L’arrabbiatura è un’increspatura dell’animo. Arriva quando il piano della calma si arriccia, fa una capriola in una tua faglia, schizza e lascia sgorgare la lava dell’irritazione che ti ribolle dall’interno.
Quella calma che cerchi di conquistare giorno dopo giorno sbuffa all’improvviso e dai suoi crateri sempre attivi genera eruzioni improvvise e impensati scoppi d’ira. Arrabbiarsi è percepire la folata di calore che ti batte rovente sulle tempie.
Calma piatta, quando non c’è vento
La calma stessa, del resto, quella che tu immagini “piatta” come la superficie del mare quando c’è bonaccia, ha a che fare con il calore. Questa parola ha un papà tardo latino, cauma, -ătis, che a sua volta era parente con il greco antico kaûma, che significava “vampa”, “forte calore”, “ardore”.
Ai tempi in cui ad Atene si costruiva il Partenone e al Pireo si accendevano fiaccole per farsi scorgere dalle navi sulla rada, il verbo kaio voleva dire “accendo”, “ardo”, “brucio”. Addirittura “consumo con il fuoco”.
La calma era dunque in origine legata al caldo. Lo sviluppo di significato da “calore” a “quiete” si è avuto in ambiente marinaro, dove la calura coincide con la mancanza di vento e quindi con l’immobilità. Sono stati i marinai, passeggiando preoccupati sui ponti delle loro barche a vela che non venivano gonfiate dal vento, a tornire in un altro modo il significato di questa parola, calma, piegandolo all’uso del mare, sovrapponendo la stasi al calore, la bonaccia alla vampa, il riposo all’ardore.
E così oggi di quel caldo temperato della calma percepiamo poco, se non scavando con la pala della nostra curiosità e con l’aiuto di qualche dizionario che riporta in sé le stille del ‘vero’, cioè dell’etimo.
Un’emozione passeggera
Quando ti arrabbi, quella calda calma, scompare, per arroventarsi all’improvviso, tra le fiamme della stizza. Talvolta l’attacco d’ira è momentaneo, poco più di uno sbotto, un eccesso di collera non indirizzato che ti fa alzare la voce e ti fa sentire il fiotto incandescente nella testa, raggrumato in tizzoni arroventati che infiammano la tua lucidità.
La rabbia per fortuna dura poco, qualche minuto o qualche ora, e non sfocia nell’odio. Pare quasi che, dopo che hai provato l’emozione, questa si dissolva, senza lasciare traccia del suo passaggio in te. È un’emozione passeggera, fa capolino all’improvviso e all’improvviso se ne va.
Quando arriva, nella testa si liberano sostanze chimiche. Gli scienziati dicono che è il setto laterale, una sottile membrana che si trova nella zona interna del cervello, a essere coinvolto quando ti arrabbi davvero. L’interruttore della rabbia sta lì: i neuroni si attivano e la loro attività accende quelle improvvise scariche. Quando i neuroni smettono di trasmettere impulsi, la rabbia scompare. L’arrabbiatura viene. E va.
Rabbioso come un cane
In senso non figurato, cioè senza l’elemento metaforico, simbolico e traslato della parola, arrabbiarsi aveva a che fare con la rabbia, la malattia infettiva virale trasmessa agli esseri umani dal morso del cane. Il decorso della malattia ha più fasi. Prima un periodo di incubazione della durata di 3-6 settimane. Poi un breve periodo in cui si manifestano debolezza, mal di testa e insonnia. Quindi un periodo di eccitazione, caratterizzato da convulsioni, spasmi della laringe e della faringe, vomito e che si può concludere con la morte, talora preceduta da paralisi. Ebbene, l’arrabbiatura deriva in primo luogo proprio da quella concretissima rabbia, da quel virus che il cane malato trasmette quando morde le persone.
Il significato figurato
Poi, da quel significato originario, la parola ha assunto appunto un significato figurato. Nella Notizia intorno a Didimo Chierico, Ugo Foscolo scrive: “La rabbia e il disprezzo sono due gradi estremi dell’ira: le anime deboli arrabbiano; le forti disprezzano: ma tristo e beato chi non s’adira”. L’arrabbiatura diventa per Foscolo una forma di debolezza, perché collegata a una mancanza di controllo. Come se quello stantuffo non riuscisse a essere tenuto a freno e lasciasse erompere quello che era imprigionato dentro, sotto forte pressione.
“Se il tuo cuore è un vulcano, come puoi sperare che nella tua mano sboccino fiori?”, ti chiede con la consueta capacità poetica, cioè poietica e quindi produttiva, Khalil Gibran, l’autore de Il profeta e Il giardino del profeta. La domanda non è per altre persone, la domanda è proprio per te. Se vuoi far passare l’arrabbiatura, leggere qualche pagina profumata di questo poeta libanese è uno strumento di grande efficacia.
Il monaco buddista vietnamita Thích Nhất Hạnh ha detto: “Quando ti arrabbi, ritorna a te stesso e prenditi molta cura della tua rabbia. Quando qualcuno ti fa soffrire, ritorna a te stesso e prenditi cura del tuo dolore, della tua collera”. Anche lui non l’ha detto a caso. Anche lui l’ha detto per te.
Iracondi, all’Inferno e al Purgatorio
Dante ti racconta dell’ira sia nell’Inferno che nel Purgatorio. Nell’Inferno è nel V cerchio, descritto nel VII canto. Dante, sempre accompagnato da Virgilio, ha da poco lasciato avari e prodighi. Il terreno su cui i due poeti camminano si fa più infido, le zolle di terra diventano pantano, inizia la palude stigia, dal nome del ruscelletto Stige (e styx, in greco antico, voleva dire abominio). Immerse nella melma, stanno genti fangose, nude, occupate a mordersi e a percuotersi fra loro.
Sono gli iracondi, coloro che in vita si sono lasciati trascinare dagli scoppi di rabbia senza controllo. E che immersi nel fango ora si battono tra loro, “non pur con mano, ma con la testa e col petto e coi piedi troncandosi co’ denti a brano a brano”.
Nel Purgatorio, chi in vita si era lasciato rapire dall’ira è costretto a purgare la colpa nella terza cornice. L’atmosfera è da film horror. Una nebbia fitta impedisce ai due poeti viandanti di vedere attorno a sé: camminano come ciechi, l’uno accanto all’altro.
Del resto, non è proprio il vizio dell’ira quel fumo interiore che acceca e soffoca la ragione, impedendo di distinguere, discernere e capire? Non è proprio la collera quel sentimento che avvolge tutto in una cappa di caligine e impedisce trasparenza e chiarezza di pensiero? Non è proprio l’esplosione della rabbia quell’impulso che ostruisce la vista?
Ecco, per Dante era così.
I pro e le cause della rabbia
Noi che siamo più indulgenti del fiorentino sappiamo che “la rabbia è una breve pazzia”: lo scriveva già Orazio, poeta romano vissuto nel I secolo avanti Cristo.
Anzi, arrabbiarsi è qualche volta utile per sfogarsi e per lasciare spazio all’indignazione. Arthur Ponsonby, politico e scrittore inglese, aveva detto che la rabbia “non solo è inevitabile ma è anche necessaria”. La sua assenza, secondo Ponsonby, denota indifferenza, “la più disastrosa delle mancanze umane”.
Il drammaturgo tedesco Bertold Brecht invitava a riflettere sulle cause dell’arrabbiatura: “Tutti a dire della rabbia del fiume in piena e nessuno della violenza degli argini che lo costringono”. Insomma, il perché dell’arrabbiatura è l’elemento sul quale interrogarci. La causa dell’arrabbiatura. L’origine dell’arrabbiatura.
L’impeto antico
Se non proprio l’origine dell’emozione, quanto meno l’origine della parola è presto detta: il verbo arrabbiarsi, come abbiamo visto, deriva da rabbia. Rabbia ha come papà il sostantivo latino rabĭēs, che significava “rabbia”, proprio la malattia trasmessa dai cani, ma anche “furore”, “furia”, “delirio”. Come oggi in italiano, un po’ malattia, un po’ emozione. Il verbo latino rabĕre voleva dire “essere infuriato”, “essere in collera”, “essere fuori di sé”. Cugini di quel verbo sono due parole del sanscrito, la lingua antica parlata un tempo sulle rive del Gange: il sostantivo rabhas, “impeto”, “violenza”, e l’aggettivo rabhasas, “impetuoso”.
Mi sento stretto, I’m angry
In inglese la persona arrabbiata è angry, da anger, “arrabbiatura”. La radice indoeuropea che ha generato queste parole in inglese, una ricostruita radice angh-, che significa “stretto”, “costretto a forza”, “doloroso”. Da quella radice antica sono gemmate molte parole.
Una è angina, il senso di soffocamento e di costrizione che ti comprime il petto fino a farti male. Antenato di angina era il latino àngina, con l’accento sulla prima a, attratto dal verbo angĕre, che significava “stringere”, “soffocare”, “opprimere”. Le vicende curiose della lingua portano talvolta a spostare il senso delle parole, talvolta a spostare la posizione degli accenti.
Un’altra parola parente di angry è l’italiano ansia, a sua volta sorella di angoscia, anch’essa derivata dal verbo latino angĕre. L’angoscia è un senso di strettezza che ti pervade e ti opprime. Non è rabbia, né arrabbiatura, né ira. Il latino angustĭa, che ha generato angoscia, è un derivato dall’aggettivo angustus, “stretto”, “ristretto”. Anche l’italiano angusto, cioè di piccole dimensioni, appartiene alla stessa famiglia linguistica.
In sanscrito aṃhús “stretto”, in russo úzkij “stretto”, in tedesco Angst “ansietà” sono tutte parole con la medesima origine, tutte affini all’inglese angry. Anche il verbo del greco antico ankho, “stringo, strizzo”, “serro” gli è parente.
Ma in greco antico per definire l’arrabbiatura non si usavano parole con questa radice. Per definirla ateniesi e spartani potevano usare due parole: una era lussa, “rabbia”, “furore”, l’altra era orgé, “collera”, “ira, sdegno”, da cui è derivato in italiano orgasmo. Ma questa è tutta un’altra storia…