La scienza ci aiuta a capire come è fatto il mondo e come funziona ed è in continuo divenire. A mano a mano che procediamo sul cammino della conoscenza non solo apprendiamo cose nuove, ma scopriamo fenomeni inattesi e problemi irrisolti che ci pongono nuovi interrogativi e ci suggeriscono ipotesi interpretative diverse, fino a dissolversi nell’ignoto e nel mistero. Come ben ci ricorda Edgar Morin: “Bisogna apprendere a navigare in un oceano d’incertezze attraverso arcipelaghi di certezza, e predisporre la mente ad aspettarsi l’inatteso e a tollerare l’imprevisto1.

Più volte nel corso della storia ci siamo illusi di essere giunti al capolinea della conoscenza. “Ormai in fisica non c’è più nulla di nuovo da scoprire. Tutto ciò che rimane da realizzare sono misure sempre più precise”, affermava Lord Kelvin nel 1900, pochi mesi prima che Max Plank, con l’introduzione alla fisica quantistica, sgretolasse l’impalcatura su cui si reggevano i concetti di materia, energia, spazio e tempo.

Del resto poche verità hanno resistito alla prova del tempo. Il Sole non gira intorno alla Terra e la Terra non è al centro dell’universo, tempo e spazio non sono fenomeni assoluti, la realtà non è come ci appare2 e l’uomo è il prodotto di un processo evolutivo che si perde nella notte dei tempi. La scienza è il luogo del dubbio, dei dilemmi, delle discussioni e della scoperta, non, come qualcuno vorrebbe farci credere, il regno della verità. La verità si addice alla fede non alla scienza.

Dal lineare al complesso: un salto di paradigma

La nostra idea di come funziona il mondo si basa tuttora sui principi messi a punto trecento anni fa da Galileo, Cartesio e Newton, secondo i quali il mondo è regolato da leggi matematiche precise e infallibili. Secondo questa prospettiva il mondo è concepito come una grande macchina che può essere smontata e studiata isolandone i vari componenti. La concezione meccanicistica del mondo ha rappresentato una tappa fondamentale lungo il cammino della conoscenza e le sue applicazioni hanno completamente trasformato le nostre vite. Basti pensare ai successi ottenuti nel campo della medicina, della farmacia, delle costruzioni, dei trasporti, dell’informatica e via discorrendo.

Tuttavia, dalla seconda metà del secolo scorso si è delineata una nuova concezione della realtà secondo la quale ciò che conta non sono gli oggetti ma le loro relazioni. Gli oggetti, infatti, non agiscono mai da soli ma si autorganizzano in sistemi complessi, i quali rispondono a leggi diverse da quelle lineari di causa-effetto che costituiscono la base della nostra educazione scientifica.

Ad un mondo meccanico scomponibile in elementi sempre più piccoli e dominato dai particolari tecnici e dalle specializzazioni si è aggiunta così una nuova dimensione della conoscenza, dove ciò che conta sono le interazioni, le retroazioni, la multidimensionalità, il contesto, l’autorganizzazione, l’imprevisto, il paradosso. Un mondo multidimensionale dove l’insieme conta più delle parti e gli oggetti formano un tutt’uno inseparabile con l’ambiente in cui sono inseriti.

Il miraggio della sicurezza

Se impariamo a riconoscerli scopriamo ben presto che i sistemi complessi (fisici, biologi e sociali) sono dappertutto: la cellula, il cervello, la città, le foreste, sono tutti esempi di sistemi complessi dentro i quali siamo immersi e dei quali non possiamo liberarci. Di questo fatto dovremmo esserne consapevoli perché tali sistemi non rispondono alla logica lineare bensì alle leggi della complessità.

Nei sistemi lineari le decisioni sono di tipo binario (sì o no) e i risultati delle previsioni sono tanto più attendibili quanto maggiori sono le informazioni di cui disponiamo. Per esempio, conoscendo le leggi della meccanica, i materiali utilizzati e le forze applicate siamo in grado di calcolare, con una minima probabilità di errore, come costruire un ponte o come mettere in orbita un missile.

Nei sistemi complessi, invece, le previsioni sono molto difficili, se non impossibili. Pur conoscendo nei minuti dettagli i vari elementi coinvolti non c’è mai la certezza di quello che potrà succedere. Si possono stimare le probabilità che si presenti un certo scenario, ma non si potrà mai avere la certezza del risultato e nemmeno escludere che prima o poi si manifesti un evento del tutto imprevedibile e di dimensioni catastrofiche: un cigno nero, come lo chiama Nassim Taleb3 o una pandemia come possiamo vedere in questi giorni.

Così, in un mondo globalizzato la scienza è spesso incapace di riconoscere le cause dei fenomeni e tantomeno è in grado di prevedere e di controllare le loro possibili conseguenze. La crescente interdipendenza tra i sistemi fisici, biologi e sociali, trasferisce, infatti, i rischi locali su scala planetaria. La novità della società del rischio risiede nel fatto che le nostre decisioni implicano conseguenze globali e pericoli che non siamo in grado di controllare, ci ricorda Ulrich Beck il famoso sociologo tedesco, autore del best-seller: La società globale del rischio4. In queste condizioni la sicurezza diventa un miraggio e l’incertezza parte costitutiva della condizione umana.

Decidere in situazioni d’incertezza

Riconoscere che nei sistemi complessi la sicurezza assoluta non esiste, non significa che dobbiamo affidarci semplicemente al caso. La disponibilità di informazioni, soprattutto quando le variabili in gioco sono tante e interdipendenti, rappresenta un elemento importante nell’orientare i processi decisionali e in questo senso le tecnologie digitali e le macchine dotate di intelligenza artificiale sono destinate a svolgere un ruolo sempre più incisivo nella nostra vita.

Tuttavia, l’imprevedibilità è una delle caratteristiche intrinseche dei sistemi complessi per cui essa può essere ridotta ma non eliminata del tutto. Il meglio che possiamo fare con le informazioni disponibili è calcolare la probabilità di ottenere un certo risultato. Tale probabilità, in ossequio a quanto ci insegna il Teorema di Bayes, si affina a mano a mano che miglioriamo le nostre conoscenze e acquisiamo nuovi dati, fino a confluire in convincimenti largamente condivisi. In ogni caso dobbiamo decidere con le informazioni che abbiamo ed essere pronti ad aggiustare il tiro.

Come abbiamo detto, sappiamo tante cose ma molte di più sono quelle che presumiamo di sapere o che non conosciamo affatto. In medicina, per esempio, i risultati della ricerca sono parziali, mutano nel tempo e spesso si prestano a molteplici interpretazioni, qualche volta perfino contrapposte. Le cose certe poi, non sono tantissime. Secondo la Cochrane Collaboration (una delle più autorevoli banche dati internazionali che raccoglie e sintetizza i risultati delle migliori ricerche disponibili), solo l’11% di ciò che costituisce la pratica clinica corrente si basa su valide prove scientifiche5.

Del resto, durante la recente epidemia abbiamo visto tutti quanto sia fragile il nostro sapere. Conosciamo nei minimi dettagli la struttura del virus ma sappiamo ancora poco di come esso agisce sul nostro corpo e soprattutto come interagisce con i sistemi biologici e le organizzazioni sociali. Ci concentriamo sulle parti ma ignoriamo l’insieme e non riusciamo a cogliere l’essenza dei problemi nella loro globalità.

Nel caso dell’epidemia, trattandosi di un problema sanitario l’attenzione si è concentrata sui medici e in particolare sui virologi, che sono stati chiamati a decidere anche su questioni di cui sono poco competenti come la comunicazione o il controllo sociale dei comportamenti. Con tutto il rispetto per i virologi, sarebbe come se si affidasse il compito di fare il piano del traffico di una grande città a dei bravi meccanici: un conto è saper smontare e rimontare una macchina in officina, tutt’altra cosa è gestire le automobili quando si muovono in una metropoli. Le competenze specialistiche sono essenziali ma le decisioni devono prendere in considerazione saperi e punti di vista diversi e devono mediare tra esigenze plurime, spesso in competizione tra loro.

Non disponendo di un vaccino e di valide cure, gli interventi più importanti per la prevenzione e la soppressione di una epidemia sono quelli che agiscono sui comportamenti delle persone e sull’ambiente fisico e sociale. Eppure tali interventi richiamano poca attenzione e pochi investimenti nel campo della ricerca. Basti ricordare che al 1° ottobre 2020, su 1.427 studi registrati, relativi al Covid-19, solo 8 (0,5%) hanno preso in considerazione tali tipologie d’intervento. Sarebbe come se di fronte ad un incendio ci occupassimo solo di curare bene gli ustionati (cosa peraltro importantissima) senza considerare i possibili modi di domare le fiamme, spegnere i focolai e mettere in salvo le persone.

Alcune considerazioni finali

Di certo oggi il mondo è molto meno misterioso di un tempo ma resta comunque ricco di incognite e di sorprese. Chi parla in nome della scienza dovrebbe esserne consapevole e abbandonare la presunzione di avere la risposta “giusta” ad ogni quesito. Ciò, infatti, si scontra con la realtà e disorienta le persone, dato che spesso gli “esperti” hanno opinioni diverse, sono influenzati da interessi particolari e non danno spiegazioni esaurienti circa le prove su cui basano i loro convincimenti o le ragioni per cui respingono quelli da cui divergono.

Gli esperti dovrebbero utilizzare le loro specifiche competenze per aiutare il pubblico ad interpretare ciò che accade, distinguendo le opinioni, i punti di vista e i legittimi convincimenti da ciò che è stato dimostrato scientificamente, perlomeno quando ciò è necessario, ben sapendo che non tutto ciò che conta nella vita è scientificamente dimostrabile. Nella vita, per quanto riguarda la felicità, le emozioni, i piaceri, o nella letteratura e nell’arte, non c’è bisogno di avere un atteggiamento scientifico. Rilassiamoci e godiamoci la vita7.

Dal canto loro, i decisori politici, la comunità scientifica e i giornalisti (soprattutto quelli che si dichiarano scientifici) dovrebbero promuovere un ambiente culturale e sociale antidogmatico, trasparente, esente da conflitti d’interesse e aperto al dialogo interdisciplinare, in modo da aiutare le persone ad orientarsi tra la massa crescente di dati e di informazioni, spesso contrastanti.

Bisogna riconoscere che di fronte a problemi complessi non basta attenersi alle migliori conoscenze scientifiche, occorre prepararsi a gestire anche ciò che non conosciamo e adottare le decisioni in situazioni d’incertezza in uno spirito di responsabilità e di cooperazione interdisciplinare. Ciò significa assumersi il rischio delle decisioni ed essere pronti a modificare le strategie in funzione delle nuove opportunità e dei cambiamenti che via via si registrano nelle conoscenze e nel contesto di riferimento, cogliendone, per quanto possibile, i segni premonitori. Ciò evidentemente non giustifica qualsiasi decisione. Gli errori vanno individuati e analizzati con misura e senso critico.

In un mondo interconnesso abbiamo capito che nessuno può agire in modo isolato, abbiamo riconosciuto il valore della solidarietà e appreso che ciascuno deve assumersi le proprie responsabilità, contribuendo, per quanto possibile, alla soluzione dei problemi ed evitando di manifestare ad ogni imprevisto reazioni incontrollate di ansia, panico e reciproche accuse d’incapacità.

Bibliografia

Morin E: I sette saperi necessari all’educazione del futuro. Raffaello Cortina Editore, 2001.
Rovelli C: La realtà non è come ci appare. Raffaello Cortina Editore, 2014.
Taleb N: Il cigno nero. Il saggiatore, Milano 2009.
Beck U: La società globale del rischio. Asterios, 2001.
BMJ Evidence Center: Clinical Evidence Handbook 2012.
Behavioural, Environmental, Social and Systems Interventions (for pandemic preparedness).
Feyman R: Il senso delle cose. Adelphi Edizioni 1999.