Non è lo strumento che utilizziamo che rende una foto migliore delle altre ma quello che c’è dietro e la sua storia...
Così racconta Manoocher Deghati (Orumieh, Iran, 1954), il pluripremiato fotografo iraniano, quando parla della sua vita fatta di immagini catturate con il suo obiettivo in giro per il mondo, ritraendo guerre e rivoluzioni non per propaganda ma “nella speranza che possano contribuire alla cultura della pace”. Torturato, ferito ed esiliato per aver denunciato con i suoi scatti le ingiustizie, le guerre, i genocidi, le morti dei ribelli, la povertà, gli abusi, le rivoluzioni per la libertà e la democrazia. Pose e momenti immortali che si fermano e fissano la realtà, non per suscitare scalpore ma semplicemente come cronaca del tempo.
Per Manoocher Deghati, la fotografia è “un linguaggio universale e potente, capace di arrivare a tutti”. Ritratti di luoghi e persone mostrano di culture e civiltà lontane capaci di fornire dati e notizie, riuscendo a far emergere anche i lati meno evidenti dell’essere umano. I protagonisti della fotografia di Manoocher sono afgani, egiziani, costaricani e nicaraguensi. Le loro immagini e condizioni, scattate in tempi e luoghi diametralmente opposti, sembrano rasentare l'assurdo e appaiono talvolta in alcuni casi simulate e artefatte, dimostrando a volte come la realtà riesca a superare se stessa.
Un’illustrazione della storia che, insieme alle persone, alle lingue e alle culture, passa attraverso lo scatto fotografico e ci narra l’intera umanità con grande valore documentaristico. Dall’Iran alla Francia in esilio, il leone iraniano della fotografia e del reportage di guerra, con la fotocamera sempre in spalla, con il solo scopo di abbattere le barriere, ha voluto testimoniare l’orrore e la brutalità davanti ai suoi occhi attraverso un click, “pensando alla pace” e mostrando davvero come erano i campi di battaglia. Ferito in guerra, dopo aver ricevuto due proiettili per aver fotografato nonostante tutto, Manoocher Deghati è riuscito a informare il pubblico mondiale, nonostante le distanze geografiche e culturali.
Numerosi i premi collezionati in più di 41 anni di carriera, non tanti quanto “la voglia di ritornare in Iran e fotografare il suo Paese”, anche se lo ritiene ormai impossibile per la situazione in cui si trova ancora il Paese. Solo dopo avere documentato la rivoluzione egiziana, i conflitti in Siria e Libia, Manoocher Deghati, è arrivato in Puglia nel 2014, dove ha trovato pace e serenità nelle campagne di Martina Franca (nella Valle D’Itria) insieme alla moglie, Ursula Janssen e alla figlia più piccola.
“In Puglia mi sento a casa, nel tempo ho imparato a capire quando la relazione con un luogo è finita”, ha spiegato il fotoreporter durante le sue ultime mostre in Puglia (2020), Campania e Sicilia (2018), quest’ultima nell’ambito del festival World Press Photo. Il prestigioso concorso, nato in Olanda nel 1955, tutela la libertà d’informazione, d’inchiesta ed espressione come diritti inalienabili, promuovendo il fotogiornalismo di qualità e presentando annualmente 6000 fotografi, provenienti dalle maggiori testate editoriali mondiali come Reuters, AP, The New York Times, Le Monde, El Paìs per nominarne solo alcune.
Chi è Manoocher Deghati, pluripremiato fotoreporter iraniano
Creatore e direttore dell’unità fotografica di Nazioni Unite (UN-OCHA/IRIN) e di AINA Photojournalism Institute in Afghanistan, direttore fotografico per Agence France Press (AFP) e Associated Press (AP), Manoocher Deghati pubblica regolarmente i suoi lavori fotogiornalistici su National Geographic Magazine. Docente Masterclass per World Press Photo Amsterdam, nel 1984 ha vinto il primo premio del concorso nella categoria “News Feature” con un reportage sulla guerra tra Iran e Iraq, mentre nel 1986 si aggiudicato il terzo posto nella categoria “Daily Life” con una foto che ritrae le donne rivestite di chador che partecipano ai funerali di un leader della rivoluzione. Per sei anni, inoltre, ha fatto parte della giuria internazionale del concorso World Press Photo.
Ha collaborato e collabora ancora con testate prestigiose come Time, Life Press, Newsweek, Figaro e Marie-Claire.
Nato in Iran nel 1954, Manoocher Deghati è un cittadino del mondo che, grazie alla sua macchina fotografica, ha documentato in maniera crudele e viva i momenti più drammatici della storia recente di Iran e Francia, ma anche Los Angeles e Costa Rica, informando attraverso le immagini il pubblico internazionale a dispetto delle distanze geografiche e culturali.
Ha fotografato i conflitti in Libano, Nord Irlanda, Stati Uniti, Panama, El Salvaor, Nicaragua, Guatemala, Honduras, Kuwait, Bosnia, Sudan, Somalia, Libia, Egitto, Israele e Palestina, Algeria, Marocco, Turchia, Arabia Saudita, Siria, Bangladesh, Etiopia, Filippine, Kenia, Sierra Leone, Uganda e Abu Dhabi.
Nel 1996 è rimasto gravemente ferito da un cecchino israeliano, mentre documentava il conflitto israelo-palestinese a Ramallah (Cisgiordania- Palestina) sulla riva occidentale del Giordano. Rimpatriato in Francia, ha trascorso due anni in terapia fisica all’ospedale “Les Invalides”, per veterani di guerra, dove il presidente francese, Jacques Chirac andò a fargli visita. Un ricordo indelebile in cui chiese al presidente di risolvere, una volta per tutte, le traversie per cui era costretto a vivere in perenne esilio. Alcuni giorni dopo aveva già ricevuto lo status di cittadino francese.
Un altro episodio si è ripetuto nel 2000, durante la parentesi lavorativa parigina con l’Agence France Press (AFP), quando è rimasto nuovamente ferito in occasione della visita del Primo Ministro francese Lionel Jospin a Ramallah, in Palestina. Creatore e direttore della unità fotografica d'UN-OCHA/IRIN, l'Agenzia Stampa Umanitaria delle Nazioni Unite a Nairobi, ha ricoperto anche il ruolo di osservatore internazionale delle Nazioni Unite in occasione delle elezioni della Loya Jirga nel 2000.
Tra i premi conquistati anche il primo premio per il Fuji Price e il Georges Benderheim. Inoltre, tra gli innumerevoli riconoscimenti internazionali ricevuti negli anni, è stato anche sei volte “Miglior foto del mese” per l’AFP (Agence France Press).