Nella stanza dove scrivo da ormai quasi una decina d’anni alle mie spalle c’è un grosso armadio. È composto per così dire da due grandi blocchi: nella parte inferiore da tre enormi ante e in quella superiore da quattro ante più corte ma lo stesso assai capienti. L’armadio, ricavato da una pianta di noce, è marrone e lucido e arriva fino al soffitto. Le ante della parte superiore non le apro mai: so che se lo facessi mi cascherebbe in testa qualcosa. Tirando invece la prima anta del blocco inferiore dell’armadio ci sono dei ripiani dove ho messo in fila vari libri. Tra questi nel terzo ripiano ci sono tutti i libri che ho pubblicato, eccettuati quelli che sono usciti esclusivamente in e-book. Tirando l’anta centrale in alto c’è una stecca con appesa una serie di indumenti sorretti dalle loro grucce – cappotti e piumini, giacche a vento – e in basso uno scatolone pieno di miei libri invenduti – e che spero prima o poi di riuscire a piazzare alla prima occasione buona. Tirando la terza anta nella parte inferiore ci sono dei cassetti. Dentro ci sono scatole da scarpe piene di vecchi scritti battuti con una macchina da scrivere elettronica e libri e libricini, fogli e foglietti. Per lo più un caos. Sopra ai cassetti c’è un vano stipato con altri libri, vecchie video cassette e in un angolo due faldoni pieni di altri miei scritti. In quei faldoni ci saranno dentro centinaia e centinaia di fogli.
Apro l’armadio alle mie spalle almeno un paio di volte al giorno e di solito mi concentro soprattutto su quei faldoni. Dall’armadio si sprigiona anche un odore di resina e polvere, legno vecchio…un aroma dolciastro che talora mi avvolge trasportandomi in un mondo di ricordi di giornate gioiose e spensierate con i miei nonni e il profumo dei sogni, della voglia di fare qualcosa che per il me bambino di quei tempi sembrava così importante, la sola cosa importante, la più importante e bella: scrivere. Sto lì e guardo i faldoni senza provare nulla in particolare, a parte quando succede la magia dei ricordi trasportati dall’aroma di legno vecchio che ho appena detto. Da tempo non mi prende nemmeno più la voglia di aprirli, quei faldoni, andando a caccia di qualche perla dimenticata al loro interno. Però, li guardo. Sto lì e guardo i faldoni. Poi, richiudo l’armadio. Essendo l’armadio di legno antico a volte lo sento emettere dei rumori. Il ticchettio prodotto molto verosimilmente da un tarlo. Una vibrazione che genera uno scricchiolio. Certo, l’armadio scricchiola. Come non potrebbe? Scricchiola. Oh sì.
Del resto, dentro sono depositate tutte quelle parole, tutte quelle immagini, tutti quei pensieri. Difficile dire che dentro ci siano solo oggetti inanimati. Il vecchio armadio alle mie spalle pullula di voci. Dentro ci sono cose che possono parlare. Possono sussurrare i miei più reconditi segreti di ragazzino e poi di giovane uomo e di uomo quasi adulto, essendoci archiviati all’interno solo gli scritti fino ai ventuno, ventidue anni. Fobie. Manie. Ossessioni. Per me è un fatto naturale che l’armadio scricchioli. Si faccia sentire. Quel coso antico alle mie spalle è pieno di vita. Quando mi succede qualcosa di brutto, colpisco l’armadio. Pugni soprattutto. Manate. Me la prendo con lui. Con ciò che c’è dentro. Quello che rappresenta. Ho consacrato la mia esistenza al guardiano che lo abita e che cosa ne ho avuto in cambio? Quando è cominciato tutto questo? Quando mi è presa questa smania di scrivere? Quand’è che questo spirito maligno che mi costringe a scrivere, scrivere, scrivere è sceso su di me e con me è rimasto senza più andarsene? Se ripenso a questo momento d’iniziazione tutto si fa nebbioso, incerto. Provo a muovermi con sicurezza scegliendo una data, scegliendo un gesto, ma dopo un po’, nonostante ogni tentativo di razionalizzazione, ogni evento si sfalda perdendosi nella nebbia dei ricordi, del tempo. Però ci provo, provo ugualmente a cercare quel momento, da anni ci provo, ci ritorno sopra ancora e ancora e…
Il primo romanzo l’ho scritto a dodici anni. 1990. Quell’anno passavano in televisione la serie televisiva Twin Peaks. Avevo visto La Casa Russia con Sean Connery e Michelle Pfeiffer. A scuola leggevamo in classe Zanna Bianca di Jack London e io avevo trovato presso le bancarelle nella piazza della mia città Martin Eden e Il richiamo della foresta nell’edizione cartonata e molto voluminosa dei Fratelli Melita. Il richiamo della foresta è stato un grande libro, ma Martin Eden è stato un libro che ha rappresentato per me, come per altri, un caposaldo. Casa Russia. Twin Peaks. Martin Eden.
Ricordo d’essermi seduto per la prima volta alla scrivania nella mia stanza (che ovviamente non era ancora la stanza con il grosso armadio alle mie spalle) soprattutto con le suggestioni e le atmosfere date da queste storie nella testa – come non rimanere suggestionati dalla colonna sonora composta da Angelo Badalamenti per la serie televisiva girata da David Lynch? È venuto fuori un romanzo lunghissimo scritto in sei mesi con tre diversi tipi di penne (una penna biro blu, una Bic nera e poi un bavoso Tratto pen) in un quadernetto con la copertina rigida (che recava l’immagine della maglietta della Juventus con qualche adesivo che acquistavo in un negozio sotto casa che si chiamava prima che chiudesse i battenti Chewing-gum, vera e propria oasi di colori, plastica e gomma nel grigiore paludoso, di pietra e di stucco, della mia città) con fogli a spirale a quadretti e poi a righe.
Ora che lo riguardo mi accorgo come nel quaderno i caratteri della grafia diventino sempre più piccoli man mano che la narrazione procede. Più il romanzo si scioglie e diventa solo una storia e non il tentativo di un ragazzo di scrivere, di fare lo scrittore, più la grafia si rimpicciolisce, cosa che forse suggerisce una forma di pudore: nelle parti dove non stavo facendo lo scrittore, ero soltanto io con una penna e dei fogli e questo mi procurava imbarazzo, lì dentro, in fin dei conti, c’era il mio privato, la mia intimità, e scrivevo piccolo per rendere quello scritto accessibile solo a me, comprensibile solo ai miei occhi e a nessun altro sguardo occasionale – quello dei miei genitori, ad esempio, o dei miei nonni. Ciò che è davvero interessante del quadernetto è forse che nella prima pagina si trova una griglia dove si fa un calcolo approssimativo del numero di parole all’interno del romanzo. Se non ricordo male si tratta di un metodo che ho appreso per la prima volta proprio da Jack London. Tenere conto del numero di parole in uno scritto. Mi stupisce ora pensare che un ragazzino di dodici anni si appassionasse a dettagli come calcolare il numero di parole dei suoi romanzi perché questa è una questione veramente molto molto tecnica – e per la verità nemmeno particolarmente praticata presso i più affermati scrittori nostrani. Di qua avevamo un ragazzo che aveva attaccato il suo romanzo con la descrizione del canto del gallo, delle foglie nella rugiada, l’alba e di là lo stesso ragazzo vedeva tutte quelle cose con sguardo aritmetico, considerava ogni emozione e palpito dato dalla prosa come quantità.
La verità è che non avendo messo date nel quaderno se mi concentro non sono in grado di ricordarmi davvero se avessi scritto quel romanzo a dodici anni o invece a undici. In effetti c’è stato un momento alle scuole medie nel quale ho scritto così tanto che non mi sembra umanamente possibile d’essere riuscito a farlo in un periodo di tempo così breve. Santo cielo, stando a quello che ho nell’armadio, in quel periodo ho scritto ben due thriller di centoventi pagine cadauno con la Olivetti Lettera 32 del nonno più il romanzo londoniano scritto a penna che ho appena detto e l’ho fatto nel mio stile avaro di spazi: margini inesistenti, l’interlinea non esiste praticamente. Non posso crederci d’aver avuto tutta quell’energia. Eppure, è così che le cose sono andate. Ho faldoni su faldoni. Mazzi di fogli battuti a macchina che lo provano. Non sono allucinazioni. Il primo romanzo battuto a macchina parla di una spia russa la quale ovunque va lascia una scia di sangue, morte, violenza e distruzione dietro a sé. Ambientato a Londra e a Mosca. Avevo acquistato un paio di cartine stradali di queste città. Ci sono i nomi delle vie. Ricavavo le atmosfere e i dettagli degli ambienti dalle descrizioni dei romanzi di Ken Follett (in particolare L’uomo di San Pietroburgo) o Philip Cornford (un romanzo mozzafiato dal titolo Komplotto). E poi L’alternativa del diavolo di Forsyth oppure La Casa Russia o La spia che venne dal freddo di Le Carré. Anche se a quell’epoca lo scrittore che cercavo di emulare più degli altri era senza ombra di dubbio il grande Jack Higgins.
Le sue scene d’azione sono ancora oggi impareggiabili ai miei occhi, anche se a volte penso soltanto di tornare indietro nel tempo ogniqualvolta rileggo qualche pagina di quei libri e semplicemente di ridiventare quel ragazzino di dodici anni che per la prima volta scopriva i piaceri della narrativa acquistando volumetti dalle copertine sgargianti e un po’ osé – l’edizione paperback della Sperling & Kupfer di Una preghiera per morire presenta una scena con una donna molto sexy a seni nudi e un uomo inginocchiato davanti a lei col volto affondato nel suo addome; per non parlare delle copertine dei romanzi di Lawrence Sanders… – sotto casa sua. Ecco. Già allora quando leggevo Higgins o Forsyth o Mario Puzo per non dire più tardi di Robin Cook o Richard Laymon o Brian Lumley o Ramsey Campbell la sensazione che provavo era di piacere misto a un sentimento di peccato. È sempre stato così. Mi vergognavo.
Quando entravo in un negozio di libri e chiedevo l’ultimo paperback di Helen Van Slyke o acquistavo tascabili di Alistair MacLean o Clive Cussler diventavo ogni volta un peperone la voce riducendosi al contempo a un sibilo abissale. (Noto che a rievocare queste letture, anche la mia prosa si compiace di quei bei tempi andati diventando felicemente dozzinale). Questo senso di peccato e di vergogna oggi io lo giudico addirittura importante. Importante perché ero assolutamente consapevole esistessero libri e libri. Tuttavia, sceglievo specificamente quei libri per il fatto che (pur non essendo L’urlo e il furore di Faulkner o Cuore di tenebra di Conrad o Il dono di Humboldt di Bellow o Niente di nuovo sul fronte occidentale di Enrich Maria Remarque o Jukebox all’idrogeno di Allen Ginsberg o Ces Dames aux chapeaux verts di Germaine Acremant), per come la vedevo io mi sarebbero serviti. Per intrattenermi. Farci cappellini di carta. Non ha importanza. Mi sarebbero serviti. Personalmente li acquistavo soprattutto per carpire ingranaggi che mi sarebbero tornati utili per le storie che avevo in mente di raccontare. Però forse dentro di me stava invece nascosto solo un gonzo lettore di robaccia di bassa qualità in cerca di qualche ora di svago, qualche pagina con tette e scene hot e qualche immagine che alimentasse la parte più morbosa della sua psiche. Può certamente essere. Ero così giovane… Cionondimeno, forse era proprio questo che mi serviva.
D’altra parte, entrare in una libreria e vergognarsi di acquistare un libro non significa forse riconoscere che quel libro che vogliamo acquistare sia dotato di una sua sicura forza scandalosa? Voglio dire, più o meno sappiamo tutti che Kafka, Dostoevskij, Baudelaire e che in generale la grande letteratura che adoriamo, celebriamo e studiamo contiene novantanove su cento elementi di scandalo. Però acquistare questi romanzi scandalosi non genera alcun problema. Quella è letteratura. Anzi, ti guardano quasi con rispetto – a meno che non tu non vada proprio a comperarti la trilogia di Miller Sexus, Plexus e Nexus o l’opera omnia del Marchese De Sade. Invece acquistare un romanzo di Sidney Sheldon oppure Harold Robbins o Jackie Collins è qualcosa di cui tutto sommato provare vergogna (o almeno ai miei tempi, quando avevo dodici, tredici, quindici anni; oggi è un po’ diverso, ci siamo inventati gli ipermercati dove possiamo peccare liberamente senza arrossire davanti a niente: la cassiera del supermercato è infatti troppo cotta dai carichi di lavoro per stare a emettere giudizi di ordine morale sui nostri acquisti e regalarci un’occhiataccia; per non parlare poi di chi oggigiorno acquista direttamente e-book o acquista libri su Amazon o su Internet in generale). Leggendo tutta quella robaccia per camionisti a dodici, tredici, quattordici anni (sempre meglio, tuttavia, della serie di fumetti erotici “Mario L’Uomo Dalla Cappella Al Contrario”) io stavo cercando un territorio scandaloso. Stavo cercando io stesso di ribellarmi, di essere lo scandalo: di crearmi uno spazio di libertà e autodeterminazione.
Un tale senso di peccato e imbarazzo si è addirittura espanso mentre mi dedicavo ai miei primi esperimenti letterari. Certo, lo ricordo bene. Lavoravo come un matto ai miei romanzi senza margini e senza interlinea. Pestavo per ore sull’Olivetti Lettera 32 del nonno. Rinunciavo anche agli allenamenti di pallone ai quali peraltro a causa di un’infezione ai tendini avevo dovuto dire addio molto presto passando uggiosissimi pomeriggi novembrini in casa – e se cerco di ricordarmi quei momenti, nella stanza dell’appartamento dei miei nonni, col letto, il tavolo pieghevole di legno con la superficie foderata di un panno verde che i miei nonni avevano utilizzato anni per giocarci a bridge o a scala quaranta prima di prestarmelo per appoggiarci la macchina da scrivere e i fogli, l’immagine della portafinestra che mi si forma nella mente è sempre quella di un rettangolo bianco con vetri scurissimi, il ricordo dei nubifragi è molto persistente dentro di me, a volte il solo pensarci mi fa venire i brividi. Quando arrivavo in fondo alle mie storie fatte di spie, inseguimenti, sparatorie, ma anche molti pensieri sulla morte, la vita, l’esistenza non avevo il coraggio di far leggere a nessuno niente di quel che scrivevo. Questo soprattutto a causa del senso di peccato. Avessi scritto poesie o racconti che tentavano di essere graziose allegorie sul significato della vita o sul creato probabilmente non avrei avuto scrupolo a farli leggere in giro. Non ci sarebbe stato appunto niente di cui vergognarsi. Invece scrivevo quello che scrivevo: storie di spie, assassini e più tardi addirittura storie horror, tunnel degli orrori con veri cadaveri fatti a pezzi all’interno oppure uomini che commettevano omicidi sotto ipnosi oppure ragazzi che si facevano masturbare da donne che si animavano improvvisamente da riviste per adulti, tutte cose di cui provare vergogna e solo vergogna.
A ripensarci, non so nemmeno perché le scrivessi, quelle cose. Sono quasi tentato di affermare di aver scritto quello che ho scritto anche non piacendomi del tutto. Solo che come ho già detto ho affastellato così tante pagine che mi sembra assoluta fantascienza sostenere una cosa del genere con reale convinzione. Oggi ritengo che scrivessi quelle cose perché in cerca del mio vero io. Il mio vero io stava facendo le prove per scrivere graziose allegorie sul significato della vita o sul creato e prima di arrivarci aveva bisogno di passare attraverso un territorio molto differente. Chissà, magari è così per tutti. Tutti quanti sotto sotto vorremmo arrivare lì, a dire qualcosa sulle questioni fondamentali. Qualcosa di bello. Qualcosa di importante. Qualcosa di vero. Dean Koontz. Clive Barker. Jeffrey Deaver. Michael Connelly. Magari c’è una parte di loro che vorrebbe scrivere ciò che sono e basta (scritti d’oscena semplicità e pensieri di profondità sconvolgente) e invece essendosi affermati con grande successo come scrittori di genere ormai pensano di non poterlo più fare (e le parti migliori delle loro opere le imboscano in modo che quasi non si notino) oppure addirittura che farlo sia pretenzioso, non sia giusto. Stavo comunque facendo già allora subito dai dodici, tredici anni un percorso di costrizione e al tempo stesso di liberazione. Per sentirmi libero avevo bisogno prima di sperimentare il carcere delle regole e delle forme predefinite. Ed è seguendo questo processo di liberazione in fondo che mi sono appassionato al genere fantastico e in particolare all’horror. Per scrivere spy-story devi tirare in ballo per forza CIA e KGB oppure l’Intelligence Service, la Stasi, la Securitate o il Mossad. Le storie devono essere ambientate a Quantico in Virginia o a Washington o a Mosca, San Pietroburgo, Nairobi... Ci sono pistole. Veleni. Microspie.
Scrivere una storia di spie è impegnativo e se vuoi cimentarti con una storia così devi giocoforza appassionarti alla documentazione. Ogni evento per quanto fantasioso va incastrato in una cornice di riferimenti reali, credibili. Questo lo capisce anche un ragazzino. Invece, per scrivere un racconto horror (a sedici anni ho scritto un romanzo dell’orrore, anche questo piuttosto corposo, dalle dimensioni vere, centoventi pagine scritte molto piccole con la mia prima macchina da scrivere elettronica; parlava di una casa infestata dalla polvere, una quantità spaventosa di polvere) non bisognava nemmeno documentarsi più di tanto. Un mostro poteva saltare fuori dall’armadio della mia stanza (magari ripetendo come un mantra: “Ciò che voglio da te sono solo i tuoi fogli! Ciò che voglio da te è sono solo i tuoi fogli! Ciò che voglio da te sono solo i tuoi fogli! Per la fornace! La fornace, stupido ragazzino! La fornace!”) oppure una forza oscura poteva avvicinarsi a me in qualsiasi momento da dietro le spalle – anche proprio in una situazione come questa, mentre scrivo queste parole o voi le leggete.
Spy-story, horror o romanzo d’avventura, quello che scrivevo doveva somigliare il più possibile a qualcosa di vero, a un libro reale, a un racconto reale, vero, autentico, vero. Scrivevo per catturare sul foglio, fermarlo lì, farlo comparire lì, quel qualcosa di magico che avevo percepito vibrare in tutti i fogli stampati che stavano nelle librerie, che stavano nei libri in biblioteca o sugli scaffali di casa mia e che uscivano in suoni, parole e immagini dai film al cinema o in televisione. Avevo in mente Robert Louis Stevenson – Long John Silver. Avevo in mente Emilio Salgari – Le tigri di Mompracem. Avevo in mente Conan Doyle – Il segno dei quattro. Quel libro allora così complicato che si chiama Il vecchio e il mare di Hemingway e che io a quell’età – sempre i fatidici dodici anni – avevo solo sfogliato lasciandomi suggestionare dalle pagine piene di parole e dagli acquerelli che facevano da illustrazioni senza nemmeno cercare ancora di leggerlo veramente – all’epoca consideravo i libri di Hemingway assai più astrusi di quelli, ad esempio, di Tolstoj. Volevo cercare di catturare quella magia. Io l’avevo percepita soprattutto in quei libri ma già allora sapevo che quel che avevo avvertito in quei libri si trovava distribuito in varia misura anche in tutti gli altri. Fin dal primo momento ho preso a pensare a me stesso come a un trasmettitore di energia in un circuito elettrico più vasto. Un campo elettrico percorso da un particolare tipo di cariche che insieme formano energia cosmica.
Quest’energia passa attraverso ogni libro e da un libro può attraversarti mentre tu non te ne rendi nemmeno conto e non è questione di bravura e nemmeno d’età. Passa e basta. Ed è ferma lì, sulla pagina. Magari solo per una, due, tre pagine. Magari passa a intermittenza. C’è in un paragrafo, ma nel paragrafo successivo scompare. C’è intensissima in una riga e poi devi aspettare altre cento o cento cinquanta righe perché ricompaia. Sei tu quando scrivi a doverla catturare. Anzi, non dipende nemmeno da te. È un interruttore. Quando l’interruttore viene premuto l’energia passa. Quando c’è lei, non ci sei tu, tu sei spento. Quando ti riaccendi tu, l’energia se ne va via. Non si sa come si faccia a premere l’interruttore – non esiste abbastanza esperienza, esercizio o intelligenza al mondo. Però quell’interruttore c’è. Disattiva te, fa passare l’energia.
L’energia cosmica (dimensione di luce bianca e gialla e verde e rosa e blu e scarlatta e di tutti i colori, papposa o intangibile, profumata o inodore, che sa di zuppa o di crostata della nonna, puro pensiero, un essere quasi senza forma, puro essere, onniscienza, sì, onniscienza… per questo molta gente là fuori forse ha paura di pensare: prova un senso di sacro terrore all’idea, è come giocare a fare Dio) mi è scoppiata per la prima volta dentro (la prima, primissima volta) quando mia madre ha portato a casa una Lettera 22 (prima che scoprissi la Lettera 32 del nonno e poi acquistassi una macchina da scrivere elettronica per successivamente passare alla rivoluzione del personal computer e infine al portatile) e ancora oggi ricordo l’ingresso della 22 in casa come fosse ieri. Mia madre l’aveva messa sul tavolo della sala dentro una custodia rigida nera. Io l’avevo vista e la custodia aveva subito cominciato ad attirarmi più o meno come il monolite del film 2001 Odissea nello spazio attira gli uomini preistorici o più tardi l’equipaggio d’astronauti. Ho aperto la custodia, ci ho trovato dentro la Lettera 22. La gabbia era di colore arancione. Ho accarezzato la dentiera di tasti neri. Ho battuto qualche tasto. Poi più tardi quel giorno ne ho parlato a mia madre. Lei mi ha preparato un tavolino, ci ha messo sopra un plico di fogli, una lampada, ha messo il tavolino nella sua stanza vicino alla finestra perché la luce si riflettesse direttamente sulla macchina per scrivere e mi ha spiegato brevemente come far funzionare l’Olivetti. Poi mi ha lasciato lì a pasticciare e dopo quella volta da quando dal soggiorno di casa la Lettera 22 mi ha sorriso più di vent’anni fa con la sua dentatura fatta di tasti neri e lettere bianche non ho più smesso.
Ho scritto e letto. Letto per scrivere meglio e scritto per leggere meglio – e dopo un po’ letto e scritto per vivere meglio. Ho fatto tutto da solo. Mi sono comperato i libri da solo. Ho scritto da solo. Studiato da solo. Sbagliato e fatto giusto da solo. Persino in segreto. Per anni. Almeno una decina fino a quando non sono venuto in contatto con altre persone come me. Oggi il desiderio di queste cose dentro di me si è come pietrificato. Un desiderio ingombrante, solido, che non riesco più a mettere da parte. Non c’è niente ormai che possa demolirlo. Nessuna delusione. Nessuna sconfitta. Niente. Duro. Indistruttibile. Non posso smettere di desiderare. A volte le delusioni arrivano. A volte vorrei bruciare tutto quello che ho scritto, dimenticare tutto quello che ho letto. Ma poi succede che la consolazione vera mi venga sorprendentemente proprio da ciò che mi ha procurato tutto quel dolore. Mi aspetto infatti che forse non voglia più aprire un libro. Che non voglia più leggere. Basta. È finita. Finita. I miei amici. Mi hanno completamente tradito. Goethe, a cosa mi sei servito? E tu, Shakespeare? E tu, invece, Thomas Mann? Credi che sia stato facile stare in tua compagnia a vent’anni, Marcel Proust? Invece è proprio aprendo i libri che ritrovo consolazione. Lettura e scrittura. Ricominciamo. Riproviamo. Non mollare. Tanto non si può. Presto o tardi l’interruttore scatterà e l’energia cosmica mi avvolgerà con il suo canto celestiale e calore latteo e io sarò di nuovo nella stanza buia, non ci sarò più, sarò nel nulla e quando ritornerò ci saranno solo tracce dentro di me, tracce lucenti, orme arcobaleno e non molto di più. Sarò nell’energia cosmica e non ci saranno più ingiustizie. Ludwig Wittgenstein. Baruch Spinoza. Karl Marx. Friedrich Nietzsche. Arthur Schopenhauer. Sono ancora miei amici. Mi aiuteranno. Il mio desiderio è ancora in me. Pietrificato. Monumentale. Me ne accorgo ogni giorno. Ogni volta. Ha ostruito il passaggio a così tanti altri desideri. Così tanti… Per tanto tempo mi ha bloccato. La mia gente non lo capisce. Loro non capiscono quanto impegnata possa essere una persona come me, una persona con un idolo di pietra eretto nel centro dell’anima, consapevole dell’esistenza dell’interruttore e in balia dell’energia cosmica. Non riusciranno mai a capirlo. Ci vuole serietà. Costanza. Ci vuole dedizione. Sottrazione di tempo.
Ho incertezze sul momento preciso in cui abbia sentito l’energia cosmica (perpetua collisione di mondi esplodere di stelle attraversamento di fantasmi) scoppiarmi dentro e le nebbie attraversano ogni mio ricordo confondendolo. C’è di sicuro il primo romanzo scritto con la Lettera 32 nel 1990, ma sono sicuro ci sia anche quel momento seminale della comparsa della Lettera 22 nella mia vita, ma c’è pure (anche se qui è come muoversi in una palude di ricordi nebbiosa e piena di sabbie mobili) l’acquisto dei primi romanzi, dello scaturire di un autentico desiderio di lettura quando sul finire della prima media (lo stesso anno che leggemmo in classe Zanna Bianca e io per conto mio scoprii in una bancarella Martin Eden e Il richiamo della foresta), prima che mia madre portasse a casa la Lettera 22, quando, dicevo, sul finire della prima media il mio professore di italiano ci diede da leggere una lista di romanzi. Così. Solo una lista di nomi d’autori. Il compito era scegliere un paio di titoli e poi andarglieli a raccontare al rientro dalle vacanze. Niente che possa far gridare a intenzioni di matrice pavloviana. Il sottoscritto si comprò il quaranta per cento della lista. Cominciai con Bulgakov e Il Maestro e Margherita. Un buon inizio è importante. Avessi cominciato con un romanzo noioso mi sarei bloccato in partenza. Invece, incappai in Bulgakov e un po’ di magia. Poi Pian della Tortilla di Steinbeck – con quella copertina verde e lucida come la buccia di un cetriolo. Poi Uomini e topi. Poi, Guerra e pace. Le illusioni perdute. Le avventure di Oliver Twist di Charles Dickens. Ecco ricordo soprattutto di essere stato attratto subito dai libri voluminosi. Più erano spessi, più mi attiravano. Mi sembra un dettaglio importante. Significava che volevo spendere del tempo con le parole. Leggevo per imparare a scrivere, ma volevo anche diventare un lettore. Non mi interessava dare un’occhiata superficiale e dire: “D’accordo, ho capito. Si fa così. Corriamo a scrivere”. Mi stavo ammaestrando. Russi. Francesi. Tedeschi. Americani.
Compravo, compravo e compravo. Leggevo e leggevo e leggevo. La paghetta che mi dava il nonno me la giocavo tutta così e mio nonno me l’ha alzata intorno ai tredici anni, quando ha visto che facevo seriamente, da quindicimila lire a quindicimila lire più i soldi per comprarmi i grandi classici che vendevano all’edicola non mi ricordo più per quale iniziativa. Un bel gruzzolo, ora che ci penso. Non saprei dire quanto realmente capissi di quel che leggevo. Probabilmente non molto. Però avevo in mente Martin Eden di Jack London e anche lui aveva cominciato in modo selvaggio ed era anche mezzo analfabeta. Dovevo leggere, andare avanti. Tutta quella roba che mettevo dentro alla testa, in un modo o nell’altro, in un momento o in un altro, avrebbe trovato ordine, senso. Stavo attento alle parole. Alle espressioni. Mi lasciavo colpire e distrarre da tutto. Trovavo un’espressione a pagina quarantuno e magari a pagina cinquantasette mi rendevo conto che ci stavo ancora pensando e che nel frattempo non riuscivo più a raccapezzarmi con la storia. Forse a pensarci adesso avrei dovuto partire dalla poesia, ma una parte di me ancora oggi pensa che la poesia sia roba troppo leggera. Nah. Io volevo romanzi di seicento pagine. Ottocento pagine. Mille.
A dodici anni forte e orgoglioso delle mie letture, comincio la seconda media inferiore. Scrivo e scrivo ma qualcosa al primo compito in classe va storto. Io m’impegno, ce la metto tutta. Ho la testa che esplode di parole e letture, scrivo tanto, do fondo a tutto quello che ho osservato e imparato durante l’estate. Eppure i risultati… mediocri. Il professore d’italiano aveva i suoi modi per darti un giudizio e quando ti diceva “abbastanza bene” era un risultato mediocre. Altri si sentivano dire “bene” o addirittura “molto bene” e io volevo eccellere, giocarmela coi migliori e dargli anche polvere. Invece valevo molto poco. In fondo il mio problema era semplice e anche drammatico. Volevo così tanto cercare di catturare l’energia cosmica che si muove e si sposta nella totalità dei libri che cercavo di prenderne a piene mani dalle tracce lucenti e dalle ombre arcobaleno che l’energia mi lasciava ogni volta che mi abbandonava dopo avermi attraversato. Leggevo molto in modo da trovarmi un buon numero di quelle tracce luminose e quelle ombre dentro e a quelle pensavo sbagliandomi di poter attingere a piene mani. In altre parole il mio problema era che le cose che leggevo mi rimanevano appiccicate addosso in maniera allarmante. Leggevo Viaggio al centro della Terra di Jules Verne e scrivevo Viaggio al centro della Terra. Leggevo Il dottor Antonio di Giovanni Ruffini e riproducevo quella prosa. Imitavo troppo. Così ho dovuto fare i conti col fatto che i miei temi pur essendo pieni di idee, immagini, cose belle, che non potevano non piacere, non andavano bene quanto desideravo e che a questa cosa dovevo trovare assolutamente rimedio. Ho pensato che se il mio problema era imitare troppo e non riuscivo a fare altro che imitare, perché la mia testa ancora non sapeva come fare per non essere là, lasciarsi andare, lasciare che fosse l’energia cosmica a occuparla, allora avrei dovuto tanto per cominciare imitare autori con un linguaggio più vicino a quello contemporaneo. Niente più Balzac. Dumas. Turgenev. No. Nell’estate dell’anno successivo sono sceso alla Standa (Standa viene da Standard, no? O quantomeno ci assomiglia) e ho cercato i romanzi degli autori moderni che ho già citato, scritti con parole semplici, chiare, leggibili, moderne. Ho così scoperto il mondo delle spy-story. Norman Mailer. Tom Clancy. Graham Greene. E. Phillips Oppenheim. Che cazzo, ora non ricordo nemmeno più. Comunque, sono andato avanti parecchio a leggere questa roba ottenendo due risultati importanti: mi divertivo da morire, il mondo dei libri appassionandomi sempre di più, e i risultati a scuola miglioravano. La strategia da me escogitata funzionava. Tra l’altro, imitando qualcosa che capivo meglio sono anche riuscito a smettere di imitare e a metterci sempre più del mio. Così me la sono cavata con l’astuzia in attesa di riuscire a diventare veramente bravo. Al ginnasio coi temi andavo bene e poi al Liceo dopo un anno di assestamento, me la sono di nuovo cavata – prendevo voti alti. Anche lì ci mettevo un pizzico d’astuzia. Siccome alla mia professoressa di italiano quello che scrivevo sembrava non piacere più di tanto (“Lungo, è troppo lungo!” mi diceva), allora mi sono messo a scrivere temi di filosofia, i quali venivano corretti dal professore di filosofia e ratificati solo in seconda battuta (di solito abbassandoli di mezzo voto) dalla prof di italiano. Appunto solo un’altra astuzia in attesa di diventare bravo, così bravo da poter piacere sempre e allo stesso modo.
Sono molte le cose che potrei ancora aggiungere, ma credo di aver reso ormai l’idea e dunque preferisco fermarmi qui. Questo scritto mi ha svuotato. Lo consiglio a tutti di prendersi un paio d’ore e scrivere uno scritto come questo. Sedersi e cominciare con “Ho cominciato a scrivere dall’età di…”, “Ho cominciato a sognare di diventare architetto all’età di…”, “Ho cominciato a sognare di diventare avvocato all’età di…” e poi buttar fuori il più possibile. Scrivere a ruota libera. Chiarisce le idee. Chissà, forse molti non avrebbero un punto preciso da dove partire. Si accorgerebbero di non aver nemmeno desiderato di essere quello che sono oggi e che quel che sono oggi è solo il frutto di circostanze casuali. Niente interruttori o desideri di pietra. Nessuna voce. Quante follie… Ma sottoscrivo tutto. Mi consolo pensando di non aver cominciato a scrivere romanzi a causa di qualche trauma.
Però, è strano. Ero partito con l’idea di parlare di libri, far tanti nomi di romanzi, raccontar trame e invece, rileggendo mi sono accorto di aver solo messo in fila nomi di autori ben conosciuti e di non aver detto nemmeno tutto. Voglio pensare che i nomi che ho fatto siano quelli che mi stanno più a cuore, quale che sia la ragione. A volte certi autori sono importanti per noi anche se non li abbiamo praticamente letti. Così come certi libri. Non ho letto nulla di Anne-Louise Germaine Necker. Però mi piace ogni tanto tornare col pensiero a questa autrice e immaginarmi come potrebbe essere una storia scritta da Anne-Louise Germaine Necker – magari partendo da qualche brandello di trama orecchiato qua e là (probabilmente sui banchi di scuola) nel corso del tempo. Mi spiace, mi spiace davvero, ripeto, di non essere riuscito a trovare spazio per parlare in questo scritto delle trame dei libri… Del resto noto che delle nuove uscite si parla pochissimo delle trame, delle idee in sé, e si tende a enfatizzare, invece, gli effetti che queste trame, idee hanno sul pubblico. Sulle fascette promozionali si trova scritto “200.000 copie in una settimana!” o “Terza edizione in un mese!” sottintendendo insomma che quel che c’è dentro il libro a questo punto non importa più se sia un’idiozia o una cosa molto saggia e intelligente. Va pur detto che di norma non mi metto mai a parlare di storie scritte da altri, perché per quanto bravo possa essere a farlo, mi sembra sempre di far la figura di quei cantanti che cantano le canzoni degli altri: alla fine dell’esibizione il pubblico applaude loro o il cantante che è stato appena interpretato?
In questo scritto è presente il gesto di diradare le nebbie attorno a un nucleo di ricordi che evidentemente per me è fondamentale. Le origini. Quando è stato che ho preso questa maledetta decisione di scrivere, di farlo in modo così ridicolmente serio? Noto che in questo testo ho indicato due o tre origini, come se ci sia tornato sopra ossessivamente incapace di dare un ordine migliore alla questione. Forse non l’ho fatto perché non ho voluto. Forse quello che conta in questo caso è l’ordine emozionale. La decisione è stata presa dopo aver scritto il libro del 1990. Anche se a ben vedere l’origine di questa decisione viene prima del libro, ma entrando in libreria per comprare romanzi commerciali da cui carpire segreti e forse c’è un’origine ancora antecedente: il mio professore d’italiano con la sua lista di autori da leggere d’estate. Confusione. Nebbia. Emozioni contrastanti. Incertezze. Al netto di varie imperfezioni e carenze, ho scritto quello che ho scritto fin qui come mi è venuto e desidero lasciare le cose come sono. Infatti posso anche provare a mettere in ordine la sequenza di gesti che rappresenta l’origine della mia volontà di scrivere: alla fine della prima media il mio professore d’italiano ci fornisce la lista di libri da leggere durante le estate, nel corso delle vacanze estive comincio ad acquistare qualche libro della lista, mia madre porta a casa la Lettera 22 e io mi metto a scrivere a penna su un quadernetto il mio primo romanzo, poi finite le vacanze arrivano i primi voti mediocri a scuola e allora eccomi in libreria ad acquistare libri con un linguaggio più moderno per contrastare il problema che avevo di imitare troppo e questi romanzi mi hanno portato a scrivere i primi libri utilizzando la Lettera 22 e successivamente la Lettera 32. Facile.
Peccato che questo nucleo di ricordi non conduca realmente al momento della decisione di scrivere. Quella decisione, probabilmente, è stata presa molto prima. A otto, nove anni. È stata presa dal momento che alle elementari i miei primi elaborati (simili a racconti) erano stati apprezzati dalla maestra e io mi svegliavo al sabato mattino sul presto e prelevavo dal mobile di cristallo in sala un’edizione pregiata della Divina Commedia sfogliandola e osservandone le illustrazioni di Gustave Doré. Lì, la decisione è stata presa. Lì. Ma non potevo mettermi a scrivere a sette, otto anni e così ho atteso fino a undici, dodici anni. Già a undici anni (con la Lettera 32 del nonno; e non con la Lettera 22 giunta in casa mia l’anno successivo) avevo scritto l’incipit di un romanzo giallo (sette o otto cartelle, sempre nel mio stile avaro di spazi) che poi ho strappato e buttato nel sacchetto della pattumiera appeso al chiodo in cucina. Fu un gesto melodrammatico. Lo ricordo bene. Il gesto di un ragazzino che sapeva già che cosa avrebbe fatto (aveva già deciso) e che stava solo seguendo un copione prestabilito: Il Futuro Grande Scrittore Che Brucia I Suoi Primi Mediocri Tentativi Giovanili. D’altra parte, mi sento di dire che questa decisione fu presa definitivamente nel 1990 dopo aver apposto la parola fine in fondo al mio primo romanzo.
Sì, lì è stato il momento della vera decisione. Eppure, la mia testa gira in circolo su questi pensieri, ossessivamente, incapace di acquietarsi, come ci fosse qualcosa, qualcosa di fondamentale, un enigma, un mistero, e credo che potrei continuare a tornare avanti e indietro su questi fatti senza soluzione di continuità, e di sicuro, a pensarci, potrebbero saltarne fuori altri (mia madre che nel leggere la prima pagella accenta in modo particolare quella parola… “notevole” riferendosi alla mia capacità di scrivere; mia madre che seduta su una panchina al parco leggeva i libretti colorati di Selezione reggendoli con le dita smaltate di rosso mentre io e mio fratello giocavamo) ingarbugliando ancor più i miei ricordi. Pertanto, meglio fermarsi. Tra l’altro, queste parole avrei potuto scriverle in qualsiasi momento della mia vita. A dodici anni come a trentatré come a quarantadue. Quando l’energia cosmica ti attraversa questo dato non conta. Non c’entrano concetti come maturità, esperienza, capacità… Energia. Solo energia. E qui ce n’è tanta di energia. È dappertutto ed è densa. Per questo e solo per questo scrivo. Da quando ho sette anni. Da quando ho dodici anni. Da quando ho compiuto ventotto anni ed ho pubblicato il primo romanzo scritto a venticinque – con dentro cose scritte a sedici. Credetemi. Il vento cosmico dei libri. Lasciarmi attraversare dall’anima delle cose nel mondo…
Nella stanza dove scrivo c’è un armadio. Un armadio molto grosso. Spesso nel corso della giornata lo apro e osservo i libri e i fogli che ci sono dentro. Immagino che dovrei guardare con orgoglio allo scaffale dove stanno in fila i miei romanzi e le cose che sono riuscito a pubblicare e guardare con una punta di nostalgia i faldoni con dentro le cose che ho scritto con continuità a partire dai dodici anni. Invece, nella maggioranza dei casi non provo nulla. So però che dentro all’armadio c’è qualcosa. Avverto una presenza. Un demone. Uno spirito. L’idolo di pietra che tiene in ostaggio il centro della mia anima. L’entità che mi forza a scrivere. Ecco perché non provo nulla di definito quando guardo l’armadio. Perché guardare nell’armadio significa cercare di vedere in faccia quell’essere. La cosa nell’armadio non c’entra nulla con l’energia cosmica. Non è luce. Nei momenti di sconforto mi metto a colpire l’armadio. Mi getto a terra e grido: “Che cosa vuoi da me? Parla! Vuoi i miei occhi?! Ecco tienili! Vuoi il mio sangue? Stai cercando di manifestarti? Attraverso di me? Attraverso i miei scritti?”. Poi, mi dico che no, il demonio nell’armadio non vuole fare niente di tutto questo. Vuole solo che bruci tutto. Vuole un falò. Per questo mi spinge a scrivere. Vuole solo che accumuli fogli su fogli. Non fogli qualsiasi, però. Vuole fogli speciali. Pieni della mia vita, della mia anima, dei miei sogni. L’armadio è la fornace. Quando sarà il momento, i fogli serviranno al sacrificio.