazziale. Sono anni drammatici di recrudescenza della violenza, di proteste, scioperi e boicottaggi. Mandela si presenta come il simbolo dell’unità possibile della nuova nazione sudafricana; è abile nel gestire le trattative e nello stesso tempo nell’impedire che la violenza sfoci in un’aperta guerra civile. Gli anni di carcere l’hanno trasformato; dimostra che cosa è l’autentica non violenza: non arrendevolezza ma forza; la forza di chi pur potendo usare la violenza vi rinuncia, perché c’è un’altra possibilità, coltivando la pratica dell’ascolto e del rispetto del nemico di un tempo. La scommessa fa tremare i polsi: vincere la paura dei bianchi e la rabbia dei neri attraverso la speranza in un futuro di pace e di giustizia sociale, di uguaglianza e di prosperità per tutti; sconfiggere lo spirito di vendetta attraverso una profonda rielaborazione del passato comune, che non dimentichi nulla ma che non si faccia imprigionare dal ricordo e dall’odio che esso può legittimamente alimentare. Certo, gli ideali socialisti di un tempo si stemperano, sino a svanire, di fronte alla prospettiva di un pieno inserimento del Sudafrica nel novero dei Paesi emergenti, con un regime liberaldemocratico e un’economia aperta ai capitali stranieri. La scommessa è vinta, Mandela è eletto Presidente nel 1994, nelle prime elezioni libere del nuovo Sudafrica, mentre l’anno precedente è stato insignito, con De Klerk, del Nobel per la pace.
Il coronamento simbolico del miracolo è il Mondiale di Rugby del 1995, durante il quale il Presidente Mandela incita tutto il popolo a sostenere gli Springboks, la nazionale sudafricana odiata perché preclusa ai neri negli anni dell’apartheid, e arriva a indossare la maglia verde del suo capitano, F. Pienaar, cui consegna la Coppa del Mondo. La sostanza politica dell’operazione, invece, è la Commissione per la Verità e la Riconciliazione, istituita da Mandela con il compito non di varare un’amnistia generalizzata, come da talune parti gli è stato rimproverato, ma di avviare un processo collettivo di rielaborazione del proprio passato, allo scopo di accelerarne il tramonto e di prenderne definitivamente congedo, liberandosi dai suoi fantasmi e dalle sue coazioni a ripetere. Una sorta di terapia di gruppo di un’intera nazione, di mito fondatore della nuova nazione, da cui deve sorgere lo spirito del nuovo “popolo” sudafricano, di là dalle differenze di razza, di genere e di classe. Una strada obbligata, secondo Mandela, per un Paese forgiatosi nelle guerre anglo-boere, le prime tra coloni bianchi, in cui i colonizzatori boeri di un tempo sono stati a propria volta “colonizzati” dagli inglesi, e dove il popolo africano è sempre stato vittima delle violenze degli uni e degli altri, ma non è scomparso, non è stato annientato.
Durante le sedute della Commissione, le vittime delle violenze razziali raccontano nei dettagli la propria storia, dando voce e articolando la propria sofferenza. Gli aguzzini confessano liberamente i propri reati. Ciò che ne sortisce è un’esperienza di catarsi collettiva, nutrita della memoria del dolore degli uni e della memoria dell’odio degli altri, ma in cui sia la prima sia la seconda sono superate e per così dire “inverate” in un tutto più alto, più ricco e più concreto: il riconoscimento reciproco dei rispettivi torti e delle rispettive ragioni; la consapevolezza di poter fondare una nuova storia sulla base del rispetto per la verità. La verità, a fondamento della riconciliazione, ne diventa così anche l’esito ultimo: non è più verità di una parte soltanto ma di tutte le parti. È stata questa la scommessa di Mandela, in cui la filosofia della compassione e del rispetto per l’altro dell’Ubuntu africano si mescola con le pratiche dell’ascolto veritiero, dell’empatia con il prossimo, del ragionare fuori delle categorie amico/nemico, vinti/vincitori, colonizzatori/colonizzati.
Si tratta infine di capire se questa nuova identità multirazziale e postcoloniale abbia davvero messo radici nel popolo sudafricano; se essa riuscirà a sopravvivere alla fine del suo mito o se sarà destinata a svaporare in una sorta di marketing nazionale. Il Sudafrica che Mandela lascia, infatti, non è esattamente quello che aveva sperato che fosse. Ritiratosi a vita privata nel 1999, ha visto crescere intorno a sé nuove disuguaglianze di ricchezza e di opportunità, alimentate dalla voracità del libero mercato. L’economia sudafricana è oggi nelle mani delle multinazionali straniere e di un’élite bianca sempre più impaurita e insicura, reclusa dentro le proprie ville recintate e sorvegliate a distanza; i neri hanno ottenuto i diritti civili e politici, ma la loro condizione economica e le loro prospettive di ascesa sociale sono ancora largamente inferiori a quelle dei bianchi, mentre l’emergere di una minoranza nera di nuovi ricchi non è certo la soluzione dei problemi. A ciò si aggiungono gli episodi inquietanti di xenofobia da parte dei neri poveri delle township nei confronti dei lavoratori immigrati; la crescita di precarietà e insicurezza alimentate dagli incerti destini del mercato mondiale e delle sue mobili gerarchie; gli scandali e la corruzione tra le fila del governo di J. Zuma e all’interno dell’ANC.
Oltre la verità e la riconciliazione, la sfida che attende il Sudafrica post Mandela è la lotta contro l’apartheid sociale ed economico perché «finché esiste la povertà, non è possibile essere veramente liberi» (N. Mandela, Discorso alla folla radunata in Trafalgar Square per la manifestazione “Make Poverty History”, Londra, 3 febbraio 2005).
Testo di Furio Ferraresi