In uno dei trattati ermetici che hanno ispirato l’arte e la filosofia del Rinascimento, il dio Asclepio si rivolge al re Ammone affinché preservi l’eloquio egizio dalla traduzione in greco. I Greci, infatti, dice il dio della medicina, hanno una lingua fatta di discorsi vuoti che usano parole, i nomi egizi, invece, possiedono “suoni carichi di azione”. Già alla coscienza delle civiltà antiche è dunque presente il problema delle possibilità creatrici o disfattrici del linguaggio verbale, problema che si pone evidentemente nei termini oggi particolarmente interessanti per gli obiettivi della psicologia e che in tal senso chiama in causa due ambiti concettuali di rilievo per i recenti studi psico-evoluzionistici: il suono e l’azione.
Nell’ambito di una visione gradualista, il linguaggio sarebbe, come ogni tratto fisico e mentale, il prodotto di un adattamento evolutivo variamente e, per molti versi, ancora misteriosamente determinato dalle pressioni selettive che i nostri antenati si trovarono pur a dover fronteggiare. Non ci sarebbe pertanto un gap evolutivo incolmabile tra animale e uomo ma, al contrario, il possesso delle funzioni cerebrali superiori che consentono a Sapiens l’uso del linguaggio articolato non sarebbe che l’esito complesso dello sviluppo graduale di abilità più semplici, acquisito attraverso cambiamenti incrementali e passaggi intermedi. Ipotesi accreditate, come quella del riciclaggio neuronale di Stanislas Dehaene o della fluidità cognitiva di Steven Mithen, se da un lato ci permettono di comprendere alcuni dei meccanismi di adattamento posti in atto dal cervello umano grazie alla sua plastica capacità di riconvertire la propria architettura neuronale per scopi diversi, dall’altro ci consentono di guardare al linguaggio come ad un prodotto di interazioni fra domini diversi della mente e in grado di operare una de-modularizzazione della mente stessa.
Ciò che è certo è che oggi si guarda al linguaggio come alla linea di confine che discrimina Homo sapiens da tutte le altre specie animali e, a ragione, ci si riferisce ad esso come conquista e non come degenerazione dell’animale uomo. Se consideriamo le prime speculazioni della filosofia del linguaggio, esse registrano tuttavia quella che suona come una “perdita qualitativa” inerente proprio all’acquisizione di una abilità - quella linguistica - che in ultimo sembra aver procurato all’animale uomo uno scollamento tra le parole significanti (verba) e le cose significate (res) per il loro tramite. Il linguaggio umano, insomma, sarebbe portatore di tutta la distanza fra il mondo delle parole-etichetta e quello della Natura-essenza.
Nell’ambito della ricerca antropologica, autori come Bronislav Kasper Malinowski hanno osservato come il linguaggio, nella sua funzione primigenia, vada innanzitutto considerato come una modalità di azione piuttosto che come il referente simbolico di un pensiero. Le parole, all’alba dell’ominazione, avrebbero cioè svolto una funzione non riflessiva, come quella che per lo più le attribuiamo oggi, ma una funzione diretta essenzialmente alla sua efficacia nel mondo delle azioni. L’imposizione dei nomi alle cose, prima di diventare etichetta categoriale con cui classificare il mondo – in senso aristotelico – sarebbe valsa probabilmente ad esercitare, tra gli altri, con Andrew Ingraham, la funzione di mettere in moto la materia, una funzione tipica, aggiungiamo noi, delle operazioni ermetico-alchemiche la cui misteriosa comparsa si perde nella notte dei tempi.
Secondo Walter Burkert è addirittura ipotizzabile che la religione con le sue pratiche rituali abbia preceduto la nascita del linguaggio verbale. Allo stesso tempo, la prospettiva ecologica, nella visione alternativa di uno studioso come Tim Ingold, decodifica l’uso dei primi utensili nelle società di cacciatori-raccoglitori, che pur hanno adottato un pensiero magico, non, come si è oggi intuitivamente portati a credere, come strumento di “dominio” sull’ambiente circostante, ma piuttosto come strumento di “conoscenza” dell’intenzionalità della Natura.
Una delle più importanti conquiste degli ultimi decenni è proprio il superamento del paradigma cartesiano nell’ambito degli studi etologici. Siamo giunti finalmente a comprendere e ad accettare che la comunicazione sonora, non-lessicale degli animali pur possiede una sua specifica intenzionalità. Ora, l’idea che l’azione in termini emozionali, intenzionali e neurofisiologici, preceda e non consegua al linguaggio, collima da un lato con le assunzioni neuroscientifiche di Antonio Damasio, per il quale il linguaggio sembra semplicemente tradurre e, più che rivelare, coprire il flusso della coscienza, mentre dall’altra aderisce in modo compiuto all’affascinante ipotesi di Hermann Ackermann per il quale il canto umano avrebbe addirittura evolutivamente preceduto il linguaggio verbale. L’uomo ha cioè prima cantato. Lo sviluppo del linguaggio di Sapiens sarebbe infatti da collocare all’interno di una matrice non-verbale condivisa dagli uccelli canori, i cosiddetti songbirds. Questa ipotesi è tutt’altro che lontana dal magistero darwiniano se pensiamo che proprio il fondatore della teoria evolutiva ha ampiamente suggerito nei suoi scritti come probante direzione di ricerca dell’origine del linguaggio proprio il “senso della melodia” posseduto dai nostri progenitori sul modello degli uccelli.
Secondo la tradizione ermetica, ma anche secondo gli autori greci, arabi e nord-europei, da cui essa ha pur tratto ispirazione e fondamento nei secoli, sarebbe esistito - o esisterebbe ancora - un codice semantico universale, tutto ancora da decodificare, che va identificato con una lingua primigenia designata proprio con il nome di “Lingua degli uccelli”. Ebbene, oggi, in ambito sperimentale il riscontro di una deep homology, di una profonda omologia tra i suoni prodotti dalla comunicazione ornitologica e il linguaggio umano in termini di processi bio-cognitivi ci viene da un lato dalla genetica e dall’altro, ancora una volta, dalle neuroscienze.
Nel 2001 la scoperta del gene FOXP2 ha certamente messo in risalto la condivisione di materiale genetico tra gli uccelli canori e la specie Homo sapiens sapiens. Il gene, peraltro presente anche in altre specie animali, codifica infatti importanti funzioni di acquisizione del linguaggio sia negli uccelli che nell’uomo. Al di là del pur notevole contributo dell’indagine genetica, uno studio recente, oltre allo straordinario contributo di Ackermann e del suo gruppo di ricerca, è quello di Shigeru Miyagawa del MIT di Boston, che mostra ancora una volta le omologie e le differenze tra la produzione canora degli uccelli e la produzione linguistica umana. L’ipotesi integrativa avanzata dallo scienziato è che mentre gli uccelli canori usano un “sistema espressivo” che consente loro di “significare” mediante il canto diverse funzioni adattive, - come il corteggiamento - l’essere umano, oltre al medesimo sistema, sarebbe venuto in possesso di un “sistema lessicale” atto a produrre un contenuto specifico al fine di espletare la funzione del sistema espressivo canoro.
L’uomo sarebbe insomma l’unico rappresentante di una specie che ha evolutivamente integrato la melodica disposizione del canto animale con la precisione semantica della parola. Al di là della validità di questa lettura, ciò che è interessante notare è che una simile ipotesi porta alla conclusione che il canto, come la coscienza nucleare di Damasio, sia nato prima del linguaggio verbale articolato. Per quanto ancora permangano molte questioni irrisolte sul percorso storico, in senso evoluzionistico, e sulle relative pressioni selettive che hanno infine condotto la specie Sapiens allo sviluppo del linguaggio verbale, sembra che agli albori di una prassi comunicativa organizzata ci siano stati innanzitutto quello che Darwin definisce l’istinto di produrre note musicali e ritmi che il padre della teoria evolutiva rintracciava fin nelle specie animali più basse, ma anche l’attitudine a conferire a formule sonore pre-verbali la funzione di “incidere” sulla realtà non solo per cambiarla, ma anche per conoscerla. Come deve essere accaduto nelle prime organizzazioni del pensiero magico-religioso, l’istinto a produrre forme sonore ha permeato l’intenzione sacra di allacciare relazioni fluide e sempre nuove con un “altro” o con un “altrove”, rinviando a tempi più recenti il vincolo dell’identificazione oggettuale posto in essere dalla non-fluidità della parola.
Da una matrice indifferenziata e densa di possibilità, attraverso avventure psichiche ancora ignote, che hanno chiamato in causa le potenzialità sonore e cognitive dell’attuale specie umana, sembra si sia prodotta una forma comunicativa evolutivamente così anomala quale quella del linguaggio verbale articolato. Una conquista o una deriva? Probabilmente entrambe se si pensa quanto la verbigerazione del mondo contemporaneo, edificata sui “discorsi” e sulle “proposizioni” della filosofia occidentale, sia ormai molto lontana dal produrre “suoni carichi di azione”.