Se ci diamo la mano i miracoli si fanno
e il giorno di Natale durerà tutto l'anno.(Gianni Rodari)
Dei Natali della mia infanzia, uno dei miei ricordi più vivi è legato alla scoperta dell’attesa.
Dicembre era il freddo sempre più intenso, la sveglia per andare a scuola mentre fuori era ancora buio, ma era soprattutto un conto alla rovescia che da bambina mi sembrava infinito.
Sembrava che il tempo iniziasse a dilatarsi e non passasse mai, facevo colazione con la luce accesa e lo sguardo fisso sul calendario appeso al muro in cui la casella del 25 sembrava sempre lontanissima, irraggiungibile.
A volte mi sembrava di svegliarmi in un loop temporale e ricominciare il giorno precedente, un dejà vu da Giorno della Marmotta.
Poi finalmente arrivavano le sospirate vacanze che mi liberavano dal maleficio e che ci regalavano il lusso sfrenato di un’ora di sonno in più e momenti meravigliosi in cui si poteva restare sotto le coperte al caldo e al sicuro, a guardare fuori dalla finestra aspettando che il cielo schiarisse.
Si temporeggiava, si patteggiava il famoso “ancora solo un minuto” e mentre si mercanteggiava rubando secondi preziosi, ci si impadroniva della sottile arte del rimandare.
Le vacanze erano un limbo in cui potevamo liberarci dai doveri imposti dal nostro ruolo di alunni delle elementari e ritornare alla magia ed alla libertà di un’infanzia priva di obblighi: in quei giorni l’arrivo oramai imminente del Natale cominciava finalmente ad assumere contorni reali. L’evento tanto atteso perdeva quella vaghezza che lo aveva reso simile ad un ectoplasma, iniziava a solidificarsi; ma anche l’attesa sembrava subire la stessa trasformazione diventando sempre più densa.
Quando tutta la tua vita non è che una manciata di anni che puoi contare senza esaurire le dita di entrambe le mani, ventiquattro giorni sono lunghissimi. Ma la cosa più strana era che il giorno in cui finalmente il quadratino sul calendario diceva “vigilia di Natale” si rivelava essere quello più difficile di tutti: l’attesa era stata lunga a sufficienza da diventare l’unica realtà possibile, e la sua fine tanto agognata sembrava improvvisamente un tuffo nel vuoto.
Non è facile aspettare la felicità.
La pandemia che il mondo sta affrontando ha portato a vivere una nuova dimensione dell’attesa in cui l’impossibilità di prevederne la fine ci procura una sensazione di incertezza senza precedenti.
È un conto alla rovescia in cui non sappiamo come contare.
Aspettiamo un ritorno alla normalità, ma intuiamo che quando finalmente il virus sarà debellato il mondo come lo conoscevamo sarà cambiato, e l’impossibilità di conoscere non solo il quando ma anche il come e soprattutto il cosa ci aspetta è una esperienza che non eravamo pronti da affrontare.
Molte delle abituali certezze legate alla relativa prevedibilità della nostra vita si stanno sgretolando di fronte alla impossibilità di prevedere il domani.
Il problema è che continuiamo a pensare ad un futuro a breve termine, un futuro immediato, ignorando il fatto che dovremmo misurare il tempo in decenni: stiamo fissando il calendario dell’Avvento, mentre dovremmo concentrarci su quello dei prossimi cinquant’anni.
Se - come viene previsto da diversi studi scientifici - nel 2050 il riscaldamento globale raggiungesse i tre gradi, buona parte degli ecosistemi terrestri collasserebbero, dall’Artico all’Amazzonia alla Barriera corallina, il Mediterraneo diventerebbe inabitabile, la crisi idrica e l’implosione del sistema agricolo globale creerebbero almeno un miliardo di profughi climatici.
Grazie all’enorme sforzo congiunto di migliaia di scienziati di tutto il mondo il virus verrà sconfitto a breve termine, mentre attendiamo potremmo e dovremmo concentrarci sui molti problemi che dobbiamo affrontare ora se a pandemia finita vogliamo trovarci a vivere su un pianeta ancora abitabile.
Mentre aspettiamo la felicità, abbiamo la possibilità di domandarci che cosa sia. La felicità è come la giustizia, non può esistere a meno che tutti non ne possano godere, non c’è giustizia senza la volontà di riconoscere e rispettare i diritti altrui.
Lo slogan più usato durante la prima parte della pandemia, “andrà tutto bene” si è dimostrato oltre che ingenuo e lievemente infantile decisamente inadatto, è ora di dire “insieme ce la possiamo fare”.
Buon Natale.