Stephen Hawking espresse la sua preoccupazione riguardo alla continua innovazione tecnologica che porterà inevitabilmente a sostituire anno dopo anno il lavoro umano con quello robotico: questo avvicendamento progressivo, a suo parere, potrà creare uno dei più grandi pericoli che il genere umano abbia mai affrontato. Chiaramente, in ambito transumanista, una posizione del genere non solo non è condivisa ma addirittura rifiutata in blocco, laddove la commistione tra intelligenza artificiale e coscienza umana è vista unilateralmente come l’unico e vero progresso della civiltà.
Dal mio punto di vista (non posso certo esimermi, proprio riguardo a quest’argomento, quale fondatore del Nuovo Rinascimento) quest’atteggiamento dogmatico, unilaterale del transumanesimo è invece un errore. Non c’è il minimo dubbio che la tecnologia sia uno strumento formidabile per potenziare le possibilità umane ma in quanto tale dobbiamo essere consci anche dei pericoli che essa può provocare. È un atteggiamento del tutto ingenuo quello di credere che il futuro sia solamente progresso tecnologico.
Recentemente in Giappone è stato inaugurato un hotel dove il lavoro è interamente gestito da robot umanoidi; a discapito dei lavoratori licenziati, il risparmio e il livello di efficienza, per l’azienda, sono stati enormi. In Arizona tra poco verrà inaugurato un servizio di taxi a guida completamente automatizzata. Tornando in Giappone è stato attivato il primo commesso robotico in un esercizio commerciale, dalle spese di almeno tre quarti inferiore a quelle di un umano. Questo è solo un piccolo esempio di alcuni degli ambiti lavorativi che, di fatto, sono già nella fase di sostituzione uomo-macchina. Da varie statistiche la quantità di lavoratori, a fronte di un aumento della popolazione mondiale esponenziale, scenderà del 50% nel giro di pochi decenni.
Questo non è un semplice cambiamento generazionale ma una vera e propria rivoluzione storica che sta affrontando la comunità umana presente e prossima ventura. Essere privati del lavoro comporterà per gli esseri umani uno stravolgimento completo della propria vita: il codardo ne avrebbe paura, il temerario cavalcherebbe il cambiamento a prescindere dalla sua reale positività o negatività. Io, alla paura e alla temerarietà, preferisco il coraggio. Dal mio punto di vista coraggio in quest’ambito significa soffermarsi a riflettere, affrontare la questione senza timori, prevedere in base alla nostra esperienza i risultati sapendo che le incognite sono comunque dietro l’angolo, come sempre.
Il punto di partenza per un pensiero lucido e realistico in tal proposito consiste in una domanda: il lavoro è schiavitù o realizzazione? Già il fatto che la risposta potrebbe essere un generico dipende, lascia trapelare che tutta la questione non è così facile da affrontare come potrebbe sembrare. Poniamoci allora un’altra questione: il lavoro che costringe l’essere umano alla fatica è di per sé negativo? Non basta ancora, anche in questo caso potremmo rispondere con un dipende. Già perché se ottengo il risultato sperato con la giusta fatica, l’opportuna caparbietà ed un certo grado di intuizione, il mio stato di realizzazione ed esperienziale sarà massimo; se lo stesso risultato lo otterrò come se fosse “calato dall’alto”, improvvisamente e senza alcuna fatica, il mio stato interiore vivrà sì l’euforia momentanea del successo ma in una condizione completamente instabile, perché mancante dell’avvenuto processo, della propria storia di lotte sconfitte e vittorie per ottenerlo, di sudore per raggiungerlo, di sangue versato (sperando che sia solo metaforico) per arrivarci.
Facendo questa constatazione preferirei affermare allora che il lavoro di per sé non è né positivo né negativo; piuttosto è corretto dire che è il modo in cui si lavora ad essere determinante per definire la vera qualità della vita. Trasponendo il discorso dalla teoria alla pratica, la tecnologia può aiutare ma non deve sostituire. Il lavoro, infatti, ci serve: serve alla nostra psiche, al nostro intelletto, ai nostri sentimenti e alla nostra autostima. Piuttosto è giusto dire che, se non per motivi di mera sopravvivenza, dovremmo rifiutare un lavoro che ci costringa ad una vita che non ci appartiene, che ci obbliga ad uno stato di subordinazione asfissiante e ad una gerarchia autoritaria e cieca, ad una fatica non ricompensata dalla nostra realizzazione ma finalizzata al raggiungimento di risultati unicamente voluti e decisi da altri, con obiettivi che a ben vedere la maggior parte delle volte si ritorcono proprio verso di noi.
Il lavoro deciso da noi, voluto da noi e che mira all’obiettivo fortemente cercato da noi è invece un’estensione del nostro Io, è l’espansione del nostro essere che va ad interagire con il prossimo e con il mondo, è la forza motrice individuale che muovendosi con le energie degli altri nostri simili può davvero dare linfa alla società in cui viviamo.
Il lavoro deve migliorare e deve servire ad ampliare la nostra libertà. Questo deve essere il suo fine. Nel momento in cui, ad esempio, non potremo più guidare personalmente un veicolo, perché ci sarà solo un pilota automatico da impostare ad inizio corsa, non saremo più liberi come prima. Ci venderanno l’idea e il piacere della guida assistita con la consueta promessa di libertà e con l’immancabile sicurezza: mentre il veicolo ci condurrà dove desideriamo, potremo infatti non essere attenti alla strada e collegarci tranquillamente ad uno smartphone, ad un tablet, ad una tv. Tutto questo ci illuderà di essere più liberi di prima. Sarà invece il contrario. Perché libertà è anche e soprattutto avere la possibilità di sbagliare, magari prendendo una strada apparentemente più lunga ma che poi si rivelerà portatrice di una novità, di una scoperta, di un luogo mai conosciuto e chissà, forse meraviglioso, raggiunto apparentemente solo per caso. Quasi tutte le scoperte che cambiano il mondo e le nostre vite, incontri compresi, avvengono casualmente, spesso proprio in seguito a quello che definiremmo comunemente un banale errore.
Lasciare la possibilità di sbagliare è quindi il vero atto di coraggio. Molto di ciò che vogliono descriverci come visione tranquillizzante della vita, come l’abbandonarsi al pensiero che la tecnologia di per sé ci farà sempre e solo vivere meglio, alla fine invece torna ad essere un atto di paura, seppur mascherato.
Io, e son fiero di dirlo e di ripeterlo ad ogni occasione, ho mille difetti ma non sono un codardo. Credo profondamente nella libertà dell’individuo e in ciò che può insegnare l’esperienza: chi vede la tecnologia solo come il mezzo ideale per eliminare gli errori automatizzando la nostra vita, così come al contrario chi demonizza in toto la scienza per il terrore del progresso, compie un atto di codardia che non posso in nessun modo condividere né alimentare.
Lottiamo con tutte le forze per conservare la libertà di sbagliare e di scoprire, di conseguenza, nuovi mondi e nuovi universi. E visto che microcosmo e macrocosmo coincidono, difendiamo la libertà per conoscere meglio anche noi stessi.